venerdì 30 luglio 2010

La creazione artistica come processo cognitivo. Presentazione

Dal mio primo intervento sulla “creazione artistica come processo cognitivo”, sono passati oramai alcuni mesi.


Nel frattempo ho cercato di sistemare la mie – alquanto confuse – idee. Mi sono chiesto se l’intero apparato teorico avesse davvero un qualche senso, o se invece fosse, come molto spesso accade, solo frutto della mia suggestione.


È davvero possibile riuscire a parlare in modo “generale” (o, per così dire, allargato), di un fenomeno inscindibile dall’individualità, quale la creazione artistica? Inoltre: è possibile riuscire a spiegare l’arte dal punto di vista cognitivo del soggetto creante?


Questo dubbio mi scoraggiava e mi distoglieva dal lavoro. La sfida sembrava insormontabile, e la paura di essere smentito pubblicamente continuava a crescere giorno dopo giorno. Troppi buchi, troppi errori, troppe imprecisioni. Idee arbitrarie e personali.


Poco tempo fa, però, mi sono imbattuto per caso in una frase dell’Atlante di Filosofia di Holenstein (probabilmente uno dei lavori di filosofia più importanti degli ultimi 10 anni) dove si dice espressamente che:


La creatività è un fenomeno poco chiarito. (...) Per la biologia condizione decisiva perché nascano nuovi elementi è l’isolamento geografico di una popolazione. Nelle culture umane, invece, sviluppi creativi originali sono spesso frutto della vicinanza e del contatto, del commercio e della comunicazione con altre culture.”


Leggere queste righe mi ha galvanizzato e ho ricominciato a lavorare al progetto con nuova forza di lavoro e di pazienza.


Holenstein ammette che il fenomeno creativo non è ancora stato spiegato a dovere, almeno non dal punto di vista del soggetto.


Se, come credo, è ormai provato che la ricchezza culturale di un intero popolo dipende soprattutto dai rapporti sociali che esso intrattiene con altre culture (storicamente, infatti, sono proprio i periodi di intenso scambio commerciale e culturale a creare le condizioni adatte ad una intensa e imprevedibile fioritura artistica – vedi secoli 5, 12-13, 17, 19), è altrettanto vero che non si sono indagate a dovere le condizioni preliminari che precorrono la creazione artistica a livello individuale.


Inoltre, leggendo le più diverse e disparate pagine di artisti lontani nel tempo e nello spazio (in particolare nei loro scritti più intimi, quelli non immediatamente finalizzati alla pubblicazione) mi sono reso conto che la griglia logica puramente teorica che avevo proposto per spiegare il fenomeno della creazione artistica, in molti casi poteva combaciare con le idee e i sentimenti quivi espressi.


Anche questa inaspettata simmetria mi ha dato nuova voglia e curiosità di approfondire le mie tesi, correggerle e mondarle da personalismi, in un continuo contrappunto tra lettura e formulazione di uno schema razionale per comprendere meglio il fenomeno della creazione artistica.


Quel “come processo cognitivo” non va inteso come velleità teorica o pretesa di scientificità; tutt’altro.

Sappiamo che le cause e le concause della creazione artistica non possono venire ingabbiate in una sola e infallibile griglia logica, né possono essere spiegate una volta per tutte.

Qualcosa sfuggirà per sempre ad ogni razionalizzazione.


La menzione di questo processo cognitivo intende mettere l’accento sulla dimensione individuale della nostra ricerca e delle nostra attenzione: il soggetto non è in questo caso il movimento artistico sovraindividuale ma, al contrario, il singolo soggetto creante.


Vorrei precisare, inoltre, che tutto quello che leggerete non deve essere considerato altro che un esperimento, una bozza o un progetto di lavoro ancora in progress.

Il tema è davvero immenso, e le mie forze sono impari rispetto alla mole di studio necessaria ad approfondire a dovere alcune dinamiche estremamente complesse; in aggiunta, uno studio esteso dell’argomento richiederebbe un tempo superiore a quello che possiamo permetterci come semplici “amatori”.


