venerdì 30 aprile 2010

Il viaggio e la scomparsa della geografia. Liverpool.

La continuità è inaspettata.

Due città di mare; due città che hanno fondato la loro fortuna sul commercio, durante due rivoluzioni economiche speculari (la prima nel secolo 12, la seconda all’alba del 19); due città che hanno attraversato una profonda depressione, ancora rintracciabile in dolenti cicatrici architettoniche; due città che hanno precorso i tempi.

Entrambe hanno mischiato il loro sangue a quello di genti ed etnie diverse; entrambe hanno ereditato un intreccio culturale formidabile, tesaurizzandolo in sublimi tradizioni musicali; entrambe hanno inspirato artisti e poeti tra i maggiori dei nostri tempi.

Genova e Liverpool hanno attinto a piene mani dalla loro storia per ricostruire i loro traumi; per raccogliere i cocci ed immaginare un futuro.

Genova è stata aiutata dalla sua pianta urbanistica, dalla sua inaccessibilità, dai suoi abitanti schivi, da un paese essenzialmente incurante ed ignorante del suo patrimonio culturale.

Liverpool, ironia della sorte, è stata parzialmente tradita dalla sua storia recente; spesso dove si voleva conservare e valorizzare, si è tipizzato e “turistificato”; dove si voleva rinnovare e ristrutturare si è deturpato e disarmonizzato.

Non è un fenomeno che ha interessato in toto la città, per fortuna; sopravvivono ancora “luoghi veri”, angoli tipicamente inglesi e legati alla storia di una città marittima, senza dubbio una delle più belle del Regno Unito.

Tuttavia la furia di ristrutturazione e l’esecrabile desiderio di svecchiare ad ogni costo hanno causato, come al solito, danni di vaste proporzioni e aborti architettonici, totalmente avulsi dalla realtà circostante.

Uno di questi è il Liverpool One, una sorta di gigantesco outlet, un mostruoso centro commerciale all’aperto, progettato per risollevare economicamente la città. Enormi costruzioni moderne di acciaio vetro e cemento, dalle forme più improbabili e disarmoniche, si snodano per strade (Paradise Street, nomen omen) che sanno di set cinematografico, ospitando i negozi alla moda e magnetizzando il turismo di massa.

Gigantesco lo è davvero: la zona racchiude un intero quartiere, gran parte del vecchio centro bombardato nel ’42, del quale fino a due anni fa non restavano che macerie e canali dismessi, in una specie di palude artificiale disabitata e dove si mischiavano il Mersey e gli edifici.

Per “rivalorizzare” l’area, si è voluta costruire una città nella città, creando nuovi spazi a misura di consumatore; l’errore è che non si è tenuto conto del vecchio assetto urbanistico di Liverpool.

Risultato: si è costruito un immenso negozio, anziché ristrutturare; e, come un negozio, il centro commerciale pulsa e vive fino alle 5 di pomeriggio, per poi svuotarsi la sera (gli universitari – chi lo avrebbe mai detto? – preferiscono la zona vecchia) e restare deserto come un quadro metafisico.

Ciò significa che nemmeno gli Scousers avvertono come loro quella parte di città, e passano le loro serate, più o meno alcoliche, in zone diverse; la più bella è, come spesso accade in molte città anche in Italia, la zona universitaria.

Camminando per quelle quattro vie parallele, intasate di corpi, locali, pub e negozietti di indiani aperti fino a tardi, ho la netta sensazione di vivere una città “reale”, che non recita parti.

Ragazze seminude (10 gradi e vento atlantico) che s’incipriano per strada, truppe di giovani che cantano a squarciagola, risse tra ubriachi sedate dai cops con il ridicolo berretto a scacchi, pubs nei luoghi più improbabili che ospitano decine di band dal vivo (in una sola serata ho assistito gratuitamente ad almeno 3 concerti).
E la gente sta ad ascoltare!

Allora cominci a capire che il rapporto tra musicista e ascoltatore è molto più stretto di quanto noi continentali possiamo immaginare.

Si può davvero dire che la musica è un “collante sociale”, che unisce le persone e che crea identità; o almeno lo è ben più della poesia o della tradizione culturale scritta.
(Esempio tra i tanti: chiedendo in libreria un classico della letteratura inglese, il commesso, sguardo stralunato davanti a questo turista e alle sue richieste eclettiche, ha dovuto guardare sul computer per capire di che si trattasse.)

Anzi, al contrario, mi ha sempre stupito la pressoché totale mancanza di interesse o cura (estetica e culturale) che talvolta gli inglesi dimostrano del proprio patrimonio artistico.

C’è un mito da sfatare; bisogna smettere di pensare che “solo in Italia queste situazioni!”, e osservare le condizioni in cui spesso versano i beni culturali in paesi reputati più civili del nostro.

Il legame culturale, dunque, è ben più intimo e necessario con la tradizione musicale: è la fascinazione antica del cantastorie, è la bellezza del racconto musicato dell’ “ancyent marinere”.

Questo è il vero significato della rivoluzione del beat inglese dei ’60, rivoluzione nata proprio a Liverpool, città depressa e senza apparenti speranze di rinascita.

Era una città che si appropriava socialmente di soluzioni artistiche fin a quel momento avvertite come estranee (americane, negre); era la poesia ormai inefficace e lontana che lasciava spazio a una nuova fonte di emozioni e narrazioni.

Se ne rendevano conto in pochi allora, la novità era straordinaria e non lasciava tempo per riflettere; ma il beat “was there to stay”.

Non sorprende che gli spiriti più fini e gli osservatori più acuti ci abbiano lasciato testimonianze significative di questo cambiamento epocale, destinato ad essere esportato in tutto il mondo come “nuova arte”, nata e cresciuta nel pieno della società postmoderna.

(Suppongo che sia proprio quando la parola rinuncia al suo status di potere che la musica debba entrare vittoriosamente in campo e (ri?)appropriarsi dei diritti dimenticati.)

Il più famoso manager dei Beatles, Brian Epstein, se ne era reso bene conto.
Così anche i poeti del merseybeat, un movimento poetico nato in quegli anni frenetici, che cercava di tradurre in poesia la potenza beat della “Word of Love”.

Magistrale in questo caso The Mersey Sound, raccolta di poesie di tre autori di Liverpool (presenza assidua in tutte le poesie), purtroppo poco conosciuti in Italia – Adrian Henri, Roger McGough e Brian Patten – che riuscirono nell’ingrato tentativo di far respirare aria nuova e fresca alla lirica inglese: il libro divenne un bestseller, ed entrò negli annali come uno dei libri di poesia più venduti di sempre in Inghilterra.

Non è un caso che, tra le molte piacevolissime poesie della raccolta, alcune siano state scritte e pensate proprio come testi musicali (Batpoem, Car Crash Blues, A Square Dance).

Anzi, si potrebbe azzardare e dire che l’intera raccolta è un tentativo più o meno mascheratamente verlainiano di esportare la musica nel verso: ovvero “De la musique avant toute chose”.

Né è un caso che, nella poesia Me, dove Henri gioca con i nomi di artisti famosi e pensa a chi gli piacerebbe essere se non fosse Henri, il primo nome citato sia quello di Paul McCartney.

Da allora la beatlemania non è mai cessata. L’impatto devastante dei quattro di Liverpool continua a smuovere capitali e masse; la loro musica è entrata in quella terra di nessuno (e quindi di tutti) che la difende dall’invecchiamento e la trasforma in mito; a Liverpool hai la certezza che non solo si è scritta una pagina di storia della musica, ma anche e soprattutto la prefazione e il primo atto del grande cambiamento culturale europeo.

Credo tuttavia che l’orgoglio sfrenato dimostrato dalla città per i suoi Beatles (orgoglio spesso ridondante e ridicolo) sia anche e soprattutto una reazione ad un’altra ben più pesante eredità storica.
Liverpool fondò la sua ricchezza economica sullo schiavismo.
Pochi sanno che nella seconda metà del secolo 19, la città da sola controllava più del 80% del traffico di schiavi d’Inghilterra e il 41% di quello europeo.

L’anima nera del capitalismo della prima rivoluzione industriale si è appropriata indelebilmente di alcune zone della città.

L’Albert Dock, un capolavoro dell’architettura portuale di tutti i tempi, frutto del genio di Jesse Hartley, nonostante l’eccellente lavoro di ristrutturazione e rivisitazione turistica, trasuda dalle sue pietre ancora qualcosa di quell’antica vergogna.

Quell’incredibile chiostro portuale, dove le navi potevano deporre direttamente il loro carico senza alcun bisogno di manodopera umana, in un processo quasi automatizzato, fu la ricchezza di Liverpool, al prezzo di centinaia di migliaia di vite umane vendute al migliore offerente.

Così lo skyline maestoso che si può godere dal Pier Head, con le “Three Graces” in primo piano sul mare e in lontanza la Anglican Church (sesta chiesa più grande del mondo), non può non colorarsi di tinte più fosche, nella consapevolezza che, mattone su mattone, quella ricchezza proveniva anche dalla tratta di vite umane.

venerdì 23 aprile 2010

Le colpe dei padri

È il 24 aprile 2009. È un caldo venerdì pomeriggio, già carico di maggio.
Percorro la strada per Marina senza fretta. Alla mia sinistra, oltre l’altra corsia, le fabbriche ormai rugginose di Deserto Rosso; davanti a me il cavalcavia, poi il rettilineo verso il primo finesettimana di mare.
È un obbligo, un simbolo, un rito; non puoi sottrarti al primo happy hour, per quanto agorafobico o pigro tu possa essere.

La maggioranza dei miei coetanei sarà in spiaggia stasera; un opaco bicchiere di plastica in mano, ondeggiando piano al ritmo della musica; un sorriso che preannuncia le vacanze non ancora soffocate dalla caligine della noia.
E anche se si parlerà delle solite cose, scuola relazioni aneddoti progetti, so che questo è il momento migliore per godermi un po’ di vita.

Vedo la striscia greve della pineta avvicinarsi. Credo lascerò la macchina al parcheggio per proseguire a piedi. Non si sa mai; sono 15 minuti di cammino ma non voglio finire imbottigliato come al solito.

Passo il ponte e freno di colpo.
Davanti a me una fila argentea d’automobili si snoda a perdita d’occhio.
Qualche urlo di clacson s’intromette tra i suoni dei Beach Boys. Un incidente. Non ho mai visto fila a questa altezza, così lontano dai bagni. Anzi, di solito è proprio questo rettilineo in discesa il punto preferito per testare il limite di velocità della macchina nuova.

Rimarrò seduto sul sedile, grondante di sudore e rabbia per altre tre ore.

Sarò trasportato come su di un nastro trasportatore per tutto il tragitto ad una media di 5 chilometri l’ora;
gente ubriaca colpirà i miei finestrini con mani scarpe e bicchieri; assisterò ad una rissa;
finirò due volte Pet Sounds;
passerò ironicamente davanti al mio bagno senza potere parcheggiare;
vedrò almeno 5 persone vomitare al lato della strada;
constaterò un’inspiegabile assenza delle forze dell’ordine;
tornerò in città; dovrò fermarmi al passaggio a livello per lo scalo di un treno merci e, una volta a casa, andrò a dormire.

