lunedì 25 luglio 2011

Tracce di Derrida e residui di fantasmi

 
Sol chi non lascia eredità d'affetti | poca gioia ha dell'urna



Nessuno di noi vive in eterno. Il nostro tempo vitale è una parentesi: possiamo muoverci restando all'interno dei suoi limiti, ma non possiamo superarli. Questa limitatezza provoca angoscia: è in fondo il grande tema del ritorno al nulla, che ha attraversato come una presenza spettrale il panorama filosofico occidentale fin dalle sue origini.

Basta pensare a Platone, che nel passo più famoso del Simposio affronta proprio la questione della mortalità dell'essere umano e della sua possibile “prevenzione” ad opera dell'Amore, affidandola alle parole della sacerdotessa Diotima.

Tutti gli uomini concepiscono e secondo il corpo e secondo lo spirito; e giunti a una certa età, la nostra natura sente il desiderio di procreare. Ma procreare nel brutto non può: può soltanto nel bello. Così, l'accoppiamento dell'uomo e della donna è procreazione. Ed è veramente cosa divina, questa; e nella creatura che ha vita mortale c'è questo d'immortale, il concepimento e la generazione.” [206c]

(...) la natura immortale cerca, per quanto può, di divenire eterna e immortale. E può riuscirvi solo per questa via, la via della generazione, perché essa lascia sempre dietro sé un altro essere nuovo in luogo del vecchio.” [207d]

E ancora:

(...) ché in tal modo si conserva tutto ciò che è mortale: non col restare sempre assolutamente identico, come il divino, ma in quanto quel che invecchia vien meno lasciando al suo posto un'altra copia, giovane, di sé stesso.” [208b]

Secondo Platone dunque si può effettivamente pervenire a una forma di “immortalità mediata” o biologicamente, se si è fecondi nel corpo, o intellettualmente, se si è fecondi nell'anima, attraverso la produzione intellettuale. È questo, banalizzando, il significato del Simposio: Amore è ricerca di immortalità attraverso la produzione del bello, sia essa fisica, sia essa intellettuale.

Risposta simile, pur provenendo da un orizzonte semantico del tutto diverso, è quella di Derrida, che nel suo lavoro De la grammatologie (1967) individua nella traccia un elemento fondamentale della sua filosofia.

Prodotta dalla nostra vita, la traccia è capace di allargare, seppur fittiziamente, quelle parentesi e di elevare il nostro statuto ontologico a un livello più alto, capace di resistere al tempo più del nostro corpo. Come singoli individui, come persone irripetibili siamo destinati a scomparire, ma avremmo raggiunto un sorta di “immortalità mediata” attraverso le nostre opere, purché esse lascino una traccia. Riecheggia il discorso di Diotima: i “figli più belli e più immortali” [209d] sono le opere d'ingegno.

La traccia è dunque un documento che lasciamo della nostra vita, che attesta la nostra fuoriuscita dal nulla, nostro significante. La traccia è ciò che resiste al tempo, è un link orientato al futuro che preserva la nostra memoria.

Paradossalmente quindi, si potrebbe dire che la traccia è più viva di noi, poiché, una volta scomparsi, resterà essa a testimoniare per noi (il sepolcro è la traccia per eccellenza). In un certo senso si potrebbe concludere, con Derrida, dicendo che vivere significa lasciar tracce.

Ancora una volta le buone idee ritornano a galla, diventando attuali invece di invecchiare. Ci sembra infatti che la frenesia del nostro tempo sia quella di documentare. Tutto va scritto, filmato, salvato affinché possa esistere. A pensarci bene anche la babelica Internet potrebbe essere considerata come una sorta di traccia sovra-individuale, invisibile e impalpabile, che testimonia della vita dei suoi utenti.

Le capacità informatiche di immissione e conservazione dei dati hanno implementato enormemente le possibilità di lasciare una traccia, resuscitando il pensiero di Derrida e scaraventandolo nell'oggi. Tutto (dai libri, alle immagini in movimento) può essere scritto in caratteri informatici e conservato a tempo indeterminato sul server di qualsiasi computer.

Ci chiediamo se, grazie ad innovazioni tecnologiche fino a pochi anni fa impensabili – basti citare il cloud computing – la tendenza non si sia a tal punto diffusa da invertirsi. In altre parole, se per Derrida vivere significa lasciare tracce, non è forse diventato più vero che oggi lasciar tracce significa vivere?