Un’ultima cosa: ogni volta che uso gli aggettivi “mio” o “nostro”, mi riferisco indifferentemente al lavoro congiunto di Elia Tazzari e del sottoscritto. Le sue preziose osservazioni e il suo lavoro di levigatura intellettuale sono risultati indispensabili, e il suo appoggio imprescindibile. Mi ha aiutato a sviluppare uno schema più completo e maturo, aggiungendo la sua forza in casi di aperta contraddizione teorica.


È davvero una fortuna avere a disposizione un intelletto così acuto e diverso dal tuo, una cultura così vasta e solida; e, nondimeno, riuscire a discutere in modo libero ed appassionante, alla pari. Ancora grazie.

giovedì 29 luglio 2010

Sulle api

“Gli insetti ci ammaestrano su quanto vi è di più elevato in natura.”
- Rudolf Steiner

Raccolte dalla “Editrice Antroposofica” in un unico volume intitolato “Le api”, le otto conferenze tenute a Dornach (Svizzera) dal 26 novembre al 22 dicembre del 1923 offrono un ulteriore spaccato dell’originale visione cosmica di Steiner, che sceglie qui di indagare i fenomeni legati al mondo delle api, delle vespe e delle formiche alla luce della Scienza dello Spirito.
Le conferenze pubblicate in Italia e all’estero furono tratte da una stesura stenografica mai riveduta dall’autore, il quale ci mette in guardia affermando che “Chi legge questi testi può accoglierli pienamente come ciò che l’antroposofia ha da dire.. Va però tenuto presente che nei testi da me non riveduti vi sono degli errori.” Le conferenze dedicate al tema delle api fanno parte di un più ampio ciclo di incontri studiati per gli operai del Goetheanum, in cui furono discussi diversi aspetti del pensiero steineriano, scelti di volta in volta dall’assemblea di lavoratori; emerge da questi “dialoghi”, secondo la definizione di Marie Steiner, seconda moglie dell’occultista austriaco, un particolare interesse per il lato terapeutico ed igienico della vita, quasi a voler sottolineare l’importanza pratica di certe nozioni all’interno del mondo del lavoro.
Steiner comincia illustrando le differenze che sussistono fra gli abitanti di uno stesso alveare (la solarità dell’ape regina, il cui sviluppo avviene in 16 giorni, rientrando cioè nei 25 giorni che coincidono con il periodo di rotazione sidereo del sole; la natura solare dell’ape operaia, il cui sviluppo, avvenendo il 21 giorni, esaurisce tutto l’influsso solare; la terrestrità del fuco, che si sviluppa in 24-25 giorni e che, uscendo dall’influenza solare, si introduce prima dell’età adulta nell’evoluzione terrestre) e affrontando il tema fondamentale della deposizione delle uova: solo l’ape regina, recante in sé il pieno influsso solare, è in grado di deporre, mentre le operaie, che hanno esaurito l’influenza del sole, e i fuchi, totalmente terrestri, non possono fare altrettanto.
Dalla natura solare e terrestre dell’alveare, essere duplice dal quale scaturiscono la vita attiva delle api operaie e quella feconda dell’ape regina, l’interesse si sposta sull’importanza della forza esagonale che permea la terra e le creature che da essa traggono il loro sostentamento.
“Quando andate in alta montagna, trovate là dove la roccia è più dura, dove si trova l’elemento più duro, dei cristalli di quarzo. (…) Quando sono completi, sono chiusi anche verso il basso, nello stesso modo come sopra; ma per lo più non sono completi, e sorgono dalla roccia, sembrano crescere dalla roccia (…). Che significato ha questo fatto? Significa che la terra fa spuntare da se stessa tali cristalli, che sono esagonali e terminano in punta. Dunque nella terra è contenuta la forza di configurare in forma esagonale.
I cristalli di quarzo che emergono in tutta la loro solidità dalle pareti delle montagne si trovano disciolti anche nel corpo umano, la cui struttura interna impedisce a questo succo di quarzo di solidificarsi. Questa corrente di quarzo, o acido silicico, ha per l’uomo un’importanza fondamentale.
Steiner parte dall’importanza dell’acido silicico per arrivare ad illustrare il grande beneficio derivante da un giusto consumo di miele: le api, le quali trasmettono la forma esagonale alle loro celle di cera, sono in grado di sintetizzare il miele, sostanza ricchissima di forza esagonale e molto utile a coloro che non siano più in grado di sviluppare in maniera adeguata questa energia.
Attraverso il miele, l’uomo può assorbire nelle giuste quantità le forze cosmiche agenti sulla terra e ricondursi alle dimensioni più alte e benefiche della realtà.
L’importanza dell’universo negli avvenimenti terrestri viene ribadita a più riprese dal filosofo che ne parla, per esempio, a proposito del nettare dei fiori:
“Quando i raggi del Sole giungono dalla zona dell’Ariete, la sua forza può agire in modo da esercitare la su piena potenza sui fiori, provocando in essi lo sviluppo di quella sostanza dolce che si manifesta in miele. Così le api ne trovano. Se invece è la Terra ad avere la preponderanza del potere, perché la stagione è piovosa, i fiori non possono svilupparsi sotto i raggi del Sole che vengono dall’Ariete, devono aspettare a più tardi o sono interrotti nell’attività finora svolta; allora i fiori non producono regolarmente del miele e le api non ne trovano.”
Particolarmente interessante è l’accenno contenuto nella penultima conferenza, dedicata all’acido formico, a proposito dell’evoluzione del nostro pianeta. Steiner si sofferma sulla cosiddetta “formazione lunare”, uno stadio dell’evoluzione terrestre che prende il nome dal fatto che la luna sarebbe un residuo di quell’antica Terra (il discorso sull’evoluzione terrestre è affrontato nello specifico all’interno de “La scienza occulta nelle sue linee generali”).
All’epoca della formazione lunare le piante e gli insetti non esistevano nella forma in cui li conosciamo oggi; era presente invece una serie di vapori vegetali simili a nuvole che si muovevano cambiando continuamente d’aspetto e che erano fecondate da una forza “animale” proveniente dall’ambiente circostante. Questo antico aspetto si è trasmesso nelle successive evoluzioni fino ad approdare al sistema di fecondazione che noi oggi conosciamo, quello delle api e delle vespe, animali che vivono in stretta simbiosi con la natura vegetale e che sono gli eredi di quelle antiche energie cosmiche agenti da sempre sul nostro pianeta.

