martedì 29 giugno 2010

Peter Stein. Una giornata di demòni.

Dodici ore.
La rappresentazione dei Demoni di Peter Stein dura esattamente un giorno: dodici ore di recitazione intensa, trama complicata e impronunciabili nomi russi.

Una maratona teatrale per ridurre in parole, fiato ed aria le settecento pagine del capolavoro di Dostoevskij.

Nonostante le non rosee previsioni, lo spettacolo è andato bene: il pubblico ha apprezzato ed è riuscito a resistere per tutto il tempo seduto sugli scomodi sedili del palazzetto dello sport, largamente aiutato dalle pause pranzo e dai frequenti caffè – addirittura, alla fine dello spettacolo, sembrava sinceramente commosso, prova gli interminabili minuti di applausi e una standing ovation liberatoria.

Un po’ la moda, un po’ l’evento, un po’ la stima per la fatica disumana che deve essere costata agli attori per memorizzare le migliaia di battute dell’opera, un po’ il genio di Dostoevskij, un po’ il mangiare praticamente gratis, – sono tutte possibili risposte, ma non sono sufficienti per spiegare l’afflusso e il successo del lavoro di Stein.

Dodici ore di disquisizioni altissime sull’esistenza o l’inesistenza di Dio, sulla legittimità o l’illegittimità del suicidio; dodici ore di straordinari monologhi sui più profondi baratri dell’esperienza umana e sui “demoni” che infettano il nichilismo e lo trascinano ad un pensiero folle e autodistruttivo; dodici ore di ricostruzione magistrale sulle ragioni filosofico - politiche della crisi russa di fine Ottocento, e di amara (poiché profetica) satira sulle società socialiste pseudo - rivoluzionarie della Russia provinciale; dodici ore della più pura tragedia, di drammi sociali e individuali, di demoni appunto: tutti ingredienti da far rizzare i capelli alla maggioranza, e assolutamente incapaci di competere col piacere sublime di una giornata al mare. Figuriamoci poi se lo strazio dura un intero giorno di sole.

Ho sentito il bisogno di pensare ad altre cause, di indagare un po’ più a fondo le ragioni del successo dello spettacolo del 26 giugno e dell’entusiasmo del pubblico.

Come spesso mi accade, le ho trovate nella tradizione antica che continua a scorrere nel nostro sangue, e che siamo incapaci di abbandonare.

Ragioni che affondano le radici nelle giornate teatrali greche, quando durante le gare drammatiche si passavano giorni interi a teatro a vedere passare sulla scena centinaia di personaggi e d’intrecci tragici, impegno che doveva migliorare il pubblico poiché lo purificava (catarsi).

Questo caso è simile: la differenza fondamentale sta proprio nella durata.

Uno spettacolo di due o tre ore occupa una parte minima, ancorché culturalmente importantissima, della nostra vita. Abbiamo l’opportunità di decidere del nostro tempo libero, e possiamo impiegare quelle sacre orette alla nostra crescita spirituale.

Che bello andare a teatro! che bello il nostro abbonamento! che bello lasciarci vedere dagli altri nel foyer, e dire agli amici, con quell’aria così linda e giusta, “stasera non ci sono: vado a teatro!”

Finite le due o tre ore, si torna a casa, si cerca di ricordare qualche battuta importante o divertente e si fila a letto soddisfatti. Fine della crescita spirituale.

Scegliere di sacrificare un giorno intero ad uno spettacolo, cosicché, per una volta almeno, è lo spettacolo a farsi vita e non viceversa, cambia di colpo le carte in tavola.

La partecipazione è realmente attiva, sia per lo spettatore sia per l’attore: non si può fare a meno di seguire, pena la perdita completa di un giorno intero; e, per ovvi motivi artistici, non ci si può non appassionare del personaggio recitato.

L’intimità tra attore e pubblico cresce ogni minuto fino a toccare vette impensabili (e insperabili) in uno spettacolo “normale”: si condivide la fatica da entrambe le parti, s’impara a riconoscere i tratti salienti di ogni personaggio, il suo timbro vocale, i suoi tic, la sua gestualità, e con essi la cura che l’attore ha speso per creare il suo alter-ego.

Si forma lentamente tra gli spettatori quella sorta di spirito goliardico che si vive durante le gite, o durante i lunghi viaggi, che eccita gli animi e stimola l’attenzione e la personificazione del “pubblico-uno” con gli uomini sulla scena.

