domenica 10 gennaio 2010

Arte e disinteresse. Ovvero perché i film dei fratelli Cohen sono opere d'arte e i cinepanettoni no.

(Dedico questo intervento a Marco Gennari, ringraziandolo per lo spunto critico e la sfida.)


Parlando di estetica nella vita quotidiana si finisce quasi sempre per cadere nel relativismo più assoluto. Regnano il “non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace” oppure il più ricercato “de gustibus”.


Il concetto di bellezza viene frammentato in punti di vista, ridotto a pura opinione soggettiva, e si ha l’impressione di essere arrivati ad un vicolo cieco. Il discorso non può progredire oltre: il tuo concetto di bello dovrà per forza fermarsi dove comincia quello degli altri, un po’ come per la libertà.

Se ci si pensa bene, in fondo anche la bellezza è una libertà.

E come tale ha bisogno di essere coltivata, ricercata, ottenuta con fatica. Deve avere almeno l’intenzione dell’autonomia, in quanto una bellezza condizionata da un fine non è bellezza. Mi spiego.


Dopo Duchamp, e in generale dopo la rivoluzione dell’arte concettuale del primo Novecento, si fa molta fatica a stabilire la stretta linea di demarcazione tra arte e oggetto comune. Se anche un pisciatoio pubblico può essere definito opera d’arte – più precisamente “fontana” – ed esposto di fianco alla Monna Lisa, evidentemente non ci possono essere canoni universali ed infallibili per definire cosa sta all’interno del mondo artistico e cosa ne è fuori. Questo, tuttavia, non significa né che l’arte si sia dissolta in oggetto, e nemmeno che il mondo sia stato innalzato ad arte.

Sta di fatto che la difficoltà di riconoscere l’opera d’arte rimane, soprattutto nella quotidianità.

Tanto più in ambito cinematografico, dove, come teorizzò Benjamin, si è persa l’aura dell’opera d’arte, il suo carattere unico ed irripetibile, ottenendo di contro una riproducibilità tecnica prima di allora mai sperimentata. Usando le sue stesse parole, l’opera d’arte può trascendere l’hic et nunc elitario del museo e raggiungere un numero di spettatori molto maggiore, anzi, talmente grande che si può cominciare a parlare di pubblico di massa.

Come sciogliere questo nodo gordiano? Come riuscire a stabilire, con buona approssimazione, cosa è arte e cosa no?

Credo fermamente che questa effettiva impasse possa e debba essere risolta senza cadere necessariamente nello scetticismo della pura opinione né nella trappola del relativismo assoluto.

Trappola perché consente sì di confutare facilmente le idee dell’avversario (“tutto quello che supponi, è solo un tuo punto di vista. Dimostrami il contrario”), e certamente semplifica il lavoro sporco della pars destruens del discorso; ma allo stesso modo rende impossibile la costruzione di una teoria in positivo.

Poniamo dunque come punto di partenza per la ricerca di una definizione di arte, il suo carattere intenzionale. Tutto quello che aspira ad essere chiamato “arte”, deve avere la genuina intenzione di essere tale e non altro. Non si fa arte per caso, così come non si è liberi per caso.

Inoltre, in quanto voluto puramente come oggetto artistico, un prodotto che ambisce ad essere tale non può e non deve avere altre finalità. Possiamo definirlo carattere disinteressato dell’arte.

Questo è un punto cruciale; se non si riconosce allora la ricerca non può proseguire oltre. L’arte, in altre parole, è sempre un fine, mai un mezzo. In caso contrario la chiameremmo tecnica e la sua qualità verrebbe valutata in funzione delle sue finalità. Diremo che un ingegnere ha una buona tecnica se costruisce o progetta adeguatamente al suo scopo. Un artista, al contrario, crea un’opera per puro piacere estetico: il fine coincide con il mezzo.


Una volta chiariti questi due punti, si può concludere che se un lavoro umano, fisico e/o concettuale non ha altri fini se non la sua stessa esistenza in quanto fonte di piacere estetico, essa può, con buona approssimazione, essere chiamata opera d’arte.


I più scettici potranno sollevare un altro problema: è possibile creare un tale oggetto? Esistono azioni del tutto disinteressate? Davvero i fratelli Cohen hanno lavorato alle loro pellicole per puro piacere estetico e non invece, e più realisticamente, per guadagnare qualcosa da mettere sotto i denti?


Certamente anche i fratelli Cohen dovranno mangiare qualche volta. Ma c’è una grande (e bella) differenza tra lavorare per mangiare e mangiare per lavorare.