Il viaggio e la scomparsa della geografia. Istanbul.



Forse amiamo il posto in cui viviamo solo perché non abbiamo altra soluzione, come in famiglia. Ma dobbiamo scoprire dove e perché amarlo.
Orhan Pamuk, Istanbul

Dedico questo intervento a Gec, Berna e Rabbo,
teşekkür



Nel suo libro Istanbul, Pamuk si diverte a mischiare ricordi d’infanzia e vita privata con ricordi collettivi e vita cittadina.

Scrivere di una città pone sempre un problema radicale, inevitabile: come non rischiare di confondere i ricordi e le impressioni private con i ricordi e le impressioni pubbliche? Ovvero: come può un individuo solo parlare di un insieme di individui?

Pamuk evita il problema confessando apertamente la sua parzialità nel raccontare la sua vita nella sua Istanbul: gioca e confonde i due piani fino a inglobare la città in se stesso, o viceversa; tanto che, alla fine, non riusciamo a capire se il libro che abbiamo appena finito di leggere è un libro su Istanbul o un libro su Pamuk.

Forse per questo motivo l’autore ha sentito il bisogno di corredare le sue pagine con fotografie della città, come se non volesse che il lettore si dimenticasse che c’è, esiste e vive anche oggi, non solo attraverso la memoria di un suo cittadino.

Pamuk aveva bisogno di uno sguardo infallibile e impietoso come quello di una macchina fotografica per giustificare i suoi scritti, e ha trovato negli scatti di Ara Güler il perfetto contrappunto visivo delle sue parole.

Ed è in particolare una di queste parole usate dallo scrittore che sembra imporsi come chiave d’accesso privilegiata per la comprensione di un’intera città e di un’intera civiltà: hüzün, in italiano tristezza.

Come il lamento del muezzin, la parola si ripete e ritorna per tutto il libro di Pamuk, prende spessore e importanza ogni volta che la s’incontra nella lettura; si appiccica al nome della città turca fino al punto da non poterne più essere divisa.