La causa dell’indigestione di macchine a Marina è stata collegata all’imprevisto arrivo di più di 40 corriere emiliane dirette ad un famigerato stabilimento balneare, cariche di universitari(e) e giovani pieni di voglia di divertirsi e imbottiti di alcol.

Secondo la stampa le corriere erano state organizzate dallo stesso stabilimento per festeggiare l’apertura della stagione, ma evidentemente le autorità non erano state avvertite a dovere della quantità di turisti più o meno sessuomani che sarebbero sbarcati sulle nostre spiagge.

Le forze dell’ordine erano del tutto impreparate ad una tale affluenza di macchine e gambe.
Risultato, più o meno prevedibile: molto lavoro per gli operatori ecologici, molte ambulanze, lamentele e accuse per mesi e drastico cambio d’idee riguardo alla riviera e alla sua funzione.

È da quel giorno di smog e birra che il sindaco ha lanciato la cosiddetta campagna anti-sballo.
È dunque quasi un anno che l’attenzione della giunta è concentrata sulla propaganda salutista e proibizionista; non conosco nessun mio coetaneo che non ne sia al corrente; e, di quelli che conosco, pochi sono completamente d’accordo con i provvedimenti restrittivi che sono stati presi per arginare il “problema sempre crescente dell’alcool nelle nuove generazioni”.

Basta fare un giro su Facebook e contare il numero degli iscritti ai gruppi che sono stati creati per sbeffeggiare apertamente o manifestare la propria irritazione circa le scelte del sindaco; non solo, credo che sarebbe molto utile calcolare la media dell’età degli utenti, per capire meglio quali generazioni in particolare non si dichiarano favorevoli.

Le ragioni di tale dissenso, nonostante il fine della campagna sia indubbiamente un fine nobile e giusto, non sono difficili da comprendere.

Solo uno stupido potrebbe dichiararsi contro i provvedimenti salutisti del comune. Nessuno, d’altronde è a favore dell’alcolismo, nemmeno gli alcolizzati, credo.
Nessuno è a favore del consumo incontrollato di alcolici di pessima qualità e di conseguenti risse o visite dal dentista.
Nessuno, logicamente, crede che sia giusto che un sedicenne si ubriachi e si spezzi le vertebre contro il guardrail ogni venerdì e sabato sera.

Allora perché tanto astio nei confronti di questa campagna?

Un primo innegabile problema è che molti sono infastiditi dall’atteggiamento proibizionista del sindaco.

Non è una questione di moralità; valore che purtroppo, molto spesso e a sproposito, è stato paternalisticamente tirato in ballo nelle pessime pubblicità contro lo sballo e contro gli happy hour; pubblicità che si possono vedere appese per le strade del centro e tatticamente di fronte ai licei e alle scuole della città.

Il fastidio nasce, più concretamente, dalla conoscenza che ci viene dalle scienze sociali, dalla psicologia e dalla storia – conoscenza ormai di dominio pubblico – e che potrebbe essere semplificata fino alla banalità nell’asserzione vecchia come l’uomo che “quanto più si proibisce, tanto più si tende a trasgredire alla proibizione.”

Il piacere della trasgressione (parola che ormai ha perso ogni connotazione di valore) è inestirpabile.
Ma su questo forse non tutti sono d’accordo.

Un altro grave errore che il sindaco ha commesso nella sua campagna, è stato quello di responsabilizzare oltre ogni misura il ruolo giocato dai giovani.

La scelta di indirizzare soprattutto ai neodiciottenni e ai ragazzi delle scuole superiori i suoi ammonimenti e i suoi consigli non ha fatto che peggiorare la situazione.

I ragazzi si sono sentiti colpevolizzati dalle parole del sindaco, umiliati per le pubblicità ridicole e paternalistiche (sempre che abbiano avuto un qualche effetto in positivo, senza contare la spese di realizzazione), infastiditi dai modi e dal tono della campagna anti-sballo.

Tristemente famosa la foto che ritrae il sindaco rovesciare in un tombino un secchiello pieno di alcol; gesto pletorico e retorico che non credo abbia avuto altro effetto se non quello di tirarsi addosso ancora più antipatie e malcontenti.

Sinceramente non credo che nel 2010 ci sia bisogno di ribadire a ragazzi adolescenti il pericolo dell’alcol e delle droghe. Sono infarciti di conoscenze e spauracchi medici sul pericolo e sulle malattie legate al consumo di sostanze stupefacenti; spesso al punto che l’azione che si riteneva di contenimento e di prevenzione, finisce per rovesciarsi e creare atteggiamenti di non-curanza e menefreghismo.

Fare finta di non saperlo, forse per cercare una spiegazione plausibile per un consumo che non accenna a diminuire, equivale semplicemente a trattarli da stupidi e comportarsi ingenuamente.

Accusare i ragazzi della degradazione che la riviera ha subito negli ultimi anni è un grande errore.

Distoglie rischiosamente l'attenzione da altre colpe che vanno ricercate in profondità e che sono state commesse quando ancora questa generazione era in fasce, e l’alcool lo assumeva solo sulle ginocchia sbucciate.

Invece di continuare a chiedersi come risolvere il problema dell’alcolismo, perché non cercano piuttosto le ragioni storiche e sociali di tale comportamento?

L’origine, come troppo spesso accade, è meramente e terribilmente economica.


Chi ha inventato l’happy hour aveva a cuore più i suoi guadagni che la salute del fegato dei suoi figli.

Allora forse s’incomincia a capire che il modello della tragedia greca è ancora paurosamente valido e che, come allora, le colpe dei padri devono essere pagate dai figli.

