martedì 18 gennaio 2011

Rocco Ronchi: il pensiero che cammina

[Libera interpretazione delle riflessioni di una camminata filosofica, colpevolmente in ritardo e sicuramente manchevole.]


Sull'Appennino imolese, nei pressi di Casalfiumanese, le colline sembrano fatte di una sostanza diversa, più morbida, meno terrena.

Da lontano gli altipiani si presentano allo sguardo lisci, tesi, puri. Il colore bianco della terra è dovuto alla buona percentuale di gesso – la vena compare alla vista solo poche vallate più a est. I calanchi scavano lunghi solchi, creando contrasti di luce curiosi: tutto è silenzioso, come raccolto in se stesso.

Si cammina per sentieri impervi, a strapiombo sulla vallata. La vista è superba: nelle giornate chiare si può vedere fino al mare. Come tutti i sentieri di collina, dopo qualche minuto di camminata (invero molti pochi se si è inesperti, come il sottoscritto) perdi l'orientamento: se hai una guida ti lasci condurre, godendoti il panorama e il profumo dei nespoli; solo, devi metterti a pensare, ricordare il percorso, tenere a mente la via. 

Camminare e pensare: dittico che ha avuto una grande fortuna, sembra. Soprattutto nel pensiero speculativo. C'era chi faceva lezione camminando. C'era chi diceva che mettendo in moto le gambe, si metteva in moto il pensiero. C'era perfino chi non era capace di pensare se costretto all'immobilità, davanti alla scrivania. C'era anche chi scriveva trattati pedagogici camminando tra i boschi. C'era infine chi ha abitato nei boschi.

La mente va allenata, come il fisico; fare esercizio mentale significa muoversi, andare verso l'oggetto – Gegenstand – che ci sta davanti, capirlo, superarlo. “Solo se in cammino il pensiero ha un senso, un scopo” sembrano dirci i pensatori di cui sopra. E può essere anche il puro e semplice vagare, non importa: l'immobilità è morte del pensiero. Errare è umano, in entrambi i sensi etimologici del verbo.

Cammino, questo, che non è sempre facile né tantomeno già tracciato. Aprire nuovi sentieri mentali e scontrarsi col Problema (πρόβλημα, sporgenza, quasi come quella del sasso, che spunta invisibile dalla terra e ci fa cadere): questa è l'attività della filosofia.

La sua è la strada a tentoni, con le mani in avanti, come quando si cammina al buio.

Quanto di più lontano si possa immaginare dalla strada lastricata e illuminata della fede. Il credente è già indirizzato. Vede il Problema e lo riconduce a un principio, lo accetta, lo supera.

Il filosofo, l'uomo del dubbio, è solo, senza guida: inciampa, procede con fatica (“la strada del dubbio e della disperazione”; così descriveva Hegel la sua Fenomenologia). Il Problema lo deve sciogliere con le sue stesse forze, ed ogni tentativo è un tentativo nuovo.

Ogni sentiero è un sentiero vergine, perciò stesso incerto.

Forse già sappiamo che il Problema non sarà risolto una volta per sempre: può essere ipocritamente eluso, dimenticato e resterà lontano, certamente scomparirà per un qualche tempo: ma si ripresenterà ogni volta tra le pieghe delle realtà, nell'orrore del quotidiano.

Allora perché intraprendere un cammino così faticoso, equidistante e dalla certezza religiosa e dalla pretesa immodesta di verità di qualche scienza? Perché iniziare un cammino che quasi certamente non sarà sicuro, di cui non conosciamo lo sbocco?

Perché il sentiero che avremo aperto sarà un sentiero nostro, autonomo, indipendente. E se non ci porterà da nessuna parte, o ci riporterà al punto di partenza, ancora e ancora, almeno avremo una vera certezza (misera e grandiosa cosa al cospetto delle migliaia di false certezze degli altri): di aver fatto coincidere la nostra vita con le nostre azioni.

domenica 16 gennaio 2011

La piazza intelligente, ovvero The Clever Square

[Dedico più che volentieri un pensierino alla band più promettente della nostra cittadina.]


Corre l’anno 2006: nascono i The Clever Square, bizzarro progetto musicale segnato dalla vena melodica di Giacomo D'Attorre e dal più genuino fancazzismo di Stefano Vespa. Tra i due si crea subito una perfetta intesa, e le loro note suonano ancora nuove per la sonnacchiosa provincia di Ravenna. 

La filosofia del "basso profilo", le melodie semplici e dirette, gli arrangiamenti efficaci, l'artigianalità musicale continuano ad essere troppo spesso confusi col dilettantismo; basti all’ascoltatore prestare orecchio a illustri colleghi e ispiratori quali Neutral Milk Hotel, Pavement, Guided By Voices o Eels, e cercarne le tracce profonde nei pezzi della band.

venerdì 14 gennaio 2011

Metodo e crisi

Esistono dei momenti particolari nella storia, delle epoche in cui la percezione del mondo cambia. È proprio in questi periodi che si affaccia la necessità della fondazione di nuovi metodi.

La crisi sopraggiunge a seguito di scoperte scientifiche rivoluzionarie, di avvenimenti storici dalla portata epocale, a seguito di invenzioni che cambiano il corso degli eventi. Può essere l'influenza di una personalità formidabile, capace di smuovere forze e pensieri umani, o dal lavoro di un individuo isolato: non importa.

La crisi innesca una messa in discussione generale delle conoscenze stabilite e crea l'urgenza di una ristrutturazione del sapere, di battere nuove nuove vie per giungere alla verità.

(Diamo per scontato che sia il fatto a influenzare il metodo, ma questo non è sempre ovvio: il mutamento, più verosimilmente, procede in parallelo. Il fatto crea cambiamento nel metodo e il metodo, a sua volta, cerca fondamento sul fatto.)

