martedì 26 aprile 2011

L'arte e il male: la scelta di Hannah Arendt.


Perché inserire La banalità del male all'interno del filone della narrativa etica? Che c'azzecca con Truman Capote, e il suo esperimento misto tra romanzo e inchiesta? Molto più di quanto una prima lettura possa suggerirci.

Un primo, fondamentale motivo è la dimensione narrativa del saggio della Arendt.
Il libro non è soltanto un resoconto del processo di Gerusalemme, durante il quale nel 1961 si discutevano le colpe di Eichmann. Il libro è innanzitutto la storia di Eichmann. E come per tutte le biografie, il suo stile è narrativo.

Eichmann, pagina dopo pagina, parla, racconta, risponde quando viene interrogato dalla penna acuta della Arendt. Eichmann diventa personaggio. Non fittizio, purtroppo, ma quanto mai vivo e umano.

Il libro della filosofa tedesca trascende il limite dell'inchiesta giornalistica, benché in origine fosse nato con quel preciso obiettivo.
C'è il racconto dei testimoni; ci sono le arringhe degli avvocati; compaiono le fatiche dei giudici, così come le trame politiche alla base di un processo che la Arendt non esita a definire fittizio. Con lavoro paziente e buonsenso razionale, l'autrice ci svela e denuncia gli intenti demagogici di Ben Gurion; la spettacolarizzazione del processo; la quantomai sospetta ignavia della difesa.

Non solo: il libro diviene ricostruzione storica del contesto socio-politico del decennio nazista in Germania e nel protettorato tedesco orientale. Ci spiega il funzionamento amministrativo dell'immensa macchina burocratica tedesca; il ruolo attivo delle comunità ebraiche nelle scelta dei civili da mandare allo sterminio; i retroscena più scomodi della diplomazia alleata.

Fin qui si potrebbe parlare di saggio, di filosofia politica.
La banalità del male diviene fenomeno artistico in quanto riesce ad umanizzare la figura di Eichmann, approfondendone non solo la biografia, quanto l'interiorità, le fobie, le manie. Per far questo, la Arendt è costretta, si potrebbe dire, a utilizzare uno stile narrativo per avvicinare la bestia all'uomo, rifiutando la semplicistica tesi del male assoluto.

Una delle più formidabili accuse che la Arendt lancia alla corte di Gerusalemme è proprio quella di dimenticare l'individuo in carne ossa, la persona Eichmann, facilitando un'universalizzazione del reo nella condanna a morte.
Non si giudica l'individuo Eichmann in questo processo, ci dice la Arendt, ma al suo posto si giudicano gli antisemiti tutti, secoli e secoli di storia e storie umane; è il Male del razzismo a sedere sul banco degli imputati in attesa di salire alla forca; è il destino degli ebrei che si compie, assieme a quello del suo stato, Israele, finalmente vendicato.

L'unica cosa che dovrebbe importare, invece, è cercare di capire cosa ha realmente fatto Eichmann, il suo grado di responsabilità storica nell'attuazione della Endlösung nazista contro il popolo ebraico.
Se riusciremo in questo, allora ci sarà anche tempo per capire il perché, le ragioni morali o filosofiche dietro l'annullamento della coscienza individuale dei regimi totalitari.

Partiamo dal primo quesito e seguiamo la Arendt nelle sue argomentazioni.
Come quasi la totalità dei burocrati nazisti, Eichmann non era che un nodo nella rete del partito. Non aveva grandi poteri decisionali né un alto grado gerarchico; non possedeva particolari qualità umane o intellettuali.
Eichmann si occupava di trasporti: il suo ruolo era la gestione amministrativa dei trasporti degli ebrei attraverso il Reich verso i campi di sterminio.

Nonostante il ruolo secondario nella vita del partito sapeva perfettamente della soluzione finale (aveva partecipato all'incontro fondamentale dei gerarchi a Wansee, in qualità di esperto di questioni ebraiche) e in che cosa quest'ultima consistesse: aveva visto con i suoi occhi alcune della prime camere a gas in funzione. Sapeva dove erano diretti i treni e come sarebbero stati ridistribuiti i beni confiscati agli ebrei. Sapeva delle durissime condizioni di vita nei ghetti polacchi.
Era inoltre una persona piuttosto sensibile: sappiamo dalle testimonianze che non riusciva a sopportare la vista di maltrattamenti fisici o cadaveri senza venirne profondamente turbato.

