sabato 26 luglio 2014

Es patrìda gaian #4

La strada che porta a Epidauro è poco frequentata. Si ripetono curve dolci, saliscendi morbidi, immersi nel verde dei pini marittimi. Sembra quasi che anche il sole qui sia più clemente, più umano, e non il solito mediterraneo disco di ferro battente. Non stupisce che il santuario dedicato ad Asclepio l'abbiano voluto fondare in questi luoghi: come per le case di cura moderne, immerse in quelle scenografie bucoliche e agresti che, in fondo, fanno sempre immalinconire un po'.

Assieme a Olimpia e a Delfi, per ragioni affatto diverse, Epidauro è stato un centro di raccolta e pellegrinaggio di importanza notevole per la civiltà greca. Il santuario doveva essere in un qualche modo un luogo paragonabile alla Lourdes moderna, in cui si va per ricevere la guarigione dal dio, in questo caso Asclepio.

giovedì 24 luglio 2014

Es patrìda gaian #3

Sparta - anzi, Sparti - langue innocua al centro della sua bella pianura. Quattro strade, per di più brutte e polverose, ricostruite in fretta e furia così come veniva più comodo, a centuriazione romana. Qualche spartana sorbisce con la solita indolenza l'immancabile caffè-frappè estivo, guardandoci passare con aria interrogativa.

Nulla che lasci riaffiorare il passato, nulla che riesca a fare anche solo intuire l'esistenza di una delle città più importanti della storia occidentale. Altroché "Questa è Sparta!", altroché Leonida! Oggi alza goffamente la sua spada davanti allo stadio cittadino, impietrito dentro una scultura discutibile, meta di fanatici o di americani di passaggio in vacanza di gruppo.

martedì 22 luglio 2014

Es patrìda gaian #2

È poco più che un ragazzo. Guarda davanti a sé con occhi bene aperti, attentissimi. Scruta forse le imperfezioni dell'arena prima della corsa, ma potrebbe anche ammirare il podio, potrebbe, con una punta d'invidia per il vincitore, o con quella calma profonda in cui precipitiamo dopo la vittoria. L'auriga sta per stringere in pugno le redini che si divincolano come serpenti: ma ancora il movimento è ambiguo, impossibile distinguere se di stretta o di resa.

Lo sguardo è fermo, il collo saldo: ma già il bicipite è gravido di una genesi di sforzo. I piedi, realissimi, accidentati, ben fermi a terra: ma già le labbra sembrano dischiudersi nel primo urlo per incitare i cavalli. C'è qualcosa che si agita dentro all'Auriga di Delfi, ma non sappiamo definire cosa. Un'indecisione profonda, uno scontrarsi psichico, camuffato dietro un'apparenza di quiete e contemplazione.

lunedì 21 luglio 2014

Es patrìda gaian #1

Ci si lascia l'agorà alle spalle, salendo. L'ombra bassa e odorosa dei pini è come una promessa: nasconde il sole spietato, allevia la fatica dell'ascesa. Le indicazioni sono poche, sulla collina della Pnice - i turisti ancora meno. Qualche ateniese si riposa su una panchina scrostata, fuma, dormicchia. Le lucertole approfittano degli sprazzi di luce disegnati sugli aghi di pino prima di sparire inghiottita nel folto delle agavi. Tutto odora di caldo, tutto è immobile nel frinire delle cicale.

Si ascende fino alla cima, poca cosa in confronto all'Acropoli. Quindi il verde dirada, si apre imprevisto a un bianco accecante, verso ponente. Spunta la roccia, nuda, come se avessero ferito la collina fino a mostrarne le ossa. È un teatro naturale, a semicerchio, che degrada impercettibile. Non un arbusto, se non sterpi bruciati e spinosi. A est, le chiome ossute dei pini; a ovest la città, a perdita d'occhio, un mostro incoerente di case e terrazze bianco sporche, che sale ed avvinghia alla gola il monte Licabetto.