Il discorso qui si sposta alla vecchia disputa tra opera commerciale e opera d’arte.
Cosa distingue un romanzo strappalacrime Harmony e i Promessi Sposi? Che differenza passa tra musica commerciale e musica d’avanguardia? Perché sembra che tutto quello che piace all’uomo medio sia spogliato dai critici dello status di arte?
La questione non è di qualità. Si tratta di due cose differenti, su questo non c’è dubbio, ma non necessariamente l’opera commerciale è inferiore a quella artistica.


Il problema è che, molto spesso - ma non sempre - l’opera d’arte non viene avvertita dal pubblico come “bella” poiché non ricade nel suo limitato concetto di bello.

Come la fontana di Duchamp ci ha insegnato, l’arte non deve essere bella; l’arte non deve essere niente, se non se stessa.

Per questo le opere commerciali hanno tanto successo: assecondano il pubblico per fare più soldi. C’è qualcosa di sbagliato in questo? No. Ma non si può dire che esse siano arte; sono piuttosto prodotti.

I fratelli Cohen fanno cinema impegnato, e non assecondano il gusto del pubblico-massa. Se hanno successo è perché c’è chi ha riconosciuto l’intenzionalità e il disinteresse dei loro lavori, e li ha finanziati e prodotti in funzione di esso. I numerosi premi ricevuti lo testimoniano.


Il guadagno, quindi, è un epifenomeno, un effetto collaterale, necessario a sostenere materialmente l’artista e a consentirgli il lavoro. Se hanno “fatto soldi”, è merito della qualità del loro cinema, quindi tanto di cappello. Ma non possiamo dire che lavorino solo per questo.

D’altronde non si può non ammettere che la differenza investa anche l’oggetto d’arte di per sé. Dove nel cinema commerciale si ripetono schemi narrativi, tipizzazioni di personaggi, colonne sonore neutre e modelli di inquadratura senza variazioni degne di nota, ma capaci di avere una presa immediata sul pubblico, il cinema artistico si distacca per originalità, difficoltà di tematiche, scelta di attori e sceneggiatura, risultando spesso ostico per la sua comprensione.
Spero che una società, benché concentrata sul profitto e sull’interesse personale, possa ancora riuscire a credere alla possibilità di azioni disinteressate fini a se stesse, senza doverle sporcare col dubbio del ritorno economico o ridurle a stravaganze intellettuali ed elitarie.

mercoledì 6 gennaio 2010

Il fallimento del femminismo. Parte Prima: perché la musica pop moderna non può fare a meno del corpo

Lungi da me ogni tipo di moralismo. Questo intervento non vuole condannare nessuno.

Come Pasolini non credo che si possano dare giudizi di valore ai processi culturali: non ne avrebbe senso dato che non possono essere cambiati da una voce sola. Si tratta piuttosto di descriverli, di riordinarli secondo un criterio, di metterli in relazione ai nostri tempi e alle nostre vite.

Si tratta di rilevare i cambiamenti in atto senza fastidiosi commenti “O tempora! O mores!”; del resto non crediamo più alle favole degli “andati tempi d’oro”.


Il punto è questo: sembra che dopo più di un secolo di lotte, proteste, trattati e vittorie, il femminismo si sia spento. O meglio, che si stia spegnendo.
Non è solo un’impressione fugace, ispirata da stacchetti velineschi o mammellute giovinette in prima serata. È molto più di tutto questo.

In ogni ambito della vita civile sembra che l’essere donna si stia poco a poco cristallizzando in “tipi” che non hanno più nulla d’originale né, ed è quello che conta, di normale, di quotidiano.
Per formulare meglio il concetto, pare che la donna sia stata lentamente ma inesorabilmente privata di una “personalità pubblica”.


Il fenomeno si osserva in modo chiaro e distinto soprattutto in campo musicale, punto d’incontro insuperabile ed insuperato di tutte le classi sociali del nostro tempo. Non esiste nulla di più interclassista della musica. Si può azzardare l’ipotesi, senza scostarsi troppo dal vero, che oggi i figli dei ricchi ascoltino acquistino e scarichino più o meno gli stessi brani musicali dei figli degli immigrati. Fatto nemmeno lontanamente ipotizzabile anche solo 50 anni fa.

È proprio nel corso dell’ultimo mezzo secolo che il ruolo della donna nell’industria musicale è cambiato come in nessun altro settore della vita sociale femminile. Nessuno poteva aspettarsi tali mutamenti.