Prima di azzardare una risposta all'interrogativo, a prima vista ozioso, approfondiamo ulteriormente la questione.

Tocchiamo qui con mano un nodo a nostro parere fondamentale del nostro tempo: la perdita di senso dell'esperienza reale. La concretezza non è più un dato esistenziale forte, non è più sicurezza né qualità: è un ostacolo da aggirare. Oggi la traccia sta perdendo concretezza materiale per acquisire una nuova concretezza ontologica che passa per la sua stessa smaterializzazione.

Non è importante che l'oggetto (o il soggetto, adesso non importa) esista materialmente: importa invece la sua esistenza potenziale (o virtuale, se conserviamo di questo aggettivo l'etimologia corretta).

L'impressione è quella di una frenesia collettiva alla documentazione, ad una pulsione inesausta alla virtualizzazione dell'esperienza concreta.

D'altronde, se la traccia ha deposto l'ormai vetusta abitudine alla concretezza (l'immagine non può che essere quella di una biblioteca di borgesiana memoria, uno spazio immenso e polveroso contenente le storie di tutti) per farsi agile componente informatica, pen-drive, cloud-computing, la spiegazione fenomenologica di questa frenesia alla documentazione si può spiegare senza ulteriore spreco di fiato.

Oggi, paradossalmente, per lasciare tracce occorre smaterializzare l'esistente: nulla di più, nulla di meno. A ciò sovrapponiamo il fatto che l'istinto umano è un istinto alla conservazione. Non stupisce quindi questa frenesia; la traccia passa dalla smaterializzazione dell'esistente perché la tecnologia è andata in quella direzione. Nessun cambiamento antropologico, nessuna critica culturale.

Tutto ciò è vero, ma rimane qualche dubbio. L'interrogativo che ci eravamo posti partiva dal rovesciamento provocatorio dell'asserzione derridiana: lasciar tracce significa vivere?

Ora, posta la domanda in questi termini, la nostra risposta non può che essere negativa. La vita è una condizione necessaria all'esistenza della traccia, è vero. Senza vita non c'è traccia. Ma non si può invertire l'ordine, rendendo traccia condizione sufficiente alla vita, pena la confusione tra traccia e residuo.

Definiamo residuo una traccia che manca di significato. Residuo è una testimonianza che manca di significazione, un balbettio vuoto, una lallazione infantile resa inservibile a chiunque in futuro voglia ricreare un collegamento con la nostra vita. La traccia è diventata paradossalmente residuo per la sovrapproduzione di documenti.

Di carattere residuale è infatti la maggioranza delle tracce che vengono immesse e salvate sulla Rete. Esse non significano niente, non testimoniano nulla che possa aiutare a ricostruire una semantica della nostra esistenza. Esse attestano invece una più bassa attrattiva di spettacolarizzazione dell'evento.

Ogni più insignificante particolare della vita quotidiana aspira allo status di traccia. Non solo: questa sovrapproduzione di non-tracce residuali sembra fomentare un dubbio molto più sottile – nonché deviante: se manca di documentazione l'evento non è mai esistito.

Si possono forse ravvisare la cause di questo fenomeno nella facilità e nella gratuità che oggi permettono la creazione di non-tracce residuali. Smaterializzare la propria vita, le esperienze fatte, le amicizie, in un fenomeno di ricostruzione pressoché integrale della propria esistenza in scala 1:1, smaterializzare in ultima analisi la propria persona per salvarla dal tempo è oggi del tutto gratuito. Ma, come spesso accade per le cose gratuite, è del tutto superfluo.

Derrida aveva anticipato anche questo: “Je crois que aujourd'hui, tout le développement de la technologie et de la télécommunication, au lieu de restreindre l'espace des fantômes, comme on pourrait penser (…), décuple le pouvoir et le rétour des fantômes.”

Smaterializzandoci siamo costretti, in parte, a divenire fantasmi.

lunedì 4 luglio 2011

Intervista a Davide Reviati. Parte terza.


[Qui l'intervista completa a Davide Reviati]

Prova a parlare male della fabbrica: rischi i molari. Nonostante ti abbia regalato morti e veleni. Questo è un nodo narrativo molto stimolante. Sai che la fabbrica è potenzialmente un pericolo per te e per la tua famiglia, eppure continui a lavorarci e a difenderla strenuamente, perché allo stesso tempo ti sta dando la possibilità di vivere. In molte tavole del romanzo ho cercato di trasmettere questa terribile contraddizione. E forse la narrazione nasce proprio quando non hai una risposta e magari sei pieno di dubbi. Allora capisci che le cose sono molto più complesse di quello che sembrano e rendere viva questa complessità diventa una grande sfida.