S’impara a conoscere il proprio vicino che ride o sobbalza così come s’impara a conoscere il personaggio che recita.

Una maggiore consapevolezza ed impegno da parte del pubblico, causata semplicemente dalla maggiore durata dello spettacolo: questa la ragione principale del grande successo di Stein.

La famosa quarta parete, quella distanza metafisica che separa attore e pubblico, spettacolo e vita, viene finalmente abbattuta dal teatro di Stein.

Non si tratta di trovate sceniche pirandelliane; si tratta invece di una ben più radicale condivisione dimensionale, ovvero il tempo.

Dal punto di vista meramente fisico è il tempo che viene condiviso da attore e spettatore; non è il tempo condensato del “teatro normale”, dove in tre ore “reali” sono compressi anni “teatrali” (mi viene in mente Brecht): qui il tempo del pubblico coincide col tempo della scena.

Basta questo per coinvolgere il pubblico in maniera originale e totale.

Ne sono testimonianza i sobbalzi quasi unanimi durante il duello tra Starovgin e Gaganov, reso magistralmente dal regista tedesco; le risate collettive suscitate dalla cultura provinciale e parolaia di Stepàn Trofimoviĉ; le smorfie di orrore dipinti su tutti i visi, grinzosi o meno, alle argomentazioni malate di Kirillov.

Stein è riuscito a far rivivere un’opera d’arte: l’ha liberata dalle prigioni di carta, come scrive Bernhard, e l’ha consegnata al pubblico nel suo contesto, essenziale per comprenderla. Come ha confessato lui stesso, che non è nuovo di queste maratone, non importa quanto si impiega a mettere in scena un libro come I demoni, bisogna dargli il tempo che richiede.

Solo così l’opera, ormai lontana dal nostro tempo, acquista un nuovo senso, e sembra parlare direttamente al pubblico del terrorismo dei nostri giorni, di quel demonio autodistruttivo che sentiamo aleggiare nell’aria prima della crisi, del nichilismo giovanile, di quel male che sembra assoluto, ma che in realtà non lo è mai ed ha la sua ragion d’essere nelle scelte e nella storia dell’individuo.

Solo così il teatro riacquista la sua vera funzione storica, troppo spesso dimenticata nei foyer e nelle seggiole di velluto: far arrivare il messaggio al pubblico più ampio possibile; educare, purificare, democratizzare.

lunedì 21 giugno 2010

Variazione su Eròtion, o Una figlia

Piccola, germoglio smeraldo
Fra i suoni dei mondi distanti,
Onda del mio cuore, madre
Di ogni sogno volante sui sogni:
Cattura le briciole della vita
Poiché il mondo terrestre
Discende da zolle informi
Cosparse di fango, volgare tramonto.

La trama della tua piccola favola
Si nutre dai miei palmi dischiusi.
Sei già il tutto, manciate di niente
Un sorriso gettato agli stormi
Rapito dai mari del Sud, un’isola
Su cui vivere di sola vita
E in cui dormire, dopo la vita,
Coperti di terra leggera.

La mia bambina.. Vorrei fosse mora
O forse bionda, come le bacche
Che nascono dai magici frutteti degli gnomi,
Vorrei mi parlasse come la brezza ai tigli.

domenica 20 giugno 2010

Il viaggio e la scomparsa della geografia. Venezia.

Dedico questo intervento ad Andrea Bottarel - el xe un vecio Virgilio.


Dov’è Venezia?

Oddio, ci mancavano solo le domande retoriche.

Purtroppo non lo è: a) sarebbe più facile rispondere e b) non avrei sentito la necessità di scrivere questo intervento.

Sfortunatamente per tutti noi, questa è una domanda più che mai attuale ed urgente.

Da tempo ormai Venezia è scomparsa; eclissata dal turismo, appiattita dagli obiettivi, svuotata dalla vita - l’unica cosa che fa sì che una città sia una città vera. Da tempo si è nascosta e non la ritroviamo più.

Molti non se ne accorgono nemmeno, accecati da una bellezza eccessiva, o troppo impegnati a ritrovare la strada per l’albergo senza perdersi.

C’è anche a chi non interessa nemmeno che la città sia scomparsa. Velleità da artisti, fregnacce da effemminati: cosa vuol dire è scomparsa? Gli edifici sono ancora lì, ben saldi; i canali puzzano come sempre; i negri vendono sempre le loro borse falsate ai lati di Canal Grande.


