venerdì 17 settembre 2010

Cosa significa riappropriarsi della geografia. Per una geografia personale.


A Eleonora Cara

Spazio e tempo: le due dimensioni in cui siamo costretti a vivere.
Che siano imprescindibili per la nostra conoscenza l’aveva intuito Kant; che siano relative ce l’ha spiegato Einstein.


Dopo quasi un millennio di pagine e parole spese su questi due strani concetti, cosa potere aggiungere senza risultare banali o, ancor peggio, passati?


Partiamo da Heidegger e dalla sua opera più importante, Sein und Zeit (Essere e Tempo) che, secondo Vattimo, può anche venire chiamata Essere è Tempo.


La dimensione temporale della persona, il suo essere finita e transeunte, destinata alla morte per sua stessa costituzione ontologica (Sein zum Tode) è la condizione specifica della vita umana, e per questo più importante. L’essere non è mai fermo, diviene; e il divenire sfocia ineluttabilmente nel non-essere. Occorre dunque, secondo Heidegger, caricarsi sulle spalle il proprio destino, uguale per tutti e al di fuori della possibilità di una scelta, e vivere tenendo conto della nostra temporalità.


L’essere è tempo, si compie in esso, non può sussisterne al di fuori: l’uomo è tenuto ad appropriarsi del tempo, della sua attualità per capirsi, innanzitutto, e per farne parte.
La grande lezione è, secondo noi, questa: interessarsi al proprio tempo perché in esso e per esso siamo noi stessi.


Si può applicare la stessa tesi allo spazio? Si può e si deve.


Non solo il tempo ci condiziona e ci rende quello che siamo: anche lo spazio ha un ruolo importante nel definirci e nel renderci noi stessi.


Come tutti sappiamo (e non possiamo fare a meno di notare), di là di ogni generalizzazione o semplificazione, esistono caratteri temporali (Zeitgeist), che contraddistinguono un’epoca; allo stesso modo esistono caratteri spaziali che marcano un luogo (Raumgeist?) e la sua storia.


Se il tempo ci condiziona per se stesso, lo spazio ci condiziona attraverso luoghi.

C’è tuttavia una grande differenza: astrattamente il tempo è uguale per tutti (inteso come susseguirsi di attimi e compiersi d’azioni); diversamente lo spazio, che per noi non significa nulla in astratto.


Lo spazio è personale, accompagna concretamente la vita di una persona sottoforma dei luoghi nei quali essa è cresciuta ed ha vissuto. Crediamo si possa, in questo caso, parlare di una “geografia personale” che condiziona la vita di ognuno di noi, in un curioso comporsi e ricomporsi di eventi passati e luoghi.

Riconoscere l’importanza di una geografia personale è capitale per la formazione dell’individuo.

Siamo quello che siamo non solo per quello che abbiamo passato, ma anche per dove lo abbiamo passato.


I nostri pensieri, le nostre preferenze, i gusti, le paure, il carattere; in una parola, la nostra psiche è stata plasmata dei luoghi della nostra vita, delle persone che li hanno abitati, dagli oggetti che li hanno occupati, dalla natura che li ha resi come sono.


Si è già parlato di psicogeografia, ovvero dell’azione che l’ambiente circostante (lo spazio) opera sul nostro pensiero, invero senza troppo successo: forse il nostro sapere è ancora immaturo per capire se e come occorra parlare di questa influenza della natura sull’uomo.


D’altronde, se lo spazio cambia e forgia il nostro corpo, perché mai non dovrebbe cambiare anche il nostro pensiero? La nostra pelle, il colore degli occhi, gli zigomi, i nostri fenotipi cambiano secondo le condizioni ambientali che caratterizzano il nostro spazio.