La fabbrica ha dato da mangiare a molti. Ma punisce ingiustificatamente. Proprio come una madre. Alcuni hanno definito Morti di sonno un libro di denuncia. Ma non era questo il mio intento. Un libro di denuncia presenta una tesi chiara, un'accusa che devi sostenere. Il mio libro racconta invece le contraddizioni del vivere. Non ha una tesi pronta in tasca.

Morti di sonno, pag. 107


Volevo scrivere un libro anche ironico, divertente. Anche se volessi non riuscirei a condannare del tutto il Villaggio! All'inizio era un luogo paradisiaco per noi bambini: era come vivere in campagna. Come vedi vivo sulla mia pelle la contraddizione. Questo sentimento è durato almeno fino all'età della ragione; poi si cominciò a sforare in città e a sentire i problemi dell'integrazione.

[Il nido diviene trappola.]

Io sono nato qui, anche se i miei sono originari di Parma. Venivano da fuori, come tanti del quartiere, e per alcuni l’integrazione con la città non è stata facile.
C'era un po' di resistenza nei confronti del Villaggio A.N.I.C e dei suoi abitanti. Nell'immaginario comune eravamo i drogati, i disperati. D’altro canto i ravennati avevano le loro ragioni, ma questo è un discorso lungo che ci porterebbe lontano.

[Come non pensare a Lido Adriano? Le sue parole sono un traslato della situazione di oggi: un ghetto simile a quello del Villaggio, forse meno ospitale per i suoi abitanti, isolato, problematico.]

Hai ragione. Per molti versi il Villaggio di ieri somiglia alla Lido Adriano di oggi. Per questo ne subisco il fascino sinistro, se vogliamo dire così. É un imprinting. Lido Adriano l'ho frequentata abbastanza, perché ci ho lavorato molti anni fa. Pulivo appartamenti e accompagnavo i turisti ai loro alloggi.

Per entrare dentro una storia, ho bisogno di far sedimentare le cose, magari farle anche andare a male per ripescarle poi ed accorgersi che sono un’altra cosa da quel che credevi e volevi. Ho bisogno di viverci insieme alla storia e ai personaggi, prima del momento di entrare nel tunnel del fare, del costruire. Sono quello che scrivo, non c'è nulla da fare.

Ma forse le cose non stanno neanche così: forse dovrei parlare della mia infinita pigrizia cronica, che non conosce tramonti.

[E Pessoa? Non dice forse che il poeta è il grande fingitore? Gli si illuminano gli occhi.]

Pessoa! Sento una profonda empatia con ciò che ha scritto Pessoa. E con quella sensibilità estrema che rende arduo pensare di poter davvero vivere.

[Sensibilità?]

Sì, certo. Faccio un esempio. Ho masticato fumetti fin da piccolo, come ti ho già detto. Poi, mentre studiavo in Accademia, ho scoperto la pittura.

Alcuni pittori hanno avuto un influenza molto grande sul mio modo di intendere questa attività di disegnare e di scrivere. Ad esempio Goya: lo adoro, uno dei più dissacranti e magistrali pittori che esistano. Ma anche solo andando sullo scontato: Picasso. É un grattacielo da scalare. Credo che sia il più grande disegnatore del secolo passato.”

E, come Pessoa, non ti insegna uno stile. Lui che ne ha passati così tanti: periodo blu, periodo rosa, arte africana, cubismo – che non sopporto, francamente. No, queste figure ti insegnano un'altra cosa: la libertà di essere sé stessi.

Libertà significa accettare ciò che si è, i propri errori. E capire che sono quelli a fare il tuo stile. Per questo in Morti di sonno ho disegnato cercando di raggiungere l’immediatezza degli schizzi. Come quelli che faccio al telefono, quando stacco la mente.

Ho cercato di limitare il controllo accademico sul disegno e le tentazioni del disegnatore perfettino, preciso e scrupoloso che vorrei essere.

