sabato 8 ottobre 2011

I tecnofobi



[Tra la moltitudine di casi antropologici che si ha la ventura d'incrociare durante la propria carriera accademica, un posto di tutto rispetto lo ricoprono i tecnofobi. Ritengo che possa essere quantomeno interessante offrirne una descrizione puntuale al fine di conoscerne con esattezza i tratti caratteristici e scongiurare preventivamente qualsiasi contatto con essi, come in una sorta di bestiario medievale.]

Il tecnofobo tipo viaggia sulla sessantina, anche se non è escluso che possano esisterne nuove leve potenziali nella nostra generazione. È usualmente beneducato e colto, di preferenza professore in scienze umane. Sa citare autori a memoria, anche in lingua originale; arricchisce le sue tesi con distici e versi, ammantandole di un'autorità libresca e indiscutibile.

Canuta biblioteca ambulante, col passare degli anni ha raccolto il segreto degli autori più oscuri; ruga dopo ruga, s'è affaticato gli occhi su migliaia di pagine e testi: oggi può dire senza timore di tenere il Sapere in mano.

Collega tesi, ricollega pensieri, affresca interi secoli in poche frasi agili e sintetiche; scompone le parole, certo che dalla loro etimologia si possa risalire all'indiscutibile significato nascosto dal tempo; inizia le sue candide argomentazioni con formule del tipo: “Quello che veramente vuol dirci l'autore...” oppure “È questo il vero senso di queste parole....” o ancora “È indubbio che il significato dell'opera vada ricercato qui...”.

Ha quasi sicuramente vissuto il Sessantotto; ha frequentato volentieri gli autori di punta e le idee filosofiche del movimento, almeno fino a quando l'ambiente accademico lo ha permesso. Poi le ha rigettate, bollandole come errori di gioventù, per abbracciare un riflusso in una ben più seria e matura sfiducia nella modernità, nelle persone e, sopratutto, nel progresso scientifico. Non sa usare bene il computer, e per questo lo odia.

Dagli occhi del tecnofobo trapela una certa punta di nostalgia. Racconta volentieri aneddoti sui bei tempi andati, con l'intento malcelato di evidenziare indirettamente i vizi dei nostri giorni. Di tutte le antiche certezze psico-socialiste, ormai infrante in vaghi pregiudizi freudiani e polverose tesi marxiste, ha mantenuto saldo un unico dogma: la condanna della techne.

La tecnica rappresenta per lui l'unico vero problema della modernità, il nodo gordiano che la filosofia è chiamata a sciogliere, il nemico più formidabile e importante che il pensiero Occidentale abbia mai creato e, di conseguenza, tentato di risolvere. Non si può dire d'altronde che questa convinzione sia del tutto sbagliata.

Vero e proprio vaso di Pandora, causa di ogni male contemporaneo, una volta sollevato il topos della tecnica e della sua tirannia, il tecnofobo può tranquillamente perdere ore intere ricostruendo la genesi del pensiero scientifico, confutare le sue metodologie, metterne in risalto le numerose aporie interne e le conseguenze catastrofiche del suo esercizio.

Rivoluzione industriale, consumo di massa, disastri ecologici, Auschwitz, violenze, sperequazioni economiche, terzomondismo, Hiroshima, bruttezza e irrazionalità si mescolano invariabilmente nei suoi discorsi, in ordine sparso: sono gli ingredienti base della sua tecnofobia. La decadenza occidentale passa da questi necessari snodi del pensiero, prende forma quale indiscutibile evidenza filosofica, si radica alla base di ogni successiva riflessione sulla storia umana.

La tecnica, da semplice ancella della scienza, si è insediata come sovrana delle nostre vite, mina le nostre sicurezza etiche; la techne è il nuovo faro del mondo moderno, dà forma ai nostri desideri, cambia i nostri corpi e consuma gli ecosistemi mondiali. La tecnica ha preso il posto che un tempo era della Verità, e questo non potrà che trascinarci sull'orlo della catastrofe finale”, ti spiega il tecnofobo dall'alto della sua cattedra, mentre spegne di nascosto il telefono che ha dimenticato acceso.

La techne, su cui si basa il pensiero scientifico, non ha gli strumenti etici per giudicare le sue scoperte – gran parte delle stragi contemporanee hanno le radici in questa contraddizione. La modernità, che ha preso avvio dall'indagine razionale del soggetto e del mondo esterno, ha portato gradatamente all'oblio dei valori morali, giudicati quali semplici ostacoli da aggirare”, continua teatralmente mentre distribuisce le fotocopie del volume che intende analizzare.

Da serva si è trasformata in padrona, come per una sorta di dialettica hegeliana; doveva migliorare le nostre vite ma per assurdo ha finito col corroderle e privarle di ogni significato umano. Condiziona i nostri desideri, ha trasformato l'homo sapiens in homo oeconomicus, privo di valori etici, religiosi o filosofici, cieco consumatore di oggetti inutili che disperatamente imbellettano il vuoto affettivo che ci rode, tutti noi, nessuno escluso”, condanna, mentre cerca su Internet notizie biografiche su un idealista tedesco.

Per non parlare dell'estetica: mai la bruttezza ha raggiunto questo grado di pervasività che ci troviamo oggi tristemente a contemplare. La produzione di massa ha fatto piazza pulita del sapere artigianale, ha debellato la cura dell'oggetto esaltando la velocità nella produzione, attraverso l'idolo della funzionalità. Ha innalzato l'economia a principio sommo, dimenticando l'estetica; ha mascherato la sua ingordigia con la retorica del miglioramento delle condizioni di vita”, continua a sostenere, anche dopo la lezione, spegnendo il microfono e dirigendosi verso l'ascensore che lo porterà allo studio, un bellissimo attico al settimo piano.

Senza contare i disastri e le stragi che ha reso possibile l'utilizzo indiscriminato della techne: le camere a gas, la bomba atomica, il nucleare. E non dico nulla sul fatto che questo progresso economico lo abbiamo ottenuto sulla pelle di una stragrande maggioranza di sfruttati. Il compito del filosofo non è tanto quello di capire la tecnologia, quanto quello di domarla, imbrigliarla, prima che sia troppo tardi. Siamo sull'orlo di una crisi globale che, malgrado l'obiettività della ricerca scientifica e la neutralità dei ricercatori, i tecnocrati non hanno voluto vedere, forse per mancanza di pianificazioni a lungo termine, forse per una più bassa ingordigia economica”, ti urla dal finestrino del suo monovolume, pronto a dirigersi a casa.

Io credo che sia giunto il momento di accantonare il pensiero razionale, seme di tanti disastri e miserie, radice di una scienza che non dà risposte, ma solo altre domande – nonché forti costi sociali e finanziari – dogma di una società malata, egoista e individualista, dimentica dei valori morali e religiosi, persa e solitaria, e abbracciare al suo posto un nuovo modo di vedere il mondo, alternativo e lontano dal pericolo di un'implosione della civiltà”, conclude, assaporando il suo sigaro in aeroporto, prima di partire per la conferenza.

Come può il tecnofobo rendersi conto dell'amara comicità della sua esistenza?
Non vede la tecnologia perché ne è immerso: e quanto più condanna, tanto più ne dipende.