Perfino la nostra lingua, il marchio che ci (contrad)distingue dagli altri animali cambia al variare dello spazio: lessico, fonetica, sintassi e semantica sono molto più sensibili allo spazio che non al tempo. Basti pensare che l’italiano che usiamo oggi non è poi troppo diverso da quello di Dante, mentre basta allontanarsi di qualche chilometro per non riuscire più a capire una parola del dialetto locale.


E il linguaggio non è forse immagazzinato nel nostro cervello, non è forse componente fondante del nostro pensiero? Si può concludere che il nostro modo di pensare non è solamente frutto del tempo in cui viviamo, ma anche del luogo che abitiamo; che ogni uomo sarà figlio del suo tempo, è vero, ma anche del suo spazio.


Capire noi stessi appropriandoci di una nostra geografia è compito più che mai attuale e complicato, proprio adesso che la storia sembra dirigersi verso una progressiva perdita di senso e significato geografico.


Senza rendercene conto e senza poter comprendere appieno questo processo siamo diventati uomini a una dimensione. Viviamo in funzione del tempo, che oggi è diventato la dimensione esistenziale per antonomasia: la tecnologia esiste anche e soprattutto per farci risparmiare tempo prezioso; i trasporti devono essere più efficienti, quindi più veloci; la comunicazione farsi più efficace, quindi più rapida.


Questo a discapito dello spazio, che si è come contratto, perdendo il suo significato. Lo spazio oggi è qualcosa da occupare, da superare o da ammirare, a seconda della sua espressione: ora spazio abitativo, ora spazio puramente geografico, ora spazio naturale.


In passato lo spazio era carico di un significato più profondo, che ricordava all’uomo della sua dimensione finita e limitata: era lo spazio invalicabile, lo spazio del viaggio, che differenziava (e perciò stesso valutava) la terra, i costumi, la lingua.


La scomparsa della geografia coincide con la svalutazione del suo significato, e genera una conseguente perdita di sapere.

Sapere che oggi andrebbe ritrovato riappropriandosi di – o forse addirittura ricostruendo – una geografia personale (in quanto non esiste una geografia collettiva se non istituzionalizzata), foriera di valori per ognuno noi, singolarmente preso.


Una geografia più che personale, intima; una geografia che non può essere urlata in piazza, contro un’altra geografia diversa e opposta; una geografia del tutto a-politica, poiché non va costruita a livello della polis, ma a livello dell’anthropos.


Non stupisce, ma piuttosto inquieta, che oggi i movimenti politici più forti facciano leva su un’ideologia vecchia quasi 100 anni quale quella del Blut und Boden per assicurarsi un successo che altrimenti non avrebbero.


Costruire e costruirsi a tavolino una geografia politica posticcia per far presa su una massa dimentica delle proprie radici significa innanzitutto ignorare che la geografia, per avere un qualche senso positivo scevro da campanilismi o, ancor peggio, razzismi e soprattutto per aiutare la formazione dell’individuo deve essere personale, ovvero in fieri.

giovedì 9 settembre 2010

Generazioni a confronto. Devianze da Paolo Nori.


La cornice non era delle migliori per godersi lo spettacolo, ma ci accontentiamo.

Paolo Nori alla festa del PD è un bel regalo, perciò bando a inutili critiche: potrei descrivere gli occhi rapiti dei pochi spettatori per fugare ogni dubbio su interesse o efficacia.

Nori è un incredibile narratore. Qualità rara, rarissima, che non si può coltivare né acquistare col tempo: o c’è, oppure la gente non ascolta, sbadiglia, si perde nei suoi pensieri e chi si è visto, si è visto.

È vero, ci sono e ci saranno sempre ottimi narratori su carta che in pubblico faticano ad esprimersi (famoso il caso di Calvino); non ne faccio una colpa. Ma credo sia innegabile che oggi una delle doti più rare, e perciò stesso, preziose, sia quella di riuscire ad arrivare al pubblico più ampio possibile, domando i mezzi di comunicazione per farsi ascoltare; e, soprattutto, raccontare senza farsi influenzare dal contesto.

La presentazione del nuovo libro, I Malcontenti, a metà strada tra lettura pubblica e recitazione, è filata liscia per una buona oretta, trascinata dall’accento parmigiano buffo e salmodiante di Nori, che racconta come è nato il libro, il punto di vista dei vari personaggi, esperienze realmente accadute, la Bologna in cui vive, i pensieri dei protagonisti, tutto in unico flusso di (in)coscienza in cui reale e fittizio di rafforzano vicendevolmente.

Non voglio raccontare del libro, né della pelata di Nori, né delle persone presenti. Voglio piuttosto parlarvi di un’idea che mi ha colpito più delle altre – anzi, a pensarci bene non so nemmeno se sia sua o di un suo personaggio: e sarebbe importante saperlo, perché gli scrittori non condividono – quasi – mai le idee dei loro esseri di carta.

Il ragionamento è semplice, di carattere generazionale. Come tutti i discorsi sul passare del tempo, affascina il pubblico, poiché sembra innalzare il discorso quotidiano, il meschino evento di tutti i giorni alla dimensione storica, nobilitandone il carattere.

Riporto quasi testualmente:

Chi è nato negli anni ’20 e aveva vent’anni negl’anni ’40, doveva combattere perché servivano braccia per difendere la nazione. Chi è nato negli anni ’30 e aveva vent’anni negl’anni ’50, doveva lavorare, perché c’era da ricostruire la nazione. Chi è nato negli anni ’40 e aveva vent’anni negl’anni ’60, anche lui doveva lavorare perché c’era il boom economico e non si poteva non lavorare. Chi è nato negl’anni ’50 e aveva vent’anni negl’anni ’70, doveva protestare perché il modo in cui era stata ricostruita la nazione non andava più bene. Infine, chi è nato negli anni ’60, e aveva vent’anni negli ’80, non doveva penare per lavorare, ché c’era già lavoro pronto, né protestare, ché tutto andava bene; insomma non doveva romper troppo i maroni. *”

[ * Tutto questo calcolare era inserito in un contesto più ampio, che ho colpevolmente dimenticato di citare: la tesi era che la disperazione non è solo una forza negativa, ma può divenire il motore di miglioramento delle condizioni di vita.]

Perché poi occorra per forza prendere in riferimento i vent’anni di una persona come se fossero quelli i più importanti, non è dato a sapere; ma il discorso è indubbiamente interessante.

Come al solito, ho subito riflesso l’argomento per la mia generazione: chi è nato negli anni ’90, e aveva vent’anni negli anni ’10, come verrà ricordato?

Si tratta qui di cercare di ricostruire un senso di questi ultimi 10-20 anni, compito immane per il motivo stesso che il tempo non è ancora passato, ci è come appiccicato addosso e non possiamo comprenderlo appieno.

Tuttavia si possono isolare delle date importanti, avvenimenti che hanno sicuramente influito sulla vita di tutti i ventenni di oggi.

D’obbligo ricordare la caduta delle Torri Gemelle (“la più grande opera d’arte della Storia”, secondo Stockhausen): eravamo piccoli, è vero, ma non abbastanza da ignorare l’assurda pregnanza storica di quell’avvenimento. Alcuni hanno dapprima scambiato il vero con il fittizio, è pensavano quelle immagini frutto di un regista visionario; questo tuttavia è un epifenomeno collegato alla spettacolarizzazione del mondo (come dimenticare il povero Truman intrappolato nella sua gabbia dorata), e non al movimento della Storia.

Il passaggio dalla lira all’Euro, gli odiosi problemi di aritmetica sul cambio, che venivano impartiti alle elementari per “preparare i ragazzi al futuro” – come se sapere il valore dei soldi assicurasse poi la loro venuta; il numero magico 1.936,27 – e i genitori che ci dicevano semplicemente, “costa tutto il doppio!

L’ascesa di Internet: questa volta davvero troppo esigui i nostri anni per capirla fino in fondo, attestata ai nostri occhi da siti che diventavano sempre più belli e colorati, e dalle prof. dicevano “non scaricate da internet!”, dalla scuola che reinventava un ripostiglio nella caldissima “aula computer” e dalle rapide nonché fallimentari visite a fiato sospeso sui “siti porno”.

Lo scoppio della cosiddetta Seconda guerra del golfo, l’invasione dell’Afghanistan prime e dell’Iraq poi, in quei paesi lontani che occupavano nell’immaginazione dei più spazi desertici e insignificanti. Le facce barbute di Osama bin Laden, di cui ritrovavamo il nome scritto sulle penne a scuola (!) e grugno di Saddam Hussein.

Il dilagare del terrorismo, prima in America, poi in Spagna, quindi in Inghilterra: la paura degli aerei e dei volti intercontinentali; l’angoscia constante della carica esplosiva, il sospetto del diverso, e delle religioni diverse.

Il G8 di Genova, i visi insanguinati, le botte, Giuliani.

La paura per malattie incurabili, pronipoti della pesta nera, che sarebbero arrivate spazzando via l’intera civiltà umana: ora la SARS; ora l’aviaria; ora la suina; ora l’H1N1 – e non arrivavano mai.

La guerra infinita in Israele, il Conflitto per eccellenza, i visi stravolti dei palestinesi dopo il fosforo bianco, i giovani e spaesati ebrei sui carri armati, pronti a far fuoco ai loro compagni di scuola; la morte di Arafat, proprio lui che sembrava non dover morire mai.

Il crollo degli ideali politici, iniziato col Muro e proseguito in Italia con Mani Pulite, o Tangentopoli, versione più complicata e noiosa del Monopoli, almeno per i più piccoli.

L’allarmismo ecologico, l’effetto serra, i CFC, lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello del mare, il catastrofismo del “giorno dopo domani”, l’attesa spasmodica dell’Armageddon finale e le sue innumerevoli testimonianze prima in Umbria, poi in Indonesia, a New Orleans, in Abruzzo e ad Haiti.

I martiri della mafia, Falcone, Borsellino, da una parte; e la schifosa connivenza dei governi, gli intrallazzi, la completa amoralità di ogni partito politico.

La faccia di Berlusconi che da quando abbiamo memoria continua a governare la nostra penisola, come un grande fratello ridanciano e barzellettiere – e l’ascesa della Lega, questi strani esseri verdi e grassi che dicevano parolacce in televisione.

La morte del Papa, i suoi funerali, l’odio quasi istintivo che il povero (si fa per dire) Ratzinger emanava naturalmente e suscitava nel pubblico (“Quel tedesco? Papa?! Oh mi signor!”, citazione a memoria di mia nonna, pia e fedele volontaria a Santa Teresa.)

Obama, il primo presidente americano nero. “Non dura due mesi, gli sparano prima.”

E Veltroni che gli ruba il motto: “Yes we can”. Poi abbiamo capito che da noi non si poteva fare.

E quindi? Quelli nati nel ’90, segnati fin dalla nascita dalle infinite crisi economiche, dal crollo della superpotenza e del sogno americani, dalla morte della politica, dal terrorismo globale, dal precariato?
Quelli che avevano vent’anni negli anni ’10, all’inizio di un secolo nato nero, senza troppe prospettive per il futuro, giovani eppure già disillusi e cinici come cinquantenni, svogliati, convinti dell’inutilità di tutto quello che li circonda, scettici ma privi di domande?

Sembra di vivere la tragicomica seconda caduta d’un redivivo positivismo: la sfiducia per il futuro è la stessa; le stesse certezze di progresso e infinito miglioramento che crollano.

Forse, chi è nato negli anni ’90, e aveva vent’anni negli anni ’10, l’unica cosa che poteva fare, era vivere la propria vita senza troppe illusioni – senza credere in essa.