In vari modi le conseguenze si abbattono su generazioni che non sanno come reagire, come resistere all’offerta di alcool e divertimento ad un prezzo in apparenza basso, pagato con rincari considerevoli da un corpo prematuramente sfinito dall’alcool.

Non c’è campagna salutista tanto efficace da far cessare questo vizio collettivo, né predica crepetiana tanto noiosa da convincere il figlio reprobo ed alticcio che il vero sballo è dire “no” ed è meglio rimanere sobrio a guardare gli amici ubriacarsi e provarci con le ragazze. Perdite di tempo, soldi e voti.

Prima di concludere vorrei precisare ancora una volta, a scanso di commenti o reazioni ad una mia presunta amoralità, che non sono contrario al fine dei provvedimenti del comune; mi risultano invece intollerabili e fastidiosamente retorici i mezzi di tale campagna.

È meglio che il sindaco (o chi per lui) escogiti qualcos’altro, poiché prevedo che questa stagione non si discosterà più di tanto dalla scorsa: i ragazzi continueranno ad ubriacarsi, magari portandosi l’alcool da casa e gli stabilimenti continueranno ad ingrassare sulla salute dei consumatori.

mercoledì 21 aprile 2010

Nuova poesia esoterica

NUOVA POESIA ESOTERICA

Recensione della raccolta "Altrove" di Matteo Zambrini



La poesia che Matteo Zambrini ci propone nella sua prima raccolta, intitolata significativamente “Altrove”, risente dell’imprescindibile congiunzione fra spirito terreno e spirito ultraterreno, rivelata nell’intima natura circolare che tale lavoro assume nel corso del suo svelarsi al lettore.
Zambrini penetra un mondo duplice, il mondo del “qui” e quello dell’”altrove”, unificando l’andamento di queste realtà attraverso un sapiente uso della parola, carica di suggestioni metafisiche e capace di proiettare il sentimento al di là della coltre materialistica tanto cara alla contemporaneità.


Una poesia, dunque, che rende attuali alcuni fra i temi portanti della grande poesia esoterica del novecento: dalla lirica cosmica di Arturo Onofri (In questa zolla di cosmo / di un baratro si scorge il fondo / e forse so di cosa soffro), passando attraverso densi confronti esistenziali che ricordano alcuni passaggi del Pessoa più ermetico (il tu e l’io / son terre aride / riarse di luce riflessa), per giungere infine alla dimensione “iniziatica”, ricorrente in diversi momenti dell’opera.


In Stanze si legge infatti quasi un monito a non oltrepassare la percezione sensibile nel tentativo di esplorare zone a noi precluse dall’esistenza quotidiana (Non visitare / Le stanze segrete del mare / Nel mare stesso / La ragione perderesti) per restare laddove la vita non chiede altro che di essere vissuta nelle sue manifestazioni più “accessibili” (Contentati di mormorii di conchiglie / E giochi di correnti / Non oltre risiede la felicità).


Diverso è il messaggio che traspare da Un nido, in cui la selva oscura di dantesca memoria rappresenta la grande ombra che ognuno di noi deve attraversare per giungere alla consapevolezza si sé (Ma tu stesso all’alba / Penetra la fitta foresta / E nessuno spezzi rami per te).


La ricerca di una dimensione “altra” viene svelata anche nelle liriche descrittive: in Mattino, ad esempio, porte socchiuse / tralasciano scorci indistinti / lingue di luce scucita / sospesa sui bordi dell’anima , mentre in Notturno voci di un buio primigenio / Cantano la cifra limpida / del tuo iride immutato.


Il giorno e la notte si fanno messaggeri di realtà superne, di cui l’uomo riceve gli influssi necessari per poi volgersi, con occhio maturo, alla contemplazione di quel che lo circonda (All’imbrunire lasciar / pendere lo sguardo / sulle gote d’un colle / incinte di un / bisbiglio primigenio (…) sentire vivo il sottosuolo / pesarmi il passo / votarsi a cicli sommersi).


Una poesia misteriosa, protesa verso quell’altrove che, come diceva Rudolf Steiner, ognuno è in grado di penetrare una volta affrontata la preparazione spirituale necessaria.





Matteo Zambrini, Altrove, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena 2009, pp. 37

domenica 18 aprile 2010

La conquista della letteratura

LA CONQUISTA DELLA LETTERATURA:
Postfazione a "Tre dialoghi" di Iacopo Gardelli
Sentire tutto in tutte le maniere,
Vivere tutto da tutte le parti,
essere la stessa cosa in tutti i modi possibili allo stesso tempo.
- Fernando Pessoa



La totalità dell’esperienza sensibile, colta al momento dell’evoluzione spirituale che muove dal mondo terreno a quello ultraterreno, rappresenta, nel dialogo intitolato La morte di Eraclito, la comunione con il tutto, resa possibile da una precisa presa di coscienza: il Conflitto, ciò che sta alla base delle leggi del cosmo, è da intendersi come principio armonico e costruttivo, fautore di un ordine-nel-disordine.

Eraclito, instabile fra due mondi, coglie con quel che resta del suo corpo sensibile alcuni aspetti propri di una nuova realtà; lo stesso vocabolario tende ad unificare due modi diversi di intendere il reale, provando da una parte a rendere partecipe Cratilo, ancora di apparente salvezza, del viaggio appena intrapreso, e dall’altra cercando di volgere ogni grammo di spirito alla conoscenza che ora illumina di nuova luce le cose rendendo i loro contorni più netti.