Hüzün è il sentimento di Istanbul e dei suoi abitanti.

Nasce con la caduta dell’impero ottomano, con la perdita delle ricchezze e con la fine dei tempi dell’oro, dal sentimento di caduta e sconfitta; nasce con il processo di occidentalizzazione voluto da Atatürk che ha tentato di cancellare a forza una cultura non-occidentale, e dal conseguente senso di perdita e spaesamento.

A Istanbul tutto è rimasto a metà, incompiuto, sconfitto; così scrive Pamuk.

Una città rimasta in bilico tra due tradizioni, così come rimane in bilico tra due continenti.

La particolarità, continua Pamuk, è che questa incompiutezza ha dato agli abitanti di Istanbul la possibilità di vedere la propria città ora con occhi orientali ora con occhi occidentali; di vedere allo stesso tempo la miseria dei quartieri più poveri e la bellezza pittoresca delle antichità in rovina; di comprendere la propria miseria ma anche di apprezzare la superba bellezza di una delle città più belle del mondo.

La tristezza (da non intendere, come facciamo noi italiani, in modo del tutto negativo, come un sentimento da cancellare) nasce da questi conflitti e sembra propagarsi in tutta la città, sui visi delle persone, nelle eccezionali fotografie di Ara Güler, nelle stradine di Sultanahmet che scendono verso il Mar di Marmara, disseminate di scheletri di vecchie case ottomane in legno.

Ed io, come visitatore occidentale, cosa ho potuto osservare nella capitale d’oriente? Come posso inserire una città così grande e importante nel mio discorso riguardo alla progressiva perdita di una geografia e di un senso del viaggio?

Credo che, proprio in questi ultimi anni, Istanbul stia vivendo un’ondata di politica e religiosità reazionaria.
La laicizzazione (per quanto discutibile e discussa) di Atatürk e degli anni ’50 e ’60, sembra ormai dimenticata, così come la voglia di occidentalizzazione che in quegli anni dilagava negli ambienti intellettuali.

Oggi Istanbul sembra pendere più verso un Oriente islamico e fortemente conservatore, rispetto che a un Occidente laico e riformatore – per capirci un Occidente Europeo. Questo non è necessariamente un pericolo per noi o un peccato per loro.

Sta di fatto che l’Europa sembra ancora molto lontana da Istanbul.

Questo sbilanciamento permette tuttavia alla città di preservare il suo tono, di non essere del tutto egemonizzata dai turisti e, salvo le solite aree dove la città smette di essere città e diventa colonia (moschee, Gran Bazar, Topkapı), di mantenere una sua forte identità.

La parte sud di Sultanahmet, nei dintorni di Kucük Ayasofia, è di una bellezza sconvolgente: tra quel labirinto di stradine e rovine, il tempo non sembra essere passato dagli anni dell’infanzia di Pamuk: ancora gli stessi ambulanti di frutta che trasportano a mano i loro carretti traboccanti di pesche e albicocche (“Bursa! Bursa!”); le stesse casette di legno, alcune bruciate, altre storte e malmesse; i ruderi antichi che si mischiano con la città (mura teodosiane dentro parcheggi abusivi); gli stessi vecchietti seduti nei bar che sorseggiano tè e discutono in quella lingua incomprensibile.

Lo stesso vale per la zona di Cihangir, un dedalo di vie inerpicate sul colle, piene di scalinate muschiose, di case abbandonate, di gatti randagi miagolanti a decine, su tetti e terrazzi; di negozietti piccolissimi dove, turco a parte, puoi esprimerti solo a gesti; e ad ogni angolo una vista mozzafiato dovunque lo sguardo si posi: verso il Bosforo, la sponda asiatica silenziosa all’orizzonte – verso il Corno d’Oro, la genovese torre di Galata, la città vecchia e i picchi dei suoi minareti.
Tutto questo non si trova a decine di chilometri di distanza dal centro, ma nella zona più ricca della città, subito sotto il quartiere di Beyoğlu e piazza Taskim.