Il punto centrale è che, sebbene conoscesse le conseguenze delle sue azioni,  non si oppose mai al regime fece qualcosa per aiutare le vittime. Rimase all'ufficio trasporti cercando di svolgere il suo lavoro il più minuziosamente possibile, restando ligio ai volontà del Führer e addirittura criticando i suoi superiori nel caso di strappi alla regola. Durante il processo scandalizzò la sua affermazione di avere agito sempre seguendo la morale kantiana: il dovere prima di tutto. Era questa la fonte della sua sicurezza morale.

Come aggravante, non si dichiarò mai pentito per quel che aveva commesso: era un cittadino come tutti gli altri, e aveva compiuto il suo dovere in modo esemplare nonché esercitato i suoi diritti. Solo la Storia poteva giudicarlo, ma a posteriori, a fatti compiuti: l'intero processo era perciò stesso illegittimo.

Già tutto questo, senza appellarsi a colpe universali dell'antisemitismo, sarebbe sufficiente, secondo la Arendt, per condannare morte Eichmann, come responsabile individuale. Eichmann era cosciente delle sue azioni, e scelse di seguire gli ordini per  quieto vivere. 
A nulla servirebbero poi i cavilli giuridici che attenuano il ruolo criminale di Eichmann, relegandolo a un secondo piano nella gerarchia del partito o allontanando dalla sua competenza l'eliminazione fisica degli internati.

Eichmann è colpevole non davanti al popolo ebraico, come antisemita: è colpevole davanti all'umanità in quanto collaboratore politico di un regime che perseguiva uno sterminio.
Riporto le parole della Arendt, illuminanti oltre che giuridicamente, anche per le nostre tesi: si noti come l'autrice sembra rivolgersi in prima persona all'imputato, in un vero discorso diretto:

La politica non è un asilo: in politica obbedire e appoggiare sono la stessa cosa. E come tu hai appoggiato una politica il cui senso era di non coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico (…) noi riteniamo che nessuno desideri coabitare con te. Per questo tu devi essere impiccato.

Se per uno studio giuridico l'analisi del caso Eichmann può fermarsi qui, per la filosofia deve continuare. 
Resta inattesa la domanda cardine, il pungolo interiore che continua a spingere la Arendt dentro alle cause profonde di una tale catastrofe morale: come può un individuo dimenticare di avere una coscienza?
Ancora una volta, l'indagine sembra prendere le fattezze di un racconto, o addirittura di una descrizione letteraria del personaggio.

Eichmann non era mosso da particolari passioni ideologiche o politiche: tutto quello a cui ambiva era una carriera semplice e veloce, una scalata della gerarchia per ottenere un posto di riguardo e diventare una celebrità, vivere nell'agio.
Non era limitato mentalmente, ma neppure troppo intelligente. Era un uomo mediocre nel lavoro come nella vita.

Infine, non era pazzo, né sadico. Come dirà lo psichiatra che lo visitò in cella prima dell'inizio del processo: “è più sano di me dopo averlo visitato”.

Eichmann, ci viene detto, è quanto di più lontano possa esserci dal male assoluto. Tutto in lui è terribilmente banale, dalla sua storia personale alla scelta delle ultime parole in punto di morte.

É la banalità di questa figura, lontanissima dalla grandezza di uno Iago o di un Macbeth, a spaventare la Arendt. La banalità del male è la facilità con cui si può cadere in esso. Basta cessare di scegliere eticamente: se il contesto non è morale, non lo saremo nemmeno noi.

La banalità inquietante del male è la sua normalità in tempi totalitari. L'azzeramento dell'individuo in massa burocratizzata coincide con la scomparsa di un'individualità morale. Solo se siamo individui possiamo aspirare ad essere morali. La massa non lo è perché nasce per non esserlo.

Furono pochi, in Germania, ad opporsi al regime nazista. La mancanza di esempi contrari, la liquidazione feroce di ogni opposizione portò a un naufragio morale collettivo. “Non capì mai che cosa stava facendo”, dice la Arendt parlando di Eichmann; capiva ciò che stava succedendo ma non ne realizzava la portata, né poteva analizzare la questione ebraica moralmente.

Spegnere la propria coscienza, adeguarsi alla massa, non farsi domande. Il totalitarismo non richiede un'azione, chiede al suo sostenitore molto meno:  passività, non agire e, prima ancora, non pensare.