Che è successo?

Ci siamo distratti per pochi anni, non potevamo immaginare che tutto sarebbe stato così veloce.
Lo facevamo solo per l’immagine - e per soldi.
D’altronde era la città turistica per eccellenza, orgoglio italiano, un modello da seguire e da imporre.

Economizzare, economizzare, economizzare.

Ho già accennato a Venezia in altre sedi, al suo progressivo prostituirsi; all’appiattimento dovuto al turismo di massa, a un processo di distruzione lento e costante che rischia di soffocare e atrofizzare alcune delle città più belle del mondo. Non mi voglio ripetere. Si tratta adesso di ritrovare una città che non si vuole far trovare.

La città ha reagito! Si è nascosta, si è spostata. Ritrovarla è diventata un’impresa da esploratori.
Anche dal punto di vista fisico è faticoso; bisogna avere buone gambe e buona pazienza. E, naturalmente, fortuna.

Venezia è un pesce, è vero; nel senso che ti sfugge dalle mani.

L’ho visitata spesso, e non mi ha mai fatto impazzire. Tanta gente, tanta da non riuscire nemmeno a parlare. Meta sempiterna di migliaia e migliaia di scolaresche romagnole, e di lamenti per gradini e camminate forzate; città d’arte e della Biennale, città di moda, città del capriccio; città del lusso e delle star.

Tutto quello che odiavo dello spettacolo si raggrumava lungo le calli e le callette, lungo le salizade e i rii, nei campi e nei campielli, sotto forma di turisti, di negozi luccicanti, di veneziani scorbutici e anestetizzati dal turismo, che parlano dialetto per non farsi capire.
Tutto questo succede ancora oggi.

Come ritrovare la città?

Ecco il grande cambiamento dei nostri tempi. Non ha più senso l’espressione “visitare una città”. O meglio, non ha più senso dirlo per tutte le città. Non puoi, ad esempio, visitare Venezia.
Puoi andare lì a guardarla, ad ammirare gli edifici e le persiani tutte uguali e verdi e scrostate d’umidità, studiare architettura; puoi andare là con la donna, in cerca di tramonti strappalacrime e strappassegni.

Non la vivrai mai.
Hai bisogno di una guida, di qualcuno che è nato là, e ci è cresciuto. Come un inferno dantesco hai bisogno di un Virgilio che ti prenda per mano, e che ti faccia scoprire delle (sempre più) esigue porzioni di terra non ancora conquistata.

Tutto questo è triste: anche solo il fatto di avere bisogno di una guida implica una minorità, segno dei tempi che viviamo, tempi di padri e non tempi di figli.

Questa minorità insegna tuttavia una cosa importantissima, che pochissimi ormai comprendono ancora. Una lezione che riempie di speranza chi la capisce a fondo e marca davvero una distanza incommensurabile tra il turista e il non-turista. Insegna il senso del viaggio a generazioni sempre più disinteressate e annoiate. Insegna a essere felici visitando città straniere.

Riappropriarsi della geografia, portare a casa un pezzo di quella città che andrà a costruirne un’altra, infinitamente più importante. La tua città, che non coincide con la residenza, il domicilio, con il luogo di nascita, con la meta preferita, ma è una somma di tutte queste e di tutte le altre città che abbiamo visitato in vita e che, in un qualche modo, sempre diverso, ci hanno arricchito.

Questa è la cosiddetta città ideale.

Allora capisci che Venezia non è a Venezia, ma a San Michele, un miracolo artificiale; fortezza quadrata lambita dalle onde della laguna; dimensione altra, scandita dal ritmo dei cipressi e delle tombe, e dal risciacquare delle maree contro i leoni di pietra erosi dalla salsedine.

Capisci che Venezia è a Sant’Erasmo, distesa su campi coltivati improbabili e patagonici che si perdono all’orizzonte.

Venezia è dentro le corti difese dai pesanti cancelli di ghisa, e si schiude in piccoli miracoli di marmo e edera, su capitelli dimenticati, in mosaici nascosti dal nero dell’umidità.

Venezia è a Castello, di notte, nel silenzio antico di un silenzio senza macchine e nel frusciare di reti da pesca appese alle porte di casa.

Venezia è nelle colonne del mercato del pesce, sulle incisioni duecentesche di crociati in attesa delle navi per Istanbul.