L’importanza della donna nella musica popolare leggera è cresciuta in modo esponenziale, fino a riassestarsi in una sorta di simbiosi cui oggi assistiamo ogni giorno seguendo un qualsiasi canale di musica pop. Il tipo di simbiosi a cui facciamo riferimento consiste nell’unione di musica e corpo (e quindi, a livello più profondo, di musica e immagine), un’unione che ha raccolto un successo tale da essere divenuta quasi inscindibile.

Prendete una qualsiasi canzone leggera e di successo degli ultimi 10 anni. È assurdo anche solo pensare di trovare un videoclip nel quale non si faccia ora sfoggio, ora riferimento, ora allusione, ora esplicito utilizzo del corpo femminile. L’idea è che l’importanza della musica in sé è per sé è andata scemando, utilizzando come appoggio economico-artistico la carica erotica del corpo femminile.


Coll’avvicendarsi di nuove generazioni, meno “fini d’orecchio” per così dire, e abituate fin da giovani ad una sempre più scadente educazione musicale, il mercato si è adeguato elargendo musica progressivamente più semplice (con semplice intendiamo fondata in massima parte sullo sfruttamento di una melodia basilare ripetuta in sequenze senza variazioni importanti e di una sempre maggiore sezione ritmica).

Negli anni ’80, con la creazione della prima televisione di musica commerciale, l’importanza dell’estetica è cresciuta d’anno in anno, soppiantando in modo ben più radicale l’importanza della musica, aiutata dalla “stampella dell’immagine”. Da allora assistiamo ad una semplificazione inaudita del suono (anticipata inconsapevolmente dai Kraftwerk negli anni Sessanta), e ad una erotizzazione dell’industria musicale altrettanto inedita.
Per comprendere meglio come questo sia potuto accadere, è utile adoperare un metodo genealogico che parta dai primi documenti audiovisivi rintracciabili sulla rete, nei quali compaia la donna come soggetto fondamentale, per arrivare fino agli ultimi, ben più conosciuti esempi di erotomania in musica.
(La lista non vuole assolutamente essere esaustiva: lo spazio è troppo esiguo. È tuttavia molto interessante notare il cambiamento e la qualità dello spazio che sono stati dati alla donna in pochi ma significativi casi.)


Negli anni Cinquanta, lo spazio dato alla donna nelle televisioni nazionali era talmente esiguo da risultare nell’immaginario pubblico quasi nullo.

Le prime donne cantanti permesse furono probabilmente donne di colore come Big Mama Thornton; donne a tal punto lontane dallo spettatore da risultare “innocue”. In modo paradossale per un America ancora segnata dal maccartismo e infuocata dal razzismo sudista, quelle donne nere dalla voce potente furono le prime a potere esprimere liberamente non soltanto la loro arte, ma anche il loro corpo e il loro modo di essere donne. Un intervento come quello di Big Mama Thornton del 1953, sarebbe oggi impensabile in una televisione commerciale.


Con gli anni Sessanta, come si può bene intuire, le cose cominciano a cambiare, e in modo molto rapido. Prima innovazione: i balletti.

Ne sono un esempio quelli delle Shirelles, forse le prime Spice Girls della storia. In una comparsa del 1964 accennano qualche movimento; la telecamera indugia ancora molto pudicamente sul didietro di una delle ballerine coriste per spostarsi quasi subito sul viso poco truccato della cantante.

Con l’esplosione del movimento d’emancipazione nero e femminista, anche i gusti del pubblico cambiano. Diana Ross and The Supremes, forse le prime donne nere in assoluto a poter vantare lo status di sex symbol, possono essere considerate le icone di un nuovo modo di “vedere” le donna. Lo testimonia questo documento tratto dall’Ed Sullivan Show del 1964.

Per ultimo, Miriam Makeba, una delle poche donne di successo a rimanere fedelmente ancorate ai propri ideali, simbolo di tutto un continente (Mama Africa, la chiamavano) che si esprimeva nei movimenti scandalosi del suo corpo. Makeba è un esempio perfetto del potere in positivo che la carica erotica del corpo femminile può avere sugli spettatori: ne è una fedele testimonianza questo documento del 1968, filmato dal vivo a San Paolo.


Con gli anni Settanta e lo sviluppo della musica elettronica cambiano i ritmi della musica e del corpo. Le cadenze ossessivamente cadenzate della sezione ritmica emulano il tempo dell’atto sessuale. La musica si fa veicolo di socialità e come tale deve eccitare. Nascono i primi club, la musica si fa più “sporca”.