Concludiamo.
All'inizio del libro, la Arendt scrive alcune righe che non sembrano ricoprire una grande importanza all'interno del suo libro, ma che sono capitali per ragionare a fondo sul personaggio Eichmann:

(...) un tratto più personale, nonché più importante, del carattere di Eichmann era la sua quasi totale incapacità di vedere le cose dal punto di vista degli altri.

E ancora:

Quanto più lo si ascoltava tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era legata a un'incapacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro.”

Eichmann non riesce a pensare empaticamente; ovvero, non riesce a mettersi nei panni dell'altro. Questa chiusura empatica è ciò che si rischia in un totalitarismo, quando cioè smettiamo di comportarci eticamente, seguendo il comportamento della massa.
Ogni nostra azione è potenzialmente criminale senza una riflessione etica alla base. Per questo la libertà è faticosa, anche se il suo peso dovrebbe sembrarci magnifico.

Non solo: il fenomeno artistico è un formidabile antidoto contro questa chiusura.  Ci permette di conoscere l'altro provando le sue stesse esperienze; ci costringe a pensare problematicamente, senza cadere in apodittiche distinzioni tra buoni e cattivi; ci aiuta nell'esercizio della nostra moralità. Questo è esattamente ciò che proviamo leggendo il libro della Arendt.
Eichmann, molto probabilmente, non aveva mai avuto alcuna propensione artistica. Non era capace di provare il vissuto esistenziale degli altri, né di capire le ragioni profonde delle loro scelte. 
 
Il fenomeno artistico umanizza la colpa e rafforza il nostro pensiero etico servendosi dello stile estetico.

sabato 9 aprile 2011

L'arte e il male. La scelta di Capote.

Abbiamo indagato, piuttosto frettolosamente, i nessi che legano l'arte e il male, ovvero la capacità della prima di rendere più accettabile e lenire l'assurdità del secondo – spesso attraverso un processo di dolore condiviso.

Grazie il fenomeno artistico abbiamo la certezza che il Male Assoluto sia una fantasia per semplificare i concetti e dividere il mondo in buoni e cattivi, senza problematizzare, dimenticandoci di quella “zona grigia” in cui è possibile scindere il bene dal male, poiché entrambi costitutivamente interni alla natura umana (cfr. a proposito il capolavoro di Levi I sommersi e i salvati).

Il fenomeno artistico, inteso come il più radicalmente umano dei linguaggi che disponiamo, accetta questa zona grigia e la racconta. Viene così evitato in partenza il rischio di assolutizzare il male in una condanna univoca, privilegiando la ricostruzione dell'evento, la biografia dei personaggi, il contesto ambientale; come se si volesse avvertire il fruitore della banalità di questo male (altro lavoro, quello della Arendt, che analizzeremo in questa serie di interventi).

In Cold Blood, forse il lavoro più importante dell'autore americano Truman Capote, è solo uno degli infiniti esempi che si possono portare a sostegno delle tesi di cui sopra, ma di formidabile efficacia per capire la potenza dell'etica del racconto (sottoinsieme dell'etica dell'artistico).

Capote sceglie di raccontare uno dei più efferati delitti della storia americana; raccoglie per anni interviste e segue le indagini del Kansas Bureau of Investigation; sistematizza i materiali e mette ordine laddove sembra impossibile portarvelo.

Il risultato è un romanzo sperimentale, pubblicato nel 1965-1966, che aprirà strade inedite nella storia della letteratura, incoraggiando generazioni di artisti a raccontare questo mondo senza bisogno di inventarne uno nuovo. Si tratta di fare del crudo dato reale vera e propria opera d'arte, sostituendo all'invenzione la documentazione, al non-senso reale il senso narrativo.

Non si deve pensare però che il lavoro di Capote sia una semplice ricostruzione degli eventi o, peggio ancora, un'inchiesta giornalistica dilatata. No, la novità sta nel tessuto narrativo che sostiene l'opera, che dà voce ai personaggi e permette al lettore di conoscerli.

Capote è un regista che taglia, mette a fuoco, contrappone, mescola di continuo le due storie (quella degli assassini e quella delle vittime) senza mai cadere nel patetismo o nella spettacolarizzazione giornalistica.

Allora vediamo che la famiglia dei Clutter, a prima vista la famiglia tipo della provincia americana dei gloriosi fifties (sana, bella, ricca, pia) cela in seno problemi famigliari evidenti e gravi: la depressione della madre, il potere unilaterale del padre-padrone, l'isolamento del figlio.