Venezia è nelle statue sbilenche dei Mori, che sembrano guardarti (quelli che ancora hanno una testa) con immensa melanconia, quasi con spavento, forse pensando ai loro commerci perduti, quando Venezia era la città più potente del mondo, e non correva il rischio di perdersi.

Venezia è nel sapore del baccalà mantecato e delle ombre in osterie dove non si parla l’italiano.

Venezia nelle pietre colorate coi gessetti dei bambini, in campo San Giacomo.

Venezia è nei soldatini dimenticati e polverosi, come Lari di case romane, dentro i muri di calli sperdute.

Venezia è a San Marco - ma solo di notte, quando la città ricomincia a respirare.

domenica 13 giugno 2010

Umiliazione

Lascio perdere i mali pensieri nell’ombra dell’osteria.

Il fresco d’un maggio immaturo solletica l’aria.

Avventori seduti parlottano, ridacchiano

Sembrano allegri, sembrano tristi.


Una coppia s’avvicina al bancone. Mi fermo a guardare.

Lei pare stanca, non saprei dire perché; lui boccoli bianchi

E fronte ampia, brillantina. Le tiene la mano lentigginosa.

“Uno spumante! e dei migliori, grazie.” Sorriso di calce.


Tramestii. Hanno l’innocenza delle scolarette,

come durante un’interrogazione. Quale sarà?

Frugano tra le bottiglie, in cerca di quella giusta -

Sfrigola il bicchiere e bacia le molli labbra di rossetto.


È tempo del giudizio. Tuffo del naso nel vitreo circolo.

“No, non ci siamo. Questo vino è andato.” “Mi scusi, lo cambieremo.

Le apro un’altra bottiglia.” Compassione. “No - lascia stare.

Prendo quello che avete d’aperto. Lascia stare”.


Sento le parole nascoste nei suoi occhi: non ti disturbare,

tu che non conosci, tu che non sei in grado, tu che non capisci.

Sopporterò per questa volta. Sopporteremo con sdegno.

Escono ridendo e non so se ridere anch’io o tacere d’amaro.


Bevo l’ultimo bicchiere; sono solo. Sono triste

come se il torto l’avessi subito io, e mi vergogno.

Quante forme ha la violenza? Quali altre maschere

Nasconderanno l’umiliazione? Da quale sporco


Seme nascerà ancora, ancora la vergogna?

martedì 8 giugno 2010

Saviano e la presenza

Come ormai saprete, Roberto Saviano è stato chiamato a concludere la quinta edizione del Festival dell’economia di Trento. I temi egli incontri di quest’anno vertevano sull’informazione e sulla sua ricaduta economica nelle scelte quotidiane: mai ospite fu più azzeccato, verrebbe da dire.

Non mi sento in questa sede di commentare le parole e i contenuti della serata; quelli li potete ascoltare direttamente con le vostre orecchie su questo link, e si commentano da soli.

Mi piacerebbe piuttosto addentrarmi in breve su un tema, apparentemente secondario e secondo me poco compreso, ma di capitale importanza per capire appieno la figura di Saviano, al di là di tutto quello che è stato detto sulla sua eroica lotta alla mafia e sul suo impegno civile – argomenti immensi e nobili, ben inteso, ma che non mi sento di trattare.

Il tema è quello della presenza.

“Perché così tanta gente fuori del teatro?” “Come è possibile che uno scrittore attiri enormi masse di spettatori e lettori, nonostante sia spesso – ma non abbastanza – presente sulle nostre televisioni?”
“Perché non lasciare parlare le sue parole, come per tutti gli altri?” “Ci sono ragioni plausibili per questo successo che non siano direttamente riconducibili all’eco mediatica?”

Queste sono le domande che mi rimbalzavano in testa prima di entrare nell’Auditorium S. Chiara di Trento. Attorno a me tutti ugualmente grondanti di sudore: studentesse smaltate amoreggianti; cinquantenni panciuti aggrappati alle transenne; i soliti ex-sessantottini logorroici e strapolemici; attorno a me tutti ugualmente parlano di mafia; discutono di politica; si emozionano al solo pensiero di poter vedere il loro eroe, Roberto Saviano.

Solo un anno fa avrei bollato questo sensazionalismo come moda o eco mediatica, e in ogni caso ne avrei dato una connotazione principalmente negativa, come spesso mi capita per gli avvenimenti di massa. La gente – avrei detto – non ascolta nemmeno le parole di Saviano, non ha letto i suoi libri, non capisce la sua terribile situazione, lo segue così come le ragazzine seguono le boy band. Moda. Evento mediatico. Apparenza.