Guarda il mio corpo! Cosa mi succede? Ho rotto gli argini, è vero? Sto esorbitando, le membra non reggono più. Tra poco uscirò da me stesso, Cratilo; queste parole testimoniano l’oscillazione dell’anima, intesa antroposoficamente come elemento di contatto fra la coscienza e la realtà, da una sfera all’altra dell’universo, dal mondo sensibile a quello soprasensibile.
Rudolf Steiner, nel commento a Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, interpreta il sentirsi come al centro di una tempesta del protagonista proprio in questi termini: l’anima, partecipe del corpo etereo, si allontana dalla percezione corporea e quindi dalle forze cosmiche irrigidite in forme stabili. Ciò che si trova al di là del corpo materiale è proprio la mobilità della sfera sovrasensibile, che rischia di traviare l’esperienza animica, se il soggetto non ha affrontato prima un’adeguata preparazione su di sé.

Eraclito, nel suo “esorbitare”, testa le sue capacità spirituali nel tentativo di descrivere il passaggio al mondo ultraterreno, utilizzando ciò che di più tipicamente umano egli possiede: il linguaggio. La parola si fa quindi tramite fra due mondi, curva di congiunzione fra materiale ed etereo.

L’antroposofia è una via della conoscenza che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo recita la prima massima antroposofica. Il filosofo efesino penetra coscientemente il mistero del tutto, ricongiungendosi ad esso e riconoscendone il flusso necessario, che muove dalla persona al tutto, dal tutto alla persona. La persona non era un inizio, dice Eraclito, poiché la persona era (ed è) il durante di tale flusso, di tale ordine conflittuale, che si stabilizza per poi fuoriuscire continuamente in un ordine ciclico di evoluzione e dissoluzione.

Investigare se stessi, per citare una massima eraclitea, significa quindi acquisire progressivamente coscienza della concavità del nostro essere – terra, ovverosia del nostro essere obliqui.
La chiave per penetrare le leggi del cosmo va ricercata in noi.
Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me recita l’epitaffio sulla tomba di Kant. La frase dovrebbe essere modificata nel modo seguente: Il cielo stellato e la legge morale dentro di me.
Il “fuori” è un concetto astratto che tende a confinare l’uomo in una prigione che in realtà è l’unica via possibile verso la libertà e la conoscenza: il corpo.

Tre dialoghi racconta di un unico, grande percorso e i tre filosofi rappresentano tre tappe ben distinte di tale cammino. Se Eraclito simboleggia il raggiungimento della consapevolezza, Pitea, protagonista della parte centrale, coincide con il processo di sviluppo e di distacco.
Navigatore temerario, dall’aria dannata e tragicamente romantica, Pitea è un pellegrino dello spirito che ancora fatica a riconoscersi nell’assoluto, pur avendolo toccato in una delle sue manifestazioni più sublimi: quella del viaggio.
Pitea, tornato alla sua terra, appare come uno spettro che non riesce più a collocarsi nel reale: avendo visto tutto, sente di non appartenere più a niente.
Ha gli occhi bruciati da troppo vedere, riflesso di una mente che ha vissuto in negativo la rivelazione: Pitea vuole fuggire da quello che cerca e, soprattutto, da quello che ha trovato. Come Eraclito, il navigatore rimprovera coloro che tentano di trattenerlo in un mondo dove la luce abita in eterna inquietudine, citando Novalis.
Per tornare di nuovo al poeta romantico, quel flutto terrestre che si scorge sul limitare delle nostre percezioni spinge il viaggiatore verso la disperazione e il rifiuto, poiché il corpo in cui si trova confinato non può, secondo lui, farsi strada attraverso il mistero.

Il Conflitto che percepisce Pitea è quindi un principio disarmonico che vede contrapposti in maniera irriducibile finito ed infinito, fenomeno e noumeno. Pitea, vicino un tocco all'evoluzione spirituale, resta qualche passo indietro, e questo significa per lui la condanna.
La mancata comprensione del senso del viaggio spinge il navigatore verso una fuga, verso un movimento che non ha un fine accrescitivo ma che si fa simbolo di un pericoloso sentimento nichilista.

Il nichilismo è un passaggio che conduce Pitea all’abbandono di ogni proposito: al contatto con il mistero (o Conflitto) eleva il suo corpo a suprema debolezza, impossibile da dimenticare o da ignorare. Non esiste pacificazione: solo il rifugio nell'oscurità della propria mente.

Risalendo il fiume si giunge al primo confronto con l’idea di un cosmo conflittuale: il dialogo d’apertura, dal titolo La condanna di Ippaso, rappresenta forse nel migliore dei modi la dicotomia tipicamente occidentale che corre fra percezione ed essenza.
Il testo è basato sull’alternanza parola – silenzio – parola, in un circolo che ricorda, anche in questo caso, quella “corrente”, quella sorta di movimento che progredisce attraverso il suo essere puro incedere.

La contrapposizione fra parola è silenzio è ciò che dà vita alla letteratura: la volontà di parola e la volontà di silenzio sono le due grandi forze attraverso cui sintetizzare un percorso accrescitivo che tenga conto dell’importanza di entrambi gli elementi.
Ippaso, il dialogante muto, è contrapposto al pitagorico, colui che parla, simbolo di un verbo ininterrotto, di un logos perpetuo.
Il silenzio di Ippaso rappresenta, in questo caso, la verità: di fronte al mistero anche la parola più forte è destinata a crollare.
La condanna di Ippaso è dovuta forse alla dimostrazione della debolezza della parola e della finzione in cui essa ha gettato tutto il genere umano.

La parola è maschera del nulla, un’impalcatura fragile sospesa sopra un silenzio infinito.
L'assenza è percepita e di conseguenza rifiutata: la scuola Pitagorica si è assunta il compito di costruire una serie di precetti per non porre l’essere umano di fronte all’incubo di se stesso, di fronte al terrore del vuoto.
Si tratta qui di fare diversi passi indietro. La comunione fra spirito cosmico (silenzio) e spirito umano (parola) è in questo caso impossibile.
Il primo conflitto è un conflitto totalmente negativo, che non può conoscere una sintesi; il processo graduale di compenetrazione parola – silenzio evolverà nella pratica conoscitiva della letteratura, reale punto d’incontro fra mondo fenomenico e mondo noumenico.