In queste zone convivono ancora passato e presente, nella “bellezza casuale” (secondo Ruskin, sinonimo di pittoresco) dei ruderi, delle tombe e delle case antiche, e ti senti spaesato; ora sembra di trovarsi in pieno centro a Genova; ora sembra un quartiere di Napoli quello che hai davanti; ora una cittadina dei Balcani; ora invece una grande capitale europea, forse Parigi, forse Berlino.

Poi però capisci che non è nessuna di queste città; e lo capisci osservando il tramonto sul Corno d’Oro, spiando la città dall’alto, godendo dei ritmi esatti ed eleganti dei minareti e delle cupole, del ponte di Galata ancora gremito di pescatori e turisti, del Bosforo che scintilla di barche e petroliere.

Tristezza, dice Pamuk. Una tristezza, cifra caratteristica della città, che impedisce agli abitanti di reagire, e si trasmette come un virus.

Forse oggi è tempo per Istanbul di digerire questo sentimento, lasciare che scivoli nella nostalgia per un passato che è tanto remoto quanto dorato, e cercare una nuova strada.

È tempo di imbrigliare le immense forze vitali di questa città e delle sue nuove generazioni per migliorarne le condizioni di vita, attraverso un processo che sì potrà durare anni, e di cui certo non potremo prevedere i corsi, ma che passa sicuramente per una maggiore consapevolezza delle proprie potenzialità e della propria storia.

domenica 18 luglio 2010

Una morale virtuale?


Immaginate di vivere in una città del tutto normale (ha strade certamente, e piazze, negozi, mercati, bordelli, parchi divertimento, tutto quello che vi serve, in realtà) eccetto che per una sua strana caratteristica.


Ogni movimento che fate, ogni decisione che prendete, ogni passo percorso ed ogni persona incontrata, ogni piatto consumato in ogni ristorante visitato, ogni vetrina ammirata e ogni vestito provato, ogni vostra uscita con gli amici o le amiche; insomma, tutto - tutta la vostra vita è miracolosamente trascritta da uno scrivano ignoto, che, solo nel suo minuscolo ufficio, segue tutti i vostri movimenti e li registra con accuratezza.


Non sbaglia una virgola. Conosce tutto di voi: il suo lavoro è scrivere la storia della vostra vita attraverso le frasi delle vostre azioni, come lavorando ad un unico immenso romanzo; anzi, a una biografia: la vostra.


Dicono che esistano tanti scrivani quanti cittadini di questa strana metropoli (non vi ho parlato delle sue dimensioni? Enormi), e che siano talmente veloci e talmente bravi a reperire le loro informazioni, da riuscire a trascrivere i vostri movimenti in tempo reale.


Lavorano in simultanea con la vostra vita, come se fossero i silenti cronisti delle vostre ore.

Così, grazie alle loro fatiche, si può sapere tutto di ogni singola persona della città, che cosa ha fatto nell’ora x, con chi parlava nel minuto y del giorno z.


Ecco – ora immaginate che tutto quello che ho appena descritto, un universo parallelo infernale e invivibile, sia già attorno a voi, bell’e pronto. E ci vivete già.


Piccole differenze: gli scrivani non esistono, siete voi stessi, utenti della rete che, per quanto possiate pensare di essere invisibili in questo mondo virtuale, in realtà è come se camminaste sulla neve fresca.


Il problema del controllo su Internet è uno dei grandi nodi gordiani della nostra epoca. Un dilemma di capitale importanza, che dobbiamo essere pronti a sciogliere in un qualche modo.


Come un nuovo Panopticon benthamiano, sulla rete siamo tutti detenuti; ci controlliamo a vicenda e siamo tutti parimenti controllati, senza sapere chi e dove sia il controllore. La detenzione perfetta.


- Macché detenzione, si tratta in fondo di una detenzione virtuale, come virtuale è la vita controllata. Nulla di cui preoccuparsi troppo. Spegni il computer, problema risolto. Non cadi nelle trappole di Facebook e Twitter, non hai più di che lamentarti, quindi smetti subito con questa lagna intellettualoide. Eppoi, tutto sommato, un po’ di controllo non ha mai fatto male a nessuno.


Mai problema è stato meno astratto e intellettualoide di questo.