Mi sono ricreduto. Non è così, o almeno, non è semplicemente così.

È vero, Saviano è diventato un’icona; non posso che dar ragione a chi attacca lo scrittore sfoderando l’arma della popolarità. E, altrettanto vero, il processo di iconizzazione ha i suoi svantaggi. La figura tende ad appiattirsi o ad astrarsi dal mondo. Spesso la popolarità fa nascere dicerie, genera odii e diffamazioni, incontra la diffidenza della classe colta. Ancora più spesso iconizzazione è sinonimo di fossilizzazione e, di conseguenza, d’incisività.

È vero, Saviano è diventato un’icona, e deve sopportare gli svantaggi della sua situazione (perdita della privacy, massificazione del messaggio, manifestazioni estreme d’affetto e disprezzo, ambienti spettacolari).
Ma qualcosa nel meccanismo spettacolare si è inceppato.

Come ha ammesso anche lo stesso scrittore, la sua visibilità iconica è diventata la sua salvezza.

Ho capito appieno il significato di questa frase, di primo acchìto totalmente illogica, solo durante l’incontro del 6 Giugno scorso.

Sono seduto nella sala gremita. Si spengono le luci. 900 persone ammutoliscono.
Gli attimi precedenti alla sua entrata si permeano di un silenzio sacrale. Un silenzio quasi assoluto, impossibile nel 2010, improbabile tra quella massa vocicchiante, implausibile per tutte quelle macchine fotografiche digitali ronzanti.

Eppure, come prima di una liturgia, il silenzio acquista un valore diverso: è più che rispetto, più che ex voto ad una celebrità. È un silenzio di comunione, palpitante e vivo.

Difficile non cadere nella retorica, quando si parla di presenza.

Saviano, sacrificando la sua vita, ha acquistato proprio questo: la presenza.

Come scrive Walter Siti nella prefazione all’ultimo lavoro di Roberto, La parola contro la camorra, la presenza è quel carisma che penetra in ogni gesto, in ogni sguardo, in ogni pausa dell’oratore, capace di magnetizzare occhi e orecchie dell’ascoltatore: è “la situazione aurea del narratore”.

Benjamin parla di aura in campo artistico. Una vera opera d’arte, se “caricata”, per così dire, da abbastanza sguardi e valorizzata dal contesto, viene avvolta da un’aura particolare, che permette anche ai meno colti di capire che “quella sì, quella è un’opera d’arte, mica come la robaccia di oggi”.

Si potrebbe traslare il concetto di Benjamin sulla persona di Saviano.

La condanna della mafia pesa concretamente sul suo viso, il terribile status di dead man walking infrange lo schermo spettacolare debordiano – una sorta di quarta parete, un po’ come nel teatro – e permette alla sua parola di farsi viva, di risuonare nelle coscienze, di far capire. In altri termini, permette alla sua parola di divenire autorevole.


La particolarità di Saviano è proprio questa: sfruttando il suo status di icona è riuscito ad infrangere il rullo compressore delle notizie, quella sorta di mantra mediatico che non consente allo spettatore medio la comprensione e gli dà solo l’illusione dell’informazione.

Nei telegiornali (di ogni rete, di ogni paese) le notizie s’infrangono l’una dopo l’altra come le onde sulla spiaggia: hanno tutte lo stesso rumore, tutte gli stessi tempi. Il risultato è un frastuono caotico che pian piano diviene rumore di fondo ed ottiene gli stessi risultati del silenzio.

Il messaggio, per eccesso di messaggi, si dissolve.

L’urlo d’aiuto di Saviano ha lacerato questo velo, ha bloccato la pellicola. Ha permesso alle informazioni di arrivare pulite e chiare fino alle nostre orecchie. Ha unificato il paese attorno ai temi più importanti – criminalità e politica, i legami tra esse e le ricadute della loro commistione sulle nostre vite – ed ha informato meglio di quanto abbia mai fatto la televisione.

Come scrive I. B. Cohen, si può misurare il successo di una rivoluzione, nella scienza così come in politica, dalle ostilità che solleva alla sua nascita.

Saviano ha creato una rivoluzione in campo informativo, e lo si può capire dalle critiche e minacce che ha ricevuto: non solo attacchi feroci da mafiosi come Bidognetti o Iovine (comprensibile dato che si sono trovati nell’occhio del ciclone mediatico grazie a Gomorra), ma anche giornalisti - Emilio Fede - e perfino le massime cariche politiche – c’è bisogno di fare il Nome? Berlusconi – hanno diffamato e umiliato lo scrittore con la fetida accusa di sporcare la propria terra. Evidentemente, deve avere arrecato un qualche fastidio al Palazzo.


E questa rivoluzione l’ha pagata al prezzo della sua stessa esistenza. La parola è diventata paradossalmente il suo impegno alla vita.

Parlando da filosofo (!) potrei azzardare che il suo essere si è verbalizzato. La parola, da segno morto, da mero inchiostro si è elevata segno vitale, ad azione.

Mai nella storia del nostro paese si era vissuto qualcosa del genere.

Saviano è forse il primo che ha saputo trarre a vantaggio la sua condanna, che ha saputo massimizzare in positivo gli effetti di iconizzazione, risvegliando coscienze civili prima anestetizzate, grazie alla sua presenza.

Per questo è così importante vedere dal vivo, toccare concretamente il corpo di Saviano; innanzitutto per ricordarci che esiste, che non è l’ennesimo prodotto dello spettacolo; e poi, molto più importante!, per capire che la sua presenza fa ormai parte della sua persona e non dipende dal filtro televisivo.

E che, nonostante ogni delegittimazione, ogni diceria, ogni cattiveria, e perfino in caso di morte, non sarà mai più possibile strappargli la sua presenza.

lunedì 7 giugno 2010

Linee generali per la costruzione del mondo dell'arte


Forse è vero che anche gli spiriti sono diventati materialisti e che non è più tempo, in questo strano decennio ormai alla fine, di visioni, di cose che non abbiano a che fare con la materia. E allora: basta con i voli pindarici inutili, è ora di mettersi seriamente al lavoro, è ora di costruire mondi, di progettarli pietra dopo pietra, di stabilirne le leggi e le conformazioni fisiche, di popolarli di uomini e donne dopo avere deciso le anime di ognuno di loro.
L’artista deve farsi destino, destino del proprio universo e imprimere agli oggetti significati cosmici, che innalzino la sfera percettiva e allontanino l’uomo (i suoi uomini) dalle regole della realtà effettuale, la realtà dell’artista inteso come persona e non come demiurgo.
Un mondo fantastico ma intimamente materiale, dunque caratterizzato da leggi che siano insieme particolari e universali. L’insieme dei particolari conduce al disegno universale e in ogni minuzia è celato il respiro cosmico delle cose. Questo deve essere il presupposto del nuovo mondo dell’arte. In ogni pietra delle case deve riconoscersi un’impronta unica e inconfondibile che sappia legare un’ape alla cima del monte e il fango al seno di una ragazza.
Come riuscire a pensare tutto questo? Pensarlo (progettarlo, non limitarsi ad averne un’idea vaga) conduce ad un’intima visione interiore (scartata quella esteriore poiché già è stabilito che il fuori non esiste) e ad una consapevolezza della forza del proprio essere biografico (le persone della nostra vita, le letture, gli accadimenti, il carattere). Nel mondo dovranno coesistere tutti questi elementi e proiettarsi secondo una direzione che sia unica, come il raggio di sole che attraversando il vetro della lente fa bruciare le foglie. Il fine di tale unione (l’incendio) è la presa di coscienza del proprio destino attraverso le cose reali, e il proprio destino diverrà la matrice grazie alla quale prenderanno forma i destini particolari nel mondo dell’arte.
Nulla è lasciato al caso, poiché il caso non può esistere in un mondo forgiato a immagine di un destino. Le cose accadono per un motivo, un “perché” che guarda al futuro e non al passato. La mano invisibile disporrà le cose affinché emerga dalle rocce e dalle carni un sentimento epico che fornisca agli uomini del mondo effettuale la possibilità di elevarsi positivamente e di legare inscindibilmente il sentire artistico, il sentire biografico e quello sociale.
La costruzione di un mondo totale è l'edificazione di un universo prima completamente personale e poi completamente universale (scuserete la necessaria ripetizione).
Si inizi allora a guardare le stelle e a disegnare la forma di un granello di sabbia che contenga le stelle guardate e i moti sconosciuti degli astri che invece non vedremo mai.