Dal Conflitto negativo Ippaso – Pitagorico (assenza di confronto attivo), passando per lo sviluppo del viaggio di Pitea (confronto attivo con il mistero ma incapacità di compenetrazione), si giunge al Conflitto propositivo proprio di Eraclito: Il silenzio e la parola sono giunti finalmente al corpo sintetico della letteratura.

Cratilo, alla morte di Eraclito, si spoglia ed esce nella notte; alza gli occhi al cielo e guarda le stelle. Il suo percorso è appena cominciato.

venerdì 16 aprile 2010

Il più piccolo granello è se stesso per conflitto

IL PIU' PICCOLO GRANELLO E' SE STESSO PER CONFLITTO:
Prefazione a "Tre dialoghi" di Iacopo Gardelli


Sto partendo, lo sento. Mi vedrai ancora.
Ogni volta che sul tuo corpo riconoscerai una ferita del tempo.
Non c’è fine, Cratilo, perché la persona non era un inizio.

Da La morte di Eraclito


Il libro di Iacopo Gardelli porta il titolo “Tre dialoghi”. A partire da questo titolo scarno, minimale, perfettamente novecentesco nella sua assenza di qualsiasi tipo di suggestione chiaroscurale, l’autore ravennate intende farsi tramite di tre anime misteriose del mondo antico, delle loro parole e dei loro silenzi, nei momenti culminanti delle loro vite remote.

Parole essenziali, sospese nella pagina, parole che possiedono un peso consistente e un valore culturale non indifferente in quanto inserite in un contesto che si allarga man mano che si procede nella lettura dell’opera (Letteratura russa, inglese, echi classici, forse i più evidenti e i meglio reinterpretati a livello stilistico, ecc.), parole che appartengono ora al richiamo ancestrale del mito, ora alla più tenera elegia lirica, passando per i serrati confronti intellettuali propri del dialogo filosofico (illuminante in questo senso l’imprescindibile lezione di Platone).

L’opera di Iacopo Gardelli muove da una profonda esigenza di ricondurre il lettore contemporaneo ad una riflessione su alcuni temi portanti dell’esistenza: il viaggio inteso come pellegrinaggio dell’anima, la scienza dogmatica, la morte.

L’intensità della proposta culmina nella vetta spirituale e concettuale de La morte di Eraclito, un’opera perfettamente compiuta e calibrata, dall’invidiabile compostezza formale che tuttavia non pregiudica il disperato e sanguinante incedere di emozioni spesso troppo grandi per non precipitare inevitabilmente nel silenzio (si veda a questo proposito l’impostazione lirica dei balbettii estremi del filosofo morente). Il testo racconta gli ultimi struggenti attimi di vita del grande pensatore di Efeso, un filosofo – oracolo, dispensatore di frammenti dalla fortissima valenza simbolica. Il pensiero del filosofo si raddensa nel magma del dialogo, concorde con l’immagine tipica associata ad Eraclito (quella del fiume) senza tuttavia evitare di gonfiarsi in flutti poderosi che tentano, peraltro riuscendoci alla fine, di uscire dal proprio stretto groviglio di elementi legati alla sensibilità della percezione corporea.

Eraclito appare come un uomo che, nel breve istante che precede la morte, è come riuscito a dilatare la sottile pellicola del tempo e a regalare allo sgomento Cratilo gemme oscure e vibranti, parole di una potenza visionaria sconvolgente e insostenibile.
Eraclito impara nel momento estremo, Il Conflitto, a considerare le cose nel loro essere essenzialmente tali, senza sfumature fallaci che possano ricondurre all’errore; gli echi superomistici di Nietzsche si fanno qui quasi raggelanti.

La vetta lirica del dialogo, pervaso da uno spirito sublime davvero raro, consiste nelle ultimissime battute, in cui alle parole pregnanti si alterna un altrettanto importante e imprescindibile silenzio. Si assiste quasi al mutismo sgomento di Cratilo nel momento in cui riconosce che il suo maestro è ormai lontano da lui ma vicino un tocco a quel mistero che tanto si ricerca senza tuttavia riuscire mai ad afferrarlo completamente.

In questa ultima parte appaiono, come il fuoco di una improvvisa rivelazione, alcune righe di impatto sconvolgente: il più piccolo granello è se stesso per conflitto, sussurra o forse grida il filosofo, non ci è dato sapere questo. Gardelli in questo momento è Eraclito e il filosofo si incarna in lui attraverso la comunione verbale dettata da questo verso straordinario.
Il senso più profondo della vita, il senso degli atomi che stanno alla base di tutto si combatte nel conflitto, è il conflitto elevato a suprema sintesi di tutte le forze che si contrastano. Cratilo ammutolisce, la parte umana che tende e anela ad una pacificazione interiore crolla di fronte a questa affermazione pregna di fiamma.

Il flusso lavico si spegne all’improvviso, così come si era acceso, in un bisbiglio, in un’ultima parola che forse non conclude e non fa cominciare nulla.
Il mistero dell’anima, della persona, coincide con il grande mistero degli inizi: se una persona non è l’inizio di qualcosa, che cosa, allora, lo è?
Eraclito conosce la risposta? Forse sì. Gardelli però si ferma ed è attraverso la morte, insondabile realtà, che le parole si chiudono lasciando spazio al divenire delle cose che sono e che saranno.