Donna Summer è una delle più celebrate icone della musica dance, e anche una delle più amate. “Love To Love You, Baby”, del 1975, allora sperimentale, è ancora tra i brani più ballati e conosciuti del periodo pre-78. Il pezzo divenne famoso soprattutto per i suoi languidi sospiri.

Anche la moda, dopo la rivoluzione glam dei primi Settanta comincia a cambiare. Gli abiti si fanno più appariscenti, più estremi; il corpo viene scoperto gradualmente. Emergono le forme come mai si erano viste prima. Il video di “Heart Of Glass” dei Blondie del ’79 testimonia tutto questo.


La grande rivoluzione arriva tuttavia con gli anni Ottanta, come già detto con la creazione di MTV, il primo canale di musica commerciale della storia.

Icona di questo cambiamento epocale non può che essere Madonna. Con lei cambia tutto. Per usare le parole di Morley: “Era una donna che imitava un uomo che imitava una donna.” I desideri dello spettatore medio sono incarnati da questa ragazza che fa scandalo, che sembra non avere limiti di fantasia o pudore nei suoi tentativi di eccitare ad ogni costo. “Like a Virgin”, del 1984 è il suo primo successo. Come fa vedere il video, la donna da sposina diventa una provocante “sex machine”, cui di vergine rimane davvero ben poco.

Importante citare la hit di Cyndi Lauper, “Girls Just Want To Have Fun”, di un anno prima. La canzone, di per sé poco interessante, diverrà un vero e proprio manifesto giovanile della nuova donna sicura di sé e del suo corpo. Il modello, rovesciato in negativo, appare in proprio apertura, con la sciatta madre chiusa in casa a preparare da mangiare, mentre la figlia balla per strada.


Risalendo fino agli anni Novanta non si può fare a meno di notare l’importanza che il fenomeno della semplificazione musicale ha rivestito fino a questo momento. Con il sincretismo musicale dei ’90 e il definitivo sdoganamento della donna come “oggetto erotizzato”, il nodo musica-immagine diviene indissolubile. Nascono così i fenomeni planetari della musica commerciale, diretti in primo luogo al mercato dei teenager; i brani non sono conosciuti di per sé, quanto piuttosto in riferimento alla donna che lo canta.

Le Spice Girls sono l’esempio più formidabile di questo tipo d’intendere la musica: la loro “Wannabe”, del 1996, sarà intonata da migliaia di ragazzine; è con loro che il corpo comincia ad essere inteso come strumento.

In poco tempo le Spice Girls verranno emulate da decine e decine di altri – meno fortunati – cloni commerciali: uno dei più conosciuti le Destiny’s Child, che ho scelto in preciso rapporto ai primi esempi fatti di musica nera. Come si può notare, la musica nelle strofe è ridotta all'osso: puro ritmo.


Nei 2000 il fenomeno si sclerotizza, fino a toccare punte di eccessi impensabili fino a pochi anni prima. I videoclip si fanno sempre più spinti; le donne sempre più idealizzate ma irraggiungibili, con corpi divini ma sempre più simili tra loro. Le donne perdono di individualità, si adeguano ai canoni medi di bellezza, non osano romperli per non risultare indesiderabili.

Ho scelto pochi video, molto famosi, tra le migliaia di quelli possibili. Kylie Minogue, con il tormentone “I Can’t Get You Out Of My Head” del 2001, che è forse l’ultimo grande brano dell’ultima stagione del pop commerciale; Christina Aguilera, che nel video della sua “Lady Marmelade” del 2002, riesce a riunire i corpi femminili più appetibili del momento in una sorta di rivisitazione erotico-bambinesca del più famoso night club del mondo; per ultima Rihanna, che con la recente hit “Umbrella”, del 2007, si aggiudica il premio per il video più provocante e meno originale di questa decade.



Si diceva, per finire, che l’importanza del corpo femminile è andata aumentando esponenzialmente, fino ad arrivare ad eccessi imprevedibili proprio negli ultimi anni.
Tuttavia il problema non è legato alla qualità della musica in sé e per sé. Quello è un epifenomeno secondario, una conseguenza di un altro ben più importante aspetto della questione.


La donna era prigioniera del suo corpo. Poi, esasperata, lo ha imbrandito come un’arma, come istanza di protesta, come simbolo di una propria dignità. Quindi, ormai libera, ne ha intuito le potenzialità infinite ed ha cominciato ad utilizzarlo come strumento di autorealizzazione.
Ora, portata agli estremi questa scelta, ne sono di nuovo ridivenute schiave.


Oggi la donna non può fare a meno del corpo, un po’ come la musica, per potere affermare pienamente se stessa.