Il punto cruciale è, a mio parere, che bisogna smettere di pensare alla vita reale e a quella virtuale come due vite del tutto indipendenti e separate. Non è più così.


Come scrive Bittanti in un saggio contenuto in Anni Zero [Carlo Antonelli, a cura di; ISBN edizioni, 2009], alla fine del processo di socializzazione di internet, “[la vita virtuale] finisce per condizionare il mio comportamento nella vita reale.”


(Quale delle due sia in fondo più reale dell’altra, lo lasciamo decidere ai lettori.)


Se quindi, almeno a livello teorico, occorre considerare la vita virtuale alla stregua della vita vissuta, allora ammetteremo anche la parità giuridica delle due.


Così come abbiamo diritti e doveri nella ‘vita reale’ avremo diritti e doveri simili se non pari, nella ‘vita virtuale’.


Quindi, approfondendo ulteriormente:


a) la consistenza, per così dire, ontologica virtuale non è un attenuante che ci possa indurre a sopportare il controllo asfissiante e benthamiano che regola i nostri rapporti sociali sulla Rete;


b) anche e soprattutto chi non utilizza i servizi web è tirato in causa: primariamente perché ha meno possibilità di difesa della privacy rispetto a chi sa utilizzarli; secondo, perché oggi non esiste occidentale della mia generazione che si possa chiamare fuori dal fenomeno digitale.


c) la possibilità di una ‘morale virtuale’, passatemi il pessimo accostamento, è spazzata via dalla concentrazione stessa del controllo cui siamo sottoposti. Poiché essere sotto controllo non ci rende morali, l’omnipervasiva sorveglianza sulla rete è tout court immorale, forse addirittura nociva per le nostre relazioni e le nostre abitudini – sicuramente pericolosa e inquietante.


(Ci vorrebbe un altro intervento per spiegare quest’ultimo punto, che mi è stato suggerito dalla lettura di un articolo di Emrys Westacott Does surveillance make us morally better?” [Philosophy Now, Issue 79, 2010] e di un intervento ormai famoso di Nick Harding, scritto nel 2008.)


Se ci si pensa bene, il problema che ho delineato in queste righe, è un dilemma classico della filosofia politica: la dicotomia tra giustizia e libertà.


Abbiamo la guida di testi immortali per comprendere meglio questo irrisolvibile problema: da una parte le necessarie libertà dell’individuo che si elevano al di sopra di ogni legge, dall’altra le non meno necessarie leggi che si elevano sopra ogni individualità.


Oggi si parla di privacy e sicurezza, e il dilemma non si è ancora del tutto chiarito (vedere alla voce: intercettazioni telefoniche e lotta antimafia).


Il busillis è che, per la prima volta, un problema analogo si sta riproponendo in un ambito prima inesistente, e che solo da poco (poco più di sei anni) si è cominciato ad analizzare seriamente: lo scenario virtuale.


Come sciogliere il nodo? I vecchi testi di filosofia politica sono ancora attuali? Le loro tesi sono applicabili anche in questi casi (del tutto imprevisti e improbabili al tempo della loro pubblicazione) o no?


Io credo proprio di sì - certo con dei distinguo belli grossi - e propenderei, in una scelta dettata da null'altro che dalla mia educazione e dal mio carattere, a privilegiare la responsabilizzazione dell’individuo (o meglio, dell’utente) rispetto all'efficienza e alla pervasività dell'apparato di controllo.


Forse, la chiave del problema, sta proprio nel riuscire ad avvicinare ulteriormente la vita virtuale a quella vissuta, in modo che, anche senza il deterrente del controllo, l’utente si muova nell’ambiente virtuale in modo ‘morale’ – magari facendo leva sul concetto di identità, e fornire a tutti un’identità virtuale, del tutto slegata e indipendente da quella reale, ma assolutamente univoca, da usare come documento sulla Rete.

Invece di controllare, responsabilizzare.


Da questo non deriva, nel modo più assoluto, che si debbano far coincidere le due vite. Sarebbe pericoloso per la nostra sanità mentale.


Anche se, ci ricorda sempre Bittanti, “ (...) la schizofrenia è la condicio sine qua non dell’era digitale.”