Gardelli richiama nell’eleganza della sua prosa teatrale certi atteggiamenti che sono anche propri della sua persona, nel complesso aristocratica, tipicamente ravennate. E tipicamente ravennate è anche la formazione artistica dell’autore, cresciuto fra le penombre sacrali delle opere architettoniche più importanti della città, da San Vitale e Galla Placidia alla tomba di Dante. L’approfondimento estremo dei suoi scritti ricorda l’intensa attività intellettuale dell’autore, sempre teso ad un’osservazione sensibile del mondo che lo circonda, una visione spesso priva di incanti romantici, saldamente ancorata alle cose che si vedono, si toccano, si vivono nella realtà e non nell’influsso di spinte religiose.

Tre dialoghi rappresenta quindi il primo saggio artistico di una personalità vivissima, profonda, che lotta interamente, con tutta se stessa, e che con questo libro ci porge una brace ancora rovente di conflitto, un tizzone che contiene delle parole che potrebbero davvero essere le migliori che si possano leggere in tempi come questi.

martedì 13 aprile 2010

Il viaggio e la scomparsa della geografia. Genova.



Pasolini fu il più acuto testimone del “genocidio culturale” che interessò l’Italia nei primi anni Sessanta.
Il sistema economico (post)capitalista entrava allora per la prima volta nel nostro Paese; un paese ancora prevalentemente povero, o “paleoindustriale” come amava definirlo lui. Entrava col denaro al posto dei fucili, con sembianze in apparenza progressiste, innocue, banali.

Tutto cambiò nel giro di una decade. La nuova ideologia edonista attaccava alla radice una società che non era pronta, non aveva ancora gli anticorpi per difendersi da una così formidabile novità.

La società dei consumi, spazzando via il vecchio (dialetti, microequilibri, religioni), piegandolo alla sua logica, s’appropriava degli spazi di una società destinata alla scomparsa per stabilire il suo sistema di regole.

Io sono figlio di quel post-capitalismo. Anzi, sono figlio del più radicale e potente dei post-capitalismi, quello che non ha conosciuto muri né barriere se non il globo stesso.

Non ho potuto assistere al cambio di paradigma. Di conseguenza non posso decidere quale dei due sistemi sia il migliore. Posso però, attraverso le parole di Pasolini, capire il cambiamento e intuire che il mondo in cui vivo, le città che abito, i passatempi che scelgo, tutto questo è il risultato di un complesso concatenarsi di cause che ha avuto la sua origine in quel decennio cruciale.

Mi si sono aperti gli occhi (e da allora non li ho più richiusi) quando, per la prima volta, lessi nel mondo le cose che avevo già letto nei libri. Quando riconobbi che quello che avevo studiato, si era realizzato davvero, nel concreto: la geografia era scomparsa.

Viaggiando ho capito che la profonda essenza della società dei consumi si manifesta con caratteri più vistosi nel turismo di massa. Il turismo di massa costringe lo spazio ad adattarsi all’economia.

Il luogo viene fagocitato e diventa attrazione; la storia si dissolve nella nozione; perfino la gastronomia viene catturata nel processo. Si ha, in ogni ambito, la tipizzazione delle cose.

Il viaggio, in ultima analisi, ha perso importanza educativa e formativa; non è più quello il suo ruolo.
Quello che oggi si cerca nel viaggio è la distrazione, lo svago; è l’aspetto ludico (o terapeutico) che interessa. Viaggiamo per dimenticarci del lavoro, delle malattie, della vita; compriamo delle panacee che ci facciano scordare di noi per due settimane.

È quello che molto meglio di me ha descritto D. F. Wallace nel suo “A Supposedly Fun Thing I'll Never Do Again”, non a caso scritto a metà degli anni Novanta in America, all’apice della potenza di fuoco dell’economia americana.

Quello che mi interessa maggiormente è come le città abbiano reagito a questo tipo di viaggio-terapia, che non è legato al dato geografico, cioè allo spazio, quanto piuttosto alla persona.

È innegabile che oggi il turismo di massa abbia deformato e bruttato, forse per sempre, città di importanza capitale per la nostra (intendo qui “italiana”) storia. Città come Roma, Bologna, Firenze e soprattutto Venezia hanno perso la loro “aura” e si sono adeguate all’economia, forzate o interessate a prostituirsi per denaro.

Genova no. È stata una rivelazione per me vedere come questa città abbia resistito, lasciandosi solo sfiorare dal “falso progresso”, dal lucro economico, rimanendo intatta nella sua atmosfera.
A Genova mi sono sentito a Genova, e non in una città che recitava la parte di Genova.

Non so dire le cause di questa mia impressione.

Forse è stata aiutata (o sono stato influenzato?) dalle canzoni di de André, che non suonano tipiche, sdolcinate o tradizionali ascoltandole per i carruggi, ma profondamente radicate, specchio fedele della città (e se non ci credete, camminate per Via del campo di notte);

forse è stata aiutata dalla sua ingrata topografia, sia per il traffico che per le gambe dell’obeso turista americano, che ha costretto una città asfittica a trovare una inusuale dimensione verticale;

forse invece è stata aiutata dal porto e dai suoi topi o dalla sopraelevata Aldo Moro e il suo traffico, che la imbruttiscono senz’altro, è vero, ma di sicuro le permettono di sfuggire allo sterile cliché di città da cartolina;

forse, infine, anche la densa immigrazione ha contribuito affinché la città rimanesse vera e viva, abitata da genovesi e non da turisti: gli immigrati sono venuti per lavorare e viverci, e non lasciarsi vivere da altri.
Vivono la loro città, abitano le loro vie, posseggono saldamente i loro carruggi.