Allo stesso modo, gli assassini sono umanizzati, laddove la cronaca rischia di demonizzare: il lettore scopre i retroscena esistenziali, l'infanzia difficile di un personaggio incredibilmente umano come Perry Smith, i suoi sogni, le sue paure; i disturbi mentali del compare Dick, il sadismo, il sogno americano di successo e donne che diventa patologico e sfocia in disastro.

Perfino il processo viene sviscerato nel profondo, facendo emergere le incongruenze dell'accusa e le titubanze della difesa, il fanatismo religioso del giudice e di alcuni giurati, l'intenzionale mancanza di analisi accurate delle perizie psichiatriche e delle biografie dei due assassini.

Ed è alla fine della lettura – che coincide con la fine materiale dei due assassini – che il lettore riesce a comprendere un delitto altrimenti assurdo, come quello dell'uccisione di un'intera famiglia per nulla.

Magistrale in questo caso, nonché perfettamente riuscita a livello stilistico, è la decisione di Capote di far raccontare il delitto vero e proprio non alla voce narrante e nemmeno agli investigatori che stanno dalla parte della giustizia, ma allo stesso carnefice.

Qui il potere etico del fenomeno artistico raggiunge vette inattese: il racconto raccapricciante dello sterminio di una famiglia esce dalla bocca di colui che lo ha compiuto.

La personificazione del lettore col colpevole è immediata. La paura di essere scoperti dalla polizia, le vertigini provocate da troppo alcool, la fretta di trovare i soldi che non vogliono comparire, cinque persone che piangono e supplicano di risparmiarli, il mantra ripetuto più volte “no witnesses”: tutto questo umanizza l'evento altrimenti Assurdo, e convince il fruitore che i responsabili del delitto non sono bestie ma uomini come lui.

Qui però occorre fare attenzione: Capote non giustifica mai gli assassini. Umanizzare non significa giustificare: non è questa la finalità del fenomeno artistico. Nessuna giustificazione, ma racconto il più possibile umano, quindi comprensibile.

Capote vuole conoscere gli assassini e farli conoscere al suo pubblico, perché sa che attraverso una narrazione dei fatti (quella che abbiamo più sopra chiamato narrazione etica) sapientemente orchestrata, il lettore può arrivare almeno a comprendere quello che è successo, senza lasciarsi distrarre della condanne unilaterali dell'opinione pubblica.

È questo il nodo etico ed estetico: il lettore impara la moderazione, il gusto della comprensione umana, il sentimento della pietas non tanto religiosa, quanto civile.

Non a caso il libro si apre con una citazione importante, in francese medievale: “Frères humains qui aprés nous vivez, | N'ayez les cuers contre nous endurcis, | Car, si pitié de nous povres avez, | Dieu en aura plus tost de vous mercis”.

È la prima strofa della Ballade des pendus, capolavoro del poeta Villon, che similmente a Capote avvicina i lettori agli impiccati, ricordando attraverso la loro stessa voce che sì, hanno commesso ingiustizia, ma anche nella colpa rimangono esseri umani.

Avere pietà per il colpevole significa riconoscersi in esso e comprenderlo, pur rimanendo saldi nella sua condanna.
Abbiamo già detto e ripetuto che l'empatia dell'artistico si esprime in primo luogo nell'umanizzazione dell'Assurdo: queste non sono che celebri conferme di questa empatia.

Concludiamo. Il libro di Capote ebbe fin da subito un grande successo di pubblico e critica. Tuttavia la novità degli stilemi narrativi fece fatica ad imporsi in un primo momento, e il filone della “narrativa etica” faticò ancora qualche tempo ad emergere, sovrastata dalla crescente congerie di prodotti post-modernisti.


Ma è proprio in questi ultimi anni che il romanzo di Capote sembra essere ritornato al centro delle discussioni letterarie in Italia, elevato a padre putativo di altri importanti lavori spesso etichettati, del tutto arbitrariamente, come non-fiction, parole che non riusciamo proprio a comprendere.

Assistiamo ad un'ulteriore prova del grande rovesciamento della realtà pronosticato già da Debord: il romanzo che viene costruito sul reale diventa non-fiction, e non il contrario, come invece sarebbe più normale che fosse: è il romanzo fantastico che dopotutto dovrebbe essere non-reale. La fiction è misura della realtà, non più il contrario.

Ma questo discorso apre una porta che non abbiamo tempo di attraversare.