Inoltre avevo fretta di finirlo. Pensavo di non riuscire a vederlo finito! La velocità ha fatto sì che entrassero nel libro goffaggini, imperfezioni e naivité. Mi consolo dicendomi che forse è passata più vita.
Truffaut (un regista che amo molto) dice una cosa del genere: 'I film respirano attraverso le proprie imperfezioni'. A questo punto mi guardo bene dal contraddirlo.



[Questa libertà spiega anche il grande successo che ha avuto l'opera all’estero. Nessuna sindrome da secondo lavoro?]

Dimenticare Tiananmen, che ho scritto subito dopo l'uscita del primo romanzo, mi è stato utile per distaccarmi più velocemente dal feticcio Morti di Sonno. Un’eredità difficile da scollarsi di dosso. Il rischio è di ripercorrere sempre lo stesso filone. Ho scongiurato il pericolo scegliendo di raccontare la strage dell'Ottantanove, che era il vero focus di Dimenticare Tiananmen.

Col nuovo romanzo a cui sto lavorando torno a raccontare una storia più vicina a me. Credo che il nodo sarà la ribellione alla transitorietà dell’esistenza. Avere la coscienza che ogni attimo che passa è unico... Se non lo sapessi, starei meglio. È come vivere un lutto continuo, non so se mi spiego, da elaborare ogni minuto.

[Certo, rispondo, capisco eccome. Ma esistono anche soluzioni a questa caducità. Cito Derrida: vivere significa lasciare tracce.]

Sì, è vero, è così. Il centro è qui.

domenica 3 luglio 2011

Il Sentiero degli Dei. Parte prima.

Dedico questa serie di interventi a Lorenzo,
Giulia, Ivan, Marta, Velter e Gigi,
amici e compagni di viaggio.



“E accade talvolta che in certi momenti critici, nei quali la tendenza discendente sembra esser sul punto di predominare definitivamente nel moto generale del mondo, interviene un’azione speciale per rinforzare la tendenza contraria.”

- René Guénon


Il Santuario della Madonna di San Luca è enorme.

Emerso dalla luce e dalla terra, si staglia rosso e immobile, come i tramonti visti dall’Appennino quando il cielo si sporca di oscurità e le cose sparse intorno assumono i contorni di una visione.


Il colle della Guardia, con i suoi 300 metri d’altezza, vigila severo sulle prime alture che vanno a gonfiarsi come onde di un mare fossile, via via sempre più verticali fino alla vibrazione remota dei picchi blu sullo sfondo. È l’ultimo baluardo della cristianità prima del tuffo nel paganesimo del bosco, con i suoi incroci, le sue edicole scavate nel tronco

degli alberi, i corsi d’acqua che riecheggiano memorie mai sopite di antichi culti animisti.




L’icona della Madonna col Bambino è il fulcro devozionale del Santuario, nonché ideale collegamento tra Bologna e l’Asia minore, per la caratterizzazione iconografica tipicamente orientale delle figure. La Madonna è di tipo Odighìtria, indica cioè la via (o la Via?) ed è pertanto considerata come una sorta di patrona dai viaggiatori che decidono di raccomandarle l’anima prima di avventurarsi lungo i sentieri della foresta e dello spirito.



La dimensione svelata dal primo abbandono urbano si sdraia placida sotto il passo lento, centimetro dopo centimetro, e si accompagna alla riscoperta qualitativa della realtà del viaggio, dove la fatica assume una valenza iniziatica

ed ogni singolo grammo di percorso slaccia i legami con la sospensione idealizzata del concetto di “cammino”, tramutandosi in gravità, trasformando i camminatori in pellegrini, la strada in conquista.


Un edificio coperto dalla vegetazione. La strada bianca che s’incunea nel caldo torrido della mattina, con i passi che sollevano nuvole senza pioggia mentre a pochi passi il fiume Reno, invisibile, disegna nei pensieri un miraggio d’acqua che fa crescere la sete, estrarre le borracce e riprendere il sentiero.



Raccontare diventa molto più complicato, la scelta del punto di vista adottabile un problema che dà le vertigini. “Individuo” e “collettività”, “scelta” e “non-scelta” divengono i poli, concettuali eppure estremamente concreti, di una ragione che trova le sue radici nell’idea di un’epica legata ad un’impresa comune, in cui il destino collettivo compenetri e condizioni quello del singolo, in uno scambio reciproco e continuo che solleva da ogni tentativo de-responsabilizzante.