Credo che anche il G8 del 2001 abbia avuto una sua parte importante nella preservazione dell’aura di Genova. Una delle pagine più importanti e tristemente famose della nostra storia contemporanea è stata scritta proprio sui saliscendi della città, tra le strette vie della città alta, dove oggi slogan di bomboletta ricordano la morte che ha chiuso la “più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”.

Genova vibra di una storia vicina, che ti senti prossima, che ti alita sul collo, che ancora ti fa affondare le unghie nei palmi. Non si può visitarla senza ricordare quello che è successo in quei giorni di luglio; per forza ricordi dov’eri in quei giorni, con chi ne hai parlato, le posizioni che hai preso: in una parola, sei costretto a ricordarti di te stesso, e addio al viaggio-panacea.

“La Superba” resiste ancora, come ha resistito ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, che ne sviscerarono il centro (ancora oggi, inspiegabilmente e sublimemente, si possono vedere le rovine di una casa bombardata in piazza delle Erbe, monito migliore di mille monumenti ai caduti).

Resiste anche nel suo magnifico dialetto cantilenante, che sa dei profumi delle spezie che nel dodicesimo secolo dovevano ammassarsi sulle tavole dei mercanti in piazza Caricamento e sotto i portici, e che la resero una delle città più ricche d’Europa.

Resiste nei suoi panni appesi ad asciugare che ti scendono in faccia e nella striscia di cielo che le case a otto piani, sprezzanti, si degnano di farti vedere.

Resiste, “città intera”, nelle sue prostitute ferme agli angoli in pieno giorno, e nelle bambine che le guardano passeggiando con la mano nella mano della nonna, affresco straordinario come le canzoni dei suoi cantautori.

mercoledì 7 aprile 2010

Abbandonate il sentiero

C’era una volta..

.. Una ragazzina di nome Cappuccetto Rosso. Anzi, mi correggo: c’erano una volta ben sei ragazzine vestite di rosso e di nero (dualismo) ad attendere quasi immobili in una stanza cremisi.
Una di loro accarezza un coniglietto bianco, un’altra prova ad indossare un cappello, una terza, dalla gamba immobilizzata in una gabbia ortopedica, legge un libro.
Un paniere giallo.

Cambio scena:

Una lunga strada asfaltata indica la direzione da seguire per arrivare sani e salvi alla casa della nonna. L’asfalto lascia presto spazio ad un largo sentiero sicuro, coperto di luce, mentre da ogni lato incombe l’ombra informe di un’oscura foresta piena di misteri.
“Segui il sentiero”.
Cappuccetto Rosso cammina e cammina quando “è improvvisamente attratta da uno splendore in mezzo agli alberi”. Lascia leggermente il sentiero, lo segue con gli occhi da lontano mentre un oggetto (?) biancheggia fra le foglie e si allontana sempre di più dalla luce.
Le gambe della ragazzina si mettono a correre da sole e la trascinano lontano, dentro la notte. Il giorno splendente del sentiero diviene un grigio cupo, il tessuto misterioso che ricopre i segreti della psiche.

Una figura vestita di bianco (ora si vede distintamente) ci guida verso un pozzo.

Sono solo pochi passi ma il sentiero, tanto largo e tanto sicuro, non si vede più. La ragazzina non potrà più ritrovarlo.

Dal pozzo si cammina seguendo strade occasionali, brevi squarci di chiaro sulla tenebra del bosco: un divano abbandonato, un palazzo distrutto circondato da bossoli, un’automobile, un parco giochi deserto. Sono oggetti nudi, spogliati della loro funzione e del loro significato, oppure caricati della loro essenza fino allo stremo delle forze, cresciuti come dalla terra, immobili e silenziosi. Forse sono ricordi, frammenti di una memoria perduta che tenta di ricongiungere le fila del tempo (il tempo dell'anima) attraverso un intrico di abissi sempre più fitto.
Cappuccetto Rosso si ferma davanti ad una panchina. Si siede.
Il mistero degli oggetti resta tale. Non c’è nulla che si possa fare o non fare.
Si rialza e riprende il cammino.

“Quante cose, atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi, ci servono come taciti schiavi, senza sguardo, stranamente segrete!” Borges cantava così i cari strumenti quotidiani, il loro enigma insolubile nell’enigma delle azioni della vita.
Il sentiero, o quello che noi immaginiamo essere un sentiero, adesso è solo una proiezione astratta, un istinto remoto che ci lega di passo in passo al destino indecifrabile dei nostri ritrovamenti.
Il paniere si riempie di ricordi, regali per la nonna, la nonnina che abita nella casa alla fine del bosco.

Si ritorna spesso sui propri passi. La foresta è immensa, potenzialmente infinita, eppure le cose tornano sempre uguali a loro stesse. Forse è un limbo circolare, come il fiume curvo della memoria che ricorda il futuro e prevede il passato, quando mare e fonte si congiungono nel corpo sottile e schiumoso di questo torrente capriccioso.

Un brontolio. Orme sul terreno. La ragazzina è innocente e non conosce la differenza fra preda e cacciatore, fra orme di coniglio e orme di…...
…Sì, lo sa. Ora lo sa.
C’è un lupo in mezzo agli alberi. Una creatura che la spia e che vive anche dentro di lei.

Il lupo non è un lupo.
Il lupo è una donna vestita di sangue. Una nuvola scarnificata. Un boscaiolo libidinoso. Oppure è proprio un lupo peloso, nero, affamato.

L’esperienza con il lupo passa attraverso il sesso. La ragazzina cresce e nel suo tunnel approda alla casa della nonna.
La tempesta infuria.
In quella casa converge tutto il mistero.
L’adolescenza, l’infanzia, la vita adulta e la morte.

È questo che il bosco voleva dirci?
A cosa portava la deviazione?

Buona ricerca.

"The Path"