La via per arrivare alla “semplice e rotonda verità”: questo è il metodo.

Meta, oltre, dopo; hodòs, cammino, strada. Strada che cerca di giungere, attraverso fatiche e dubbi e prostrazioni, alla certezza non più discutibile.

La metafora della via è particolarmente utile per trasmettere il senso di movimento e fatica; sembra descrivere il pellegrinaggio del credente in cerca della fede perfetta.

Filosofi, scienziati, pensatori in generale, proprio in questi momenti di cambiamento radicale, di rovesciamento di paradigma, hanno sollevato la questione del metodo come strumento per fondare le nuove conoscenze o, a seconda dei casi, per metterle in crisi.

Il metodo è la questione iniziale per eccellenza: ogni filosofia o sistema di pensiero inizia con un metodo. È un bisogno preliminare tipico della razionalità umana: prima di mettersi in cammino, bisogna riflettere sul cammino stesso, sul tipo di percorso, sui limiti della via.

Occorre decidere la modalità precipua di conoscenza: in un primo momento facendo piazza pulita delle vecchie costruzioni, che ormai non si adattano più, e disorientano dal fine. Poi decidendo cosa è lecito sperare di trovare e cosa invece tagliare fuori dalle possibilità di certezza.

Una breve panoramica in ambito filosofico - scientifico può aiutare a capire di cosa stiamo parlando.

Galileo intuì le potenzialità di un nuovo strumento ottico inventato in Olanda. Invece di usarlo per battere sul tempo i nemici, lo puntò verso la volta celeste. Trascorse un inverno al freddo, osservando, annotando le sue “sensate esperienze” diligentemente. Fu la nascita del Sidereus Nuncius.

Dai semplici fatti contenuti in quel libro, e nulla di più, la visione aristotelica del mondo era messa in discussione. Sorgeva il problema di rifondare la conoscenza umana. Di rendere conto, razionalmente, di quello che l'aristotelismo non immaginava neppure.

L'origine del metodo scientifico galileiano: radicare la conoscenza dall'osservazione diretta e matematizzare i dati forniti dai sensi. Infine dedurne principi generali per ampliare la conoscenza umana.

E se c'è qualcosa che stride con la Sacra Scrittura, allora è colpa dell'interpretazione umana del Verbo divino, non del fisico che legge l'altro grande libro di dio, la Natura, scritto nei caratteri dei quali lui solo è il vero esegeta: caratteri matematici.

Diversamente stanno le cose con Bacone. Anch'egli avverte il bisogno di costituire un “nuovo organo” logico, che rimpiazzasse le vecchie e desuete argomentazioni scolastiche, buone solo per le dispute teologiche: “idola theatri”, preconcetti filosofici di cui è essenziale disfarsi per amore della verità.

Ecco che subentra l'esperienza diretta dei fatti, proveniente dalla non più inutili arti meccaniche, la fedele annotazione di essi su tavole della verità, e infine l'induzione di principi primi, che rispecchiano la cosa stessa. La fiducia nell'induzione sperimentale era assoluta.

L'elevazione definitiva della matematica a forma paradigmatica di conoscenza, modello per tutte le altre discipline, si ha con Descartes. La matematica diventa addirittura uno strumento innato nell'uomo, proveniente nientemeno che da dio stesso. É la sua origine metafisica ad assicurarne la validità.

Nel Discours vengono isolati quattro principi fondamentali per dirigere la nostra mente verso la verità incontrovertibile.

É il metodo cartesiano: individuare idee chiare e distinte, analizzarle (ovvero scomporle in più semplici e maneggevoli idee secondarie), sintetizzarle (ricomporle una volta scelte le idee vere) ed enumerarle per essere sicuri di non avere dimenticato qualcosa.

Era l'inizio delle due grandi correnti filosofiche della modernità: il razionalismo continentale e l'empirismo anglosassone.

Ma il tempo passa e non lascia mai le stesse carte sul tavolo. Il razionalismo dovette lasciare il posto al sistema newtoniano che sì, ammetteva ancora un dio regolatore, ma non ne faceva l'asse portante del suo metodo. Troppo pericoloso lasciare il cammino della verità nelle mani di un padrone invisibile: sarebbe un ritorno alla scolastica.

L'empirismo invece finì coll'implodere su sé stesso: è vero, noi sentiamo cose, avvertiamo oggetti esterni, ed ogni nostra conoscenza viene dall'esterno. Ma dove finisce la scienza e dove inizia l'interpretazione? Se tutto quello che esperiamo è contingente, allora lo sarà anche la nostra scienza.

La crisi fu seria: ancora oggi ne subiamo le dirette conseguenze. Einstein dovette fare a meno delle prove sensibili e, paradossalmente, si ritornò alla pura speculazione filosofica. Planck, d'altra parte, non riuscì a sfuggire alla sua probabilità, e sembrò quasi che dio giocassi ai dadi col mondo.

La filosofia della scienza contemporanea, poggia sul principio di falsificazionismo. Abbiamo rinunciato alla meta: non possiamo che ribaltare il concetto e reputare al massimo probabile una teoria che può essere falsificata.

Oggi è la possibilità della confutazione che fonda scientificamente la teoria.

Abbiamo posto dei limiti al nostro percorso, ritagliandoci un minuscolo itinerario lungo il quale possiamo essere relativamente (!) tranquilli e fuori pericolo, lontano dallo scetticismo più estremo.

Ma un metodo che si autolimita, che rinnega la sua meta, che non ha più direzione, e rischia di farsi fine laddove dovrebbe restare solo il mezzo, può ancora portare tale nome? Non è questa una crisi dalla quale, forse, potrebbe nascere un nuovo metodo?