venerdì 25 dicembre 2009

Buon Natale a tutti voi

Il pomeriggio colora di azzurro
Una chioma altrimenti verde
E di verde un cielo altrimenti blu
E l’occhio si siede sul consueto
Grigio astratto delle case
E immagina interni forse inesistenti.
Aspetto la sera e penso al mare
Ai gabbiani che pescano tuffandosi
Mentre il cielo ruota nella notte.

La sabbia si solleva in brevi turbini
Che scavano il vento e poi si posano
In una seconda e terza attesa
Fino al nuovo volo, verso le onde
Appartenenti a entrambi i mari.
Parlare di queste cose
È come parlare di ciò che non c’è
Poiché il mare è lontano e il sole
Si scioglie sul mondo esausto.

La pace del giorno festivo
Quella che animava l’amore
Dorme accanto ad una candela
Che manda lampi intermittenti
Lanciati da una mano dispettosa.
Oltre il breve fuoco del lampo
Scorgo una parvenza di vita incompleta
E mi chiedo quale sia il senso
Il significato del suo agire.

Il mondo si assottiglia per l’inquinamento
Ambientale e culturale
E la fragile parvenza delle cose
Cresce in progressive debolezze
E c’è da chiedersi fino a quando
E fino a dove la volontà di vita
Si spingerà
A contrastare la volontà di crollo.

Forse le macerie sono già in noi
E le case tanto solide giacciono su rovine
Che a loro volta nacquero su ruderi remoti
E noi stesi in un abbraccio
Uniamo una latente distruzione
Che farà piangere e lacrimare;
Ma l’esistere è questo ed altro
E senza paura ti voglio invitare
All’ascolto di una sera di primavera
Che appare lontana, obliqua nel riflesso
Mentre dicembre brucia nel fuoco.

giovedì 3 dicembre 2009

La morte di Eraclito


(Efeso, V sec a.C., Tempio di Artemide.
Eraclito steso su un giaciglio ai piedi dell’altare, coperto da un grezzo panno di lana. Il suo viso è ricoperto di edemi.
Al suo fianco il discepolo Cratilo, panno umido in mano, deterge la fronte del maestro addormentato.
Attorno gli altri Eraclitei, vestiti di nero, cappucci lunghi.
Fuori dal tempio, attraverso le colonne, un tramonto sull’Egeo.
Silenzio.) 
Eraclito: Ora, sulla soglia estrema – ora, ora sul baratro! – dopo ogni conflitto, il Conflitto.

Cratilo (agli altri): Presto, portate dell’acqua, svelti. Avete sentito? È ancora sveglio.

E: Mi sento trascinare giù. Sono una cascata. Lo vedi, Cratilo, lo vedi anche tu?

C: Sta vaneggiando. (forte agli altri) È fuori di sé: scendete in città e chiamate un medico.

E (forte): Taci! Taci: non riesco a sentire. Fate piano, mi disturbate – Medici? Cosa curerebbero? Non voglio efesini quassù, non oggi. Oggi scenderò io.

C: Come puoi scendere nelle tue condizioni? Dovrai restare.

E: Ho passato la mia vita qui sull’acropoli, Cratilo. Una è la via. Come tutte le cose. Come sono salito, dovrò scendere anche io. (Forte attacco di tosse.)

C: Presto, mandate a chiamare il medico! Cosa aspettate, per Zeus!

E: No, no. Devo finire. Chiamate un servo piuttosto. Ho ancora qualcosa da dire, da ultimare.

C: Dai pace all’animo, maestro: non puoi affaticarti.
 
E: Ancora non capisci Cratilo? Eppure non c’è nulla da capire. Oggi io parto. Oggi lascio questa terra; oggi mi dissolvo nel fuoco. Non c’è niente da fare, è già deciso. Vedo una luce nuova, Cratilo. Vedo i contorni delle cose più netti. So dove finiscono e dove cominciano.

C: Non ti capisco, Eraclito. Sei già lontano.

E: Guarda, Cratilo, guarda fuori, fuori dal tempio, oltre queste colonne. Lo vedi? (Sorride, sembra di nuovo assopirsi.)

C (agli altri): Non vuole medici, ma ha chiesto uno schiavo per trascrivere le sue ultime parole. Fate presto. Non credo resterà per molto.

E: Brucio! (Lamenti.)

C: Presto, dell’acqua!

E: Come sono ridotto, Cratilo? Mi sento bruciare, sono pieno di mondo. Sto scoppiando.

C: Tieni, dell’acqua. Bevi e resta sdraiato. (Terge la fronte del maestro.)

E: Guarda il mio corpo! Cosa mi succede? Ho rotto gli argini, è vero? Sto esorbitando, le membra non reggono più. Tra poco uscirò da me stesso, Cratilo.

C: Non dire così. Puoi ancora parlare, la tua mente è ancora sveglia. Pensa a questo.

E: Che discepolo ingrato. Dovresti essere contento per me e invece mi compatisci.

C: Come posso essere contento, Eraclito? Sarei un pazzo, un folle se fossi felice della tua scomparsa. Ci lasci come nudi andandotene adesso; e mi chiami ingrato.

E: Non guardarmi in quel modo. Girati, per Zeus. Non posso sostenere quello sguardo ipocrita, quegli occhi che bruciano ancor più della malattia. Non voglio condividere il mio dolore con nessuno. Lasciami solo. Che nessuno rimanga dentro.

(Cratilo si alza in piedi e va a parlare con gli altri. Lunga pausa.
Ritorna, porgendo al maestro una cassetta d’argento)

E: Che ti avevo detto, Cratilo? Lasciami solo.

C: Un’offerta da Efeso, maestro. L’hanno consegnata ora, in tuo onore. “Un dono votivo per il saggio del tempio d’Artemide”, hanno detto. Per ingraziarsi la dea; per un buon viaggio, quando sarai di là.

E: Un dono votivo! Che sorpresa. Mirabile, Cratilo, davvero.

C: Che dobbiamo fare? Lo immoliamo oggi stesso?

E: Accendete senz’altro il braciere.

C: Subito. Se questo è il tuo volere, sarà fatto.

E: È così. Fate ardere il sacro treppiede e buttate alle fiamme il dono assieme a chi lo manda. Non potrei avere miglior viaggio che avendolo al mio fianco, quando arriverò di là.

C: Che significa? Che vuoi dire, Eraclito?

E: Dopo una vita passata a sopportare le ingiurie di una città consumata dalla prepotenza, dalla lussuria, dai commerci; dopo averli avvertiti, sopportando sguardi come spilli, raccogliendo amari raccