lunedì 28 marzo 2011

L'arte e il male: umanizzare l'assurdo. Parte seconda.


Nell'ultimo intervento abbiamo cercato di far emergere una delle cifre caratteristiche del fenomeno artistico, ovvero quella di riuscire ad estetizzare l'elemento assurdo dell'esistenza.

Per chiarire, usiamo una similitudine e paragoniamo l'artista al vasaio: l'argilla informe viene modellata dalla mano dell'uomo, dal mondo naturale passa a quello artificiale, acquista una nuova funzione come vaso di ceramica – funzione donatagli dalla sua nuova forma – e per ciò stesso un nuovo significato, una diversa semantica: funzionale o, perché no, estetica. La materia è la stessa, ma in un caso è allo “stato base”, nell'altro ha subito una trasformazione da un'agente esterno: l'uomo.

Così per l'arte, in generale: dal materiale esistenziale di base, fatto di esperienza e interiorità, di cosmo e caos, di informe Assurdo, l'artista cerca di mettere ordine, di trasformare, di interpretare per comprendere, diventando egli stesso la fiamma che in-forma l'esistente, che lo cuoce, rendendolo atto alla fruizione da parte di altri suoi simili.

L'arte diviene quindi filtro per lenire le ferite (non solo razionali, ma concrete: chi pensa che una “ferita spirituale” non vada curata si sbaglia) provocate dall'Assurdo, o qualsiasi altro nome vogliamo dargli: Imprevisto, Caso, Sfortuna, Male, Irrazionale. Lenire in primo luogo estetizzando.

Estetizzare non significa “rendere più bello”; con tale espressione s'intende anzitutto dare nuovo significato all'esistente, (ri)avvicinarlo all'uomo, ricostruirne una semantica che superi la meschinità del dato oggettivo e lo trascenda. Tutto acquista un nuovo colore che permette alla nostra sensibilità di accettare ciò che prima cercavamo, senza riuscirvi, di capire.

La ricerca estetica (forse la qualità che più di ogni altra distingue l'uomo dalle altre forme di vita) permette di avvicinarsi all'Assurdo molto più della ricerca razionale-scientifica o fideistica. Come può essere tutto questo? Cosa la rende più adatta?

La sua origine individuale, ovvero la sua origine radicalmente umana. Ciò emerge con particolare evidenza paragonando l'arte al fenomeno religioso.

Il religioso, per essere definito tale, ha bisogno di un codice preciso di riti e miti che non possono essere riconosciuti come prodotti umani. Per essere davvero religione, un insieme di credenze deve essere ricondotto inevitabilmente alla divinità, ovvero ad un qualcosa di Oltre-mondano, di Trascendente, di Inspiegabile, che possiamo tuttavia influenzare con le nostre preghiere. Si cerca di contrapporre all'Assurdo un suo pari che, per quanto estraneo e lontano, è essenziale che abbia un contatto col nostro mondo.

Allo stesso modo, il fenomeno artistico supera in efficacia e forza il discorso razionale, interviene laddove la mente fatica a ordinare, supplisce alle categorie che vogliono “imbragare il mondo”, trasporta l'esoterico nell'essoterico grazie alla sua natura individuale in atto e universale in potenza. Il bisogno del fenomeno artistico sorge da quegli interstizi di vuoto che il discorso scientifico-razionale non riesce a coprire. Non è stampella, non è linguaggio primitivo in attesa di una positivistica sistemazione, non è mito: estetizzare non significa anestetizzare: di più, è manifestazione della stessa vita empatica dell'uomo.

Vita: è ciò che umanizza l'Assurdo. É la voce viva dell'artista, è il suo corpo che interviene nell'atto creativo, è la sua presenza che dona al manufatto la capacità di vivere in altri; ed è quella stessa vita che continua a operare attraverso il manufatto e attraverso il tempo.

Il fruitore non arriva a comprendere razionalmente quello stesso dolore che l'artista vuole trasmettere (pensiamo a Guernica – è possibile ma non necessario che il dolore sia materialmente quello dell'autore), è anzi reso partecipe di esso. Il dolore rimane, non viene cancellato, ma viene provato. Questo avvicina il fruitore al male, alla comprensione esistenziale dell'Assurdo.

Partecipare al dolore significa comprenderlo. Anche la più inumana delle esperienze può essere estetizzata dal gesto dell'artista che è – essenzialmente – vita. Il gesto fruito diviene esperienza condivisa, e quest'ultima, alla fine, comprensione esistenziale dell'Assurdo.

Non sappiamo perché esiste, non ne abbiamo scovato la ragione o la non-ragione fondamentale: ma l'abbiamo provato e per ciò stesso compreso; l'abbiamo provato e per ciò stesso abbiamo imparato a riconoscerlo; l'abbiamo provato e perciò stesso impareremo ad evitarlo.

Estetizzare per avere la forza di vedere; umanizzare per provare come vita quello che si è visto: infine comprendere ciò che al di fuori del fenomeno artistico si potrebbe soltanto relegare nell'ambito dell'Assurdo, filosoficamente; del Caso, scientificamente; del Male Assoluto, in religione.

Capire il nesso che congiunge estetica ed etica è secondo noi di capitale importanza. Non è ancora giunto il giorno in cui l'uomo potrà fare a meno dell'estetica per formarsi un'etica.

sabato 12 marzo 2011

Udine. Frammento secondo.

Un topo.
Il primo udinese che incontro è molto probabilmente un topo. Se ne sta al fresco della Roggia, sembra quasi ricambiare il mio sguardo stupito. 


La rete di canali interni della città di Udine è molto antica. Risale al periodo medievale: i canali, chiamati rogge (ròe in friulano), furono scavati per l'approvvigionamento idrico, al fine di aiutare lo sviluppo agricolo di un territorio altrimenti arido. Dall'acqua dipendeva il destino non solo economico, ma anche politico della città. Chi controllava le fonti d'acqua controllava il potere.

E non solo. Pranzo in una piccola osteria in via Sarpi, in pieno centro storico. Vado in bagno a lavarmi le mani, m'insapono prima di aprire i rubinetti. Non c'è acqua.
Chiedo alla cameriera spiegazioni. Arrossisce, va in cucina. Mi procura una spugna e uno straccio, “Mi scusi, è che hanno tolto l'acqua, mi sono dimenticata...”
Il vino l'hanno pagato loro: “Mandi, a presto. Mi scusi ancora, mandi.” 

...

Ne sono rimasti poche, purtroppo; le rogge superstiti scorrono, ora placide e silenziose, ora rapide e gorgoglianti, fino al centro. Lambiscono le strade principali, accompagnano il flusso dei passanti. L'acqua è chiara, limpida, illumina di giorno e riflette di sera.


Cammino anche io seguendo la Roggia. Percorro via Zanon, vedo trasformarsi le case, riconosco il passaggio della storia attraverso il susseguirsi degli stili architettonici. Dal centro rinascimentale, conservato ottimamente, pulito, bianchissimo, passo al liberty ottocentesco, segno dell'importanza strategica della città.
Poco più avanti le case squadrate e simmetriche annunciano l'arrivo del fascismo. La Roggia scorre sotto il cemento armato dei ponti razionalisti, i riflessi giocano con l'intonaco grezzo delle case. Il contrasto è magnifico.


Scesa la sera, vado per osterie. A Udine c'è una densità di osterie per metro quadro che ha dell'incredibile. Sono entrato in otto, se ricordo bene, e non ne ho vista una vuota.


Chi vale vola, chi non vale non vola. Chi vale e non vola è un vile”: così il nostro Duce.
Sono capitato in un'osteria nostalgica. Leggo con un sorriso i motti appesi ai muri e ordino da bere. 
Il padrone non sembra notare l'ironia del contrasto: da una parte la passione per la retorica fascista statalista, dall'altra l'orgoglio campanilistico per la Patria del Friuli. I muri sono raffazzonati con stralci di poesie in dialetto, cimeli e magliette inneggianti all'orgoglio friulano, giusto accanto a foto in bianco e nero e statuette nere simil-ventennio.
Fingo un forte accento romagnolo. Dico di abitare vicino a Predappio.

"Che fortuna che hai! La sua tomba sotto casa. Non sono mai andato, tra lavoro e famiglia, non trovo il tempo."
"Eh già, sono fortunato. Ma sa, vista una volta basta. Sa cosa mi piace di Predappio?"
"Cosa?"
"Le bruschette."

domenica 6 marzo 2011

Udine. Frammento primo.


Sono sul Frecciarossa, tratta Bologna – Venezia. Il treno non è particolarmente affollato. Il mio sedile dà sul corridoio. Vorrei rilassarmi e leggere ma uomini d'affari, molto probabilmente campani, parlano paurosamente forte. Sono costretto ad ascoltarli.

Ma di chi parli? Quello che s'è divorziato due mesi fa?”
Eh, chillo, Ninuzzo.”
Ah, peccato, divorziare... Ma tanto è ancora giovane. Ma è parente di Domenico?”
No, macché parente...”
Massì, chillo è imparentato con Domenico.”

Interviene Domenico accanto a me, che sembrava dormire. Parla e continua a tenere gli occhi chiusi.

Macché dici? Lo conosco appena.”
Ma non è tuo cognato?”
E che esser cognati è parentela ora?”


Due sedili davanti a me il piccolo bidone accanto ai tavolini pieghevoli continua a traballare durante la corsa, mandando un fastidioso rumore metallico. Passa il controllore per i biglietti: si ferma davanti a bidoncino rotto. Sbuffa.

Prende una di quelle riviste a consultazione gratuita, quelle che si sfogliano per riempire qualche minuto di noia. Ne strappa con forza una pagina. Tutti rimangono stupiti.
Piega il foglio fino a farne un quadratino e lo inserisce dietro il bidone, fermandone il traballare. Niente più trillo metallico. Lo sento mormorare, tra il soddisfatto e il seccato: “E poi dicono che la cultura non serve più a niente.” 

... 

Sul treno per Udine sono seduto di fianco al finestrino. C'è un sole magnifico, rimango a mezza manica. Penso a quanto è bello viaggiare da soli. Seguo con gli occhi il trasformarsi del paesaggio, da campagna pesante e fitta di campi a spazi più aperti, distesi.

Rimango esterrefatto dall'ampiezza del letto del Tagliamento. Un deserto di ghiaia, bianchissimo, che mi costringe a indossare gli occhiali da sole per osservarlo meglio.
Il terreno qua e là è segnato da rivoli d'acqua, pezzi di fiume disordinati che s'interrompono, riemergono, si riuniscono. Non una pianta, non un animale. In fondo, appena visibili nella canicola di Febbraio, le Alpi carniche.