Il primo, frugale pranzo sul Lungoreno ha il sapore di un bivacco fuorilegge, distanti come siamo da ogni indizio di civiltà, immersi in un paesaggio western popolato da fruscii, dai tonfi metallici degli zaini carichi di scatolette, dalla fanfara di fiume che disperde le nostre tracce nella luce accecante dei riverberi.

Viene in mente l’antica leggenda del demone meridiano, lo spirito dell’accidia che coglierebbe i viandanti esposti al sole rovente del mezzogiorno per tramutarli in foschi fantocci prima di farli impazzire del tutto.

Per quanto ne sappiamo, potrebbe essere davvero là fuori, sulla strada bianca circondata dagli arbusti, solo come un randagio, alla ricerca di pellegrini rosolati da una primavera già così crudele.




La Via veramente Via non è una via costante.”


L’oscurità oracolare del Tao te ching ben si sposa all’enigma del passo, alla metafisica del viaggio, così diversa dall’immobilismo dechirichiano dei trenini sbuffanti sullo sfondo di montagne misteriose e invitanti. La sua stessa incostanza determina invece uno spostamento del baricentro non solo nel camminatore ma, e soprattutto, nel luogo attraversato, nella sua storia e nella sua gente, tanto che un attento viandante potrebbe persino giurare di udirne il respiro, ora affannoso, ora più quieto e disteso, mai uguale.


Sasso Marconi è un comune arroccato a 130 metri circa sul livello del mare, un’estrema propaggine di urbanità che ancora resiste, circondata dal cuore di tenebra dei boschi, e costituisce una porta dischiusa sul lato selvaggio del percorso, sulle salite più audaci, sulla dimensione occulta e insondabile dell’esperienza.


I prati di Mugnano si accendono di luce smeraldina man mano che il cielo imbrunisce, come fosse preda di una feroce combustione. Il campo è stato preparato per la notte e le aperture delle tre tende convergono verso un centro ideale, mentre gli zaini si afflosciano sull’erba, parzialmente svuotati del loro contenuto.

A qualche centinaio di metri dall’accampamento, in cima ad un’altura, una trattoria accende i primi lumi e ci invita alla salita.

Così, liberati dal peso degli zaini, ci avviamo in silenzio, come in processione, verso il tempio acceso sull’acropoli.


Intervista a Davide Reviati. Parte seconda.


[Qui l'intervista completa a Davide Reviati]

[Cerco di definire il romanzo, ma Davide mi anticipa a scanso di ogni equivoco.]

Morti di sonno non è la mia autobiografia. Non volevo parlare di me. Volevo parlare di altri attraverso di me, attraverso il mio sguardo. Posso citarti la risposta che dava Svevo quando i critici gli chiedevano chiarimenti sul presunto autobiografismo de La Coscienza di Zeno: Certo, è un autobiografia: ma non la mia.

Ho tentato di fare proprio questo. Il mio romanzo è certamente anche una biografia, poiché non potevo prescindere dalla mia esperienza, ma non volevo raccontare la mia vita. L'ho fatto più per una necessità narrativa che per scelta; come succede ad esempio verso la fine del romanzo, quando è necessario che entri in scena la voce narrante come personaggio vero e proprio.

Vedi, uno sguardo prosaico sulla realtà può essere pericoloso, così come la quotidianità stessa, in un certo senso, è molto pericolosa: tutto diventa normale, spiegabile, banale. In una parola: quotidiano. Siamo abituati, a guardare il mondo attraverso la quotidianità degli eventi. Ma credo che sia importante recuperare un altro tipo di sguardo, alimentato anche dalla memoria. Morti di sonno è proprio questo: il tentativo di recuperare uno sguardo mitico nel contemporaneo, nel prosaico, nel contingente. Uno sguardo poetico, in ultima analisi. É questa l'ambizione più grande.

[Penso a Mnemosyne: la musa dell'epica antica era proprio la memoria. La narrazione partiva dal ricordo e dal ricordo veniva arricchita.]

Scrivere questa storia è stato per me un modo di reagire allo sguardo vuoto e intimamente violento, anche se ammantato di buon senso. Credo sia questo modo di guardare le cose che ci sta trasformando tutti in morti di sonno. Consumatori intontiti dalle immagini e dalle chiacchiere, sempre preoccupati di guardare da un’altra parte. A pensarci il motore di questa reazione è stata la rabbia.

Prima di tutto rabbia verso me stesso, la mia inedia, la mia apatia, la mia viltà. E poi rabbia per gli altri sopravvissuti, che come me, sono costretti a convivere con la colpa di essere ancora qui. Rabbia verso il luogo, anche, che ci ha resi quelli che siamo, e i suoi padri da cui lo abbiamo ereditato. A volte questa rabbia ti schiaccia, ti chiude la gola anche se vorresti urlare. Ma urlare per dire cosa, poi? E ti accorgi che non hai le parole giuste e non sai più quali siano, le parole giuste. Forse è a questo punto che si comincia a scrivere e a raccontare.

[Ma se è vero che questo sguardo mitico è così importante per non farsi invadere dall'apatia tipica del mondo adulto, com'è possibile perderlo senza accorgersene? Davide mi guarda dall'alto dei suoi anni.]

É molto facile: basta lasciarsi andare agli istinti umani. Che non hanno necessariamente una ragione negativa, anzi a volte possiamo chiamarlo istinto di sopravvivenza. Un bisogno di appiattire tutto per ridurlo a una misura accessibile anche se priva di senso, e quando le cose perdono di senso anche le domande perdono senso e non resta più nulla ad assillarti. Basta sopravvivere ed aspettare.

[La memoria è ambivalente: non possiamo fare a meno di utilizzarla per raccontare le nostre storie, ma allo stesso tempo rischiamo di venirne schiacciati.]

È vero, l'uso della memoria comporta sempre una certa dose di rischio. Io ho scelto dalla memoria le scene che meglio rappresentavano un'atmosfera, il senso del vivere in quel luogo e cosi via. È stato un criterio simbolico e funzionale.

Non una sorta di principio d'economia, capiamoci bene: qui non si tratta di dire tutto col minore sforzo possibile. Al contrario: alcuni di quei frammenti rubati alla memoria mi hanno fatto faticare. Un esempio di questo criterio potrebbe essere la scena dei granchi imprigionati nel sacco: quando riescono ad uscire il loro istinto li porta verso l'acqua. Ma l'unica acqua che trovano nel Villaggio è quella del tombino. 

Morti di sonno, pag. 309
 

Sono particolarmente attento alle espressioni dei personaggi, alla loro gestualità, alla loro recitazione. Allo stesso tempo ho in testa un'idea di aderenza alla realtà molto alta. La caricatura, il disegno esplicitante per eccellenza, si distacca dalla realtà, ne è l'esatto opposto: appunto la carica. Non volevo cadere in questa scappatoia e ho cercato di alleggerire. In modo da restituire il più possibile atmosfere e suggestioni vive e non fantastiche. Per questo è stato difficile disegnare i volti.

E poi c’è il rischio di rimanere imprigionati in una sorta di obbligo di fedeltà alla memoria, che ti porta ad avere un approccio cronachistico nella narrazione. In verità, si tratta di tradire la memoria. Perciò ripeto spesso quando parlo di Morti di sonno: ho mentito. Molte cose non sono andate come ho raccontato. Toccava tradire la memoria per restituirne la verità. Un ben noto un paradosso della narrazione.

Mi immaginavo bambino a leggere il libro coi diretti interessati e fantasticavo riguardo le loro reazioni, facendo un traslato assurdo: ci saremmo accapigliati? Avrebbero sorriso? Chi lo sa. Ma a questo mi piaceva pensare, e non ad altro.

venerdì 1 luglio 2011

Intervista a Davide Reviati. Parte prima.


[Qui l'intervista completa a Davide Reviati]

[Al Barnum non c'è tanta gente. Meglio per noi.
Il silenzio è percorso da un sommesso accenno di jazz che viene dall'interno.
Lo spunto dell'intervista è presto detto: il mio incontro, come al solito in ritardo, con Morti di sonno, romanzo grafico pubblicato da Davide Reviati – fumettista di Ravenna – nel 2009 per la Coconino Press. Avevo un disegnatore di successo sotto casa e non l'avevo mai letto né incontrato. Per rimediare, prendiamo da bere e cominciamo a parlare.]

Io ho sempre disegnato, da quando mi ricordo non ho mai smesso di farlo. Ce l'ho nel sangue: è una cosa che ti diverte, perciò la fai. Ti posso anche raccontare un aneddoto divertente, se vuoi.

Quando studiavo all'I.T.I.S, sezione elettrotecnica, riempivo di caricature dei professori i banchi, le colonne, tutto. Agli esami di maturità – non andavo proprio benissimo, come puoi immaginare – riuscii ad essere ammesso per il rotto della cuffia. Prima della prova orale, conoscendo la mia passione per il disegno, mi avevano chiesto di fare le caricature a tutti i professori della commissione. Tra di loro, come commissario interno, c'era anche il nostro professore d'impianti, uno dei più bersagliati dalle mie caricature. Non avevamo un bel rapporto. All'esame andai bene in italiano, ma fui disastroso nella parte tecnica. Usci con un 36 e due figure, una miseria.

Un po' di anni più tardi, per puro caso, mi capitò di incontrare il commissario esterno, un napoletano, a una fiera di vini a Bologna. Mi presentai, sicuro che si fosse già dimenticato da un pezzo della mia faccia. Ed invece mi riconobbe subito: - Lei è Reviati! Mi ricordo di lei! - Ero esterrefatto. Come poteva ricordarsi di un alunno non suo dopo tanto tempo?

Mi raccontò che i pareri su di me in commissione erano alla pari: metà voleva bocciarmi, e l'altra metà promuovermi. - Lei, grazie alle sue caricature, suscitò simpatia nella professoressa di chimica che decise di votare per la sua promozione. -

Ho continuato a disegnare invece di dedicarmi all'elettrotecnica. Dopo un segnale “divino” del genere, che altro potevo fare? E poi, a dire il vero, disegnare non è un lavoro così strano. Tutti i bambini disegnano. È come un istinto naturale. C'è un età però in cui si smette. Ma lo si fa soltanto per un retaggio culturale. Non so cosa sia: l'influenza familiare o quella sociale. Eppure vieni visto come ritardato se continui a fare 'i disegnini'. Perché?

Credo ci sia bisogno di abbandonare i preconcetti che si hanno nei confronti del fumetto. C'è sempre un po' di ritrosia, almeno qui in Italia, nel considerarlo una forma espressiva alla pari delle altre. Certo, c'è una bella differenza tra letteratura e fumetto. Si tratta di un altro linguaggio, del tutto diverso. Se volessimo semplificare, potremmo definirlo un tipo di letteratura che parla attraverso le immagini.

Per questo il cinema è un punto di riferimento importante. Spesso non ce ne rendiamo conto, ma certe scelte nel montaggio o certi stereotipi riguardo la fotografia e le riprese, sono entrati nel nostro immaginario. Sono elementi per nulla scontati, ma che tuttavia comprendiamo al volo, perché ormai sono codificati.

Così la nostra sensibilità, il ritmo narrativo, il montaggio stesso delle storie; tutto questo è stato influenzato a fondo dalle tecniche cinematografiche, al punto che esse riemergono spontaneamente in contesti a prima vista lontani come quello del fumetto.

Ma la mia fonte di ispirazione più vicina, escludendo il teatro, che pure è un riferimento sempre presente, è la letteratura. Al fumetto manca il movimento. Manca il sonoro. Questo lo distanzia dalla comunicatività del cinema. In confronto alla letteratura, invece, gli manca la possibilità evocativa della parola. La letteratura va in profondità: col solo uso delle parole può alludere, lasciare intendere. Il fumetto mostra le immagini.

A prima vista la difficoltà di armonizzare immagini e parole può sembrare uno scoglio, ma non è così. Come dice Anna Maria Ortese: 'La verità di un'opera sta tutta nella scrittura.' Niente di più vero. É lo stile letterario che spesso influenza gli argomenti di un romanzo. Il fumetto può aggirare l'ostacolo, poiché gioca su due elementi diversi.

È questa la sua enorme potenzialità, in ciò consiste la sua incredibile efficacia comunicativa: l'accostamento di immagine e parola. Questi due elementi possono danzare assieme, ed esistono tanti tipi diversi di ballo: twist, tango, tip-tap. Tutto sta nel saper variare queste danze nel modo giusto. È allora che diventa interessante: quando riesci a cambiare le ritmiche.

Spesso, mentre disegno e scrivo, è come se sentissi una musicalità, come se ascoltassi del jazz: autori quali Bill Evans o Chet Baker hanno influenzato il mio modo di disegnare. Mi piace lasciare andare la matita, come se seguisse la musica che in quel momento non viene dalla testa, ma fluisce liberamente dalle mani stesse. E non solo jazzisti: oltre al ritmo del disegno, c'è il ritmo della parola. E in questo mi hanno aiutato i cantautori che ascolto più spesso, italiani e non. Sergio Endrigo ad esempio ha costituito una colonna sonora imprescindibile per Morti di sonno, così come tutti i grandi chansonniers francesi: da Gainsbourg a Brel, su tutti.

Certo, lasciarsi andare al flusso – ma tenendo sempre ben strette le redini del narcisismo. Credo che lo stile letterario del fumetto debba restare semplice: evitare barocchismi e prolissità retoriche, per quanto affascinanti possano sembrare. Lo ripeto, immagine e parola devono andare d'accordo, oppure fare anche a cazzotti, magari generando scarti che il lettore è stimolato a colmare. Ma nessuna delle due deve fagocitare l’altra e rubargli la scena, è un equilibrio delicato e fragile.

Confesso che mi sento prima di tutto un disegnatore, uno schiavo retinico. Magari un disegnatore che ama giocare con le parole e ossessionato dalle storie. Per fare un esempio potrei citarti il calcio. Adoro il calcio. Le posture, i movimenti; mi diverte designarli. Li ho nella retina. Chi ha giocato sa cosa voglio dire. La posizione di chi si appresta a calciare la palla, la mischia, i movimenti.

Una volta disegnavo spesso in piedi, al telefono, nel corridoio. Almeno lo facevo prima di passare al cordless. Avevo un blocchetto e, mentre parlavo, disegnavo. Ne ho raccolta una quantità folle di questi schizzi, di questi disegni fatti senza pensare. Se vai a vedere, c'è una miriade di calciatori.

Morti di sonno, pag. 87


Non saprei dirti come si ritma concretamente un fumetto. Per me è un fatto istintivo, come chi non sa nulla di musica eppure riesce a suonare ad orecchio. È una cosa che ti viene naturale. Credo che i lettori intuiscano o sappiano riconoscere lavori ritmati male. Ripetizioni, didascalismo, ridondanza, vacuità. Tutte cose che nessun buon lettore può sopportare.

Prendiamo ad esempio il fumetto tipo a cui siamo abituati: il fumetto popolare. Per intenderci i fumetti Bonelli, come Tex e Dylan Dog; oppure, ancora più conosciuti, fumetti come Topolino. Da ragazzo ne ho letti moltissimi, e ho imparato molto da quelle letture. Ma oggi non sopporto certe loro aritmie.

In Tex, ad esempio, spesso succedeva che l'immagine seguisse pedissequamente ciò che veniva detto nella didascalia. Pagine e pagine di immagini che fungevano semplicemente da spiegazione ad una narrazione già conclusa in se stessa.

[Inferisco che il fumetto debba in un qualche modo affrancarsi dalle sue origini popolari per puntare a un prodotto artistico più complesso e profondo. Sbaglio?]

Non la metterei così. È giusto che ci siano più generi. Comico, avventura, noir, gialli, fantasy, western. C'è del buono in ognuno di questi. Ci sono disegnatori eccezionali nel fumetto più commerciale e pure grandi storie, non fraintendere. Se c'è davvero qualcosa da cui il fumetto si deve affrancare è uno stereotipo tutto italiano. Fino a non molto tempo fa, per esempio, in Italia era molto difficile parlare di graphic novel. Oggi, pian piano, sta entrando nell'immaginario collettivo.

Il cambio del nome non è banale. Sposta il concetto: non è fumetto, è graphic novel. 'Romanzo grafico'. Le graphic novel possono trattare temi che erano appannaggio esclusivo della letteratura e del cinema: storie vere, quotidiane, con personaggi a tutto tondo, narrazioni solide, temi difficili, socio – politici e spesso di denuncia.

Sono uscite delle recensioni di Morti di sonno su Le Monde e L’Express; ne hanno parlato in televisione a Canal Plus, all'interno della sezione cultura; a La Une; su Arté France. Programmi curati, di durata spesso maggiore dei generici cinque minuti culturali standard. Difficile immaginare oggi servizi così in Italia, che non parlino solo di fumetto commerciale.

[Già. In Francia Morti di sonno viene recensito sul quotidiano più importante della nazione e in Italia, nella città dell'autore, si fatica a trovarne una copia in bella vista nelle librerie del centro. Ma parliamone di questo romanzo.]