sabato 26 settembre 2009

Poesia e spazio della poesia

L’esperienza straordinaria di William Butler Yeats rappresenta, nel panorama letterario del novecento, un caso quasi unico (come non citare Pessoa), in cui la poesia e, nel dettaglio, il simbolo, assumono connotazioni ultraterrene, valori iniziatici, appunto perché “rivelati” al poeta da entità sovrannaturali.
Oggi si parla di post-avanguardia, post-modernismo, post di qua e post di là (viviamo nell’era del “post”, se non si fosse capito) senza rendersi conto che un intellettuale come Yeats già era stato capace di andare ben oltre la povera avanguardia orizzontale. Altro che “post”!
Io vedo il nostro tempo come una lumaca che arranca viscida verso la verità, che scivola lentissima perché ormai, e in questo mi darete ragione, il mondo del tangibile (politica, economia e, perché no, arte) soffre in maniera terribile l’invecchiamento ideologico.

La lumaca ha un guscio che cresce su se stesso, che accumula strati su strati e che finirà con il collassare. E poi non venite a dire che Latouche non vi aveva avvertiti!
L’invecchiamento ideologico è un male tutto nostro.
La poesia di Yeats, quella più grande, quella, per intenderci, dell’ultimo periodo, possiede una linfa che sfido io a riscontrare in un altro poeta moderno!

Il simbolo portante dell’ultima poesia Yeatsiana (the Great Wheel of Lunar Phases) fu rivelato al poeta dopo innumerevoli sedute medianiche che videro protagonisti sua moglie e misteriose presenze, chiamate istruttori.

Questa poesia, retta da un simbolo tanto poderoso e carico di enigmatiche verità, non risente di alcun invecchiamento o di alcuna retorica.
Dopo Yeats, non si è potuto fare altro che tornare sulla propria strada e fondare i vari “post”. Forse per compensare la povertà di idee con l’illusione di potere andare oltre quando oltre, e qui mi viene da ridere, non si può più andare.

Dall’esperienza comune di poeti quali Yeats e Pessoa e dalla lettura di un autore squisitamente orizzontale quale io considero Ezra Pound, ho modulato la mia attuale concezione poetica, soffermandomi, in particolare, sulle diverse “direzioni” che una poesia può assumere nello spazio e, perché no, anche nel tempo.

L’idea di spazialità trova il suo fulcro nell’uso principale del simbolo, che è elemento base della poesia, e nell’aspetto che il testo poetico assume una volta riversato sulla carta.
Ecco che, allora, un qualsiasi frammento estrapolato dai Cantos, il monumentale e incompiuto capolavoro poundiano, nel suo straordinario e istintivo fluire, non potrà fare altro che ancorare l’occhio e la mente del lettore al suo corpo denso e magmatico, costringendolo quasi (e qui il fantasma di Nietzsche) a leggere senza porsi alcuna domanda sul senso di ciò che si sta appunto leggendo. Questa poesia è ciò che io chiamo “poesia orizzontale”, caratterizzata da un incessante divenire che sembra sempre sul punto di travolgere il lettore.

Altri autori, come il dimenticato Arturo Onofri e il già citato Fernando Pessoa, operano in una direzione diversa, quasi ascetica; laddove il frammento poundiano costituiva il basamento del tempio, la poesia metafisica di Onofri e quella esoterica di Pessoa rappresentano le sue colonne, i suoi canti verticali, protesi verso un abisso di vertigine dal sapore tutt’altro che terreno.

La sintesi perfetta fra la “poesia orizzontale” di Pound e la “poesia verticale” di Pessoa e Onofri, si può riscontrare nel simbolismo estremo di William Butler Yeats, in cui una complessa visione esoterica viene sottoposta ad un simbolismo essoterico dalla fortissima carica evocativa.
La poesia di Yeats si muove in diagonale: un occhio alzato verso il cielo e l’altro saldamente ancorato all’esperienza del quotidiano.
Parlerei perfino di “poesia strabica” se “poesia obliqua” non suonasse decisamente meglio.

Nella “poesia obliqua”, di cui anche T.S.Eliot si potrebbe considerare un ottimo esponente, ho così trovato, da lettore, la mia dimensione ideale. Perfettamente equilibrata fra ciò che sta in terra e fra ciò che sta "oltre", la poesia obliqua (è ora di togliere le virgolette) parla del mondo, ma è come se ne parlasse da una posizione privilegiata e inaccessibile, e, quindi, più sicura e attendibile.

Ben vengano dunque le buone interferenze.



venerdì 25 settembre 2009

Presentazione




La vita è fatta di piccole solitudini
R. Barthes

2009. Le lettere si sono fatte liquide.
È ancora possibile parlare di “libro”?
È ancora necessaria una narrativa?

Il narratore, oggi, nell’epoca dell’ubiquità informativa
dell’estetica spettacolarizzata
della vita liquida
assomiglia molto al cane che abbaia alla sua eco
al folle visionario in un mercato ormai vuoto

Come dicono i francesi, egli rimane medusé di fronte ad una realtà sempre più frenetica
Fatta di schegge impazzite
Mossa da impulsi più che da emozioni

Rimane impietrito perché
non solo la lentezza la ricerca della parola giusta
ma anche il raccoglimento il buon perdere tempo
la contemplazione stessa
la solitudine
hanno dovuto lasciare spazio a ben più luccicanti valori

le hanno additate come nostre nemiche
come irrancidite e rancorose compagne di lamenti
come ostacoli da superare per vincere nella gara del vitalismo
dell’edonismo del consumo.

Una folle corsa che non ha più meta.

...

Nel 1993 si aprì una nuova era.

Una rivoluzione del genere non si viveva da quando Gutenberg, nella sua bottega a Magonza, non inaugurava il suo torchio da stampa, marcando per sempre la pagine di quel sacro incunabolo con eleganti caratteri gotici.

Da quando, verso la fine degli anni Venti, uno scienziato americano non azionava il primo modello di televisione elettronica, nel suo laboratorio a San Francisco.

Erano gli albori dell’epoca del Web.
Il laboratorio del CERN rendeva finalmente pubblica una tecnologia basata sull’ipertestualità in grado di rivoluzionare il concetto stesso di comunicazione.

Oggi ormai si sono persi i confini di questa enorme ragnatela.

...

La biennale di Venezia di quest’anno ospita un’opera utile per capire quello che pensiamo quando parliamo del Web.
È di un giovane artista d’origine argentina, Tomas Saraceno.

Una gigantesca ragnatela di cavi elastici neri assicurati al muro da viti quasi invisibili.
Fili intricati senza apparente razionalità.






Una ragnatela che diventa simbolo d’un intero universo, fatto di rimandi, di relazioni, di collegamenti, di interferenze.
Riflesso del microscopico che diventa macroscopico nel tutto
come un granello di sabbia che si fa parte dell’Everest.

Puoi esplorarla in vari modi.
Guardarla da fuori, ammirarla da lontano. Così non la comprenderai appieno.


Limiterai la tua partecipazione a leggeri scuotimenti di testa. A poche sillabe di meraviglia, forse.
Oppure puoi entrare dentro l’installazione, cercare di districarti, trovare la via d’uscita senza rimanere intrappolato, e passare soddisfatto alla sala seguente.
Devi essere cauto. Valutare le possibili strade per arrivare alla tua meta.
Devi andare piano. Se la sottovaluti, se sfidi la ragnatela con foga, rimarrai incastrato.
Perderai l’equilibrio.
Cadrai come quei goffi turisti americani, suscitando le risate di tutti.

...

Questo blog ha la pretesa, forse arrogante, di sfidare la ragnatela di Saraceno.
Muoversi con ponderatezza nella terra di nessuno del Web per rispondere alle domande con le quali abbiamo iniziato.
Trovare efficaci modi d’espressione per far riflettere
per con-muovere
per intrattenere, perché no?

Sfruttare un mezzo che ci permette di coltivare contatti
Di condividere piccole solitudini
Di scrivere senza rendere conto a nessuno
Di ridonare la forma a lettere divenute liquide
Spinti solo dalla passione e dall’urgenza del messaggio.

Questa è Internet.



Questa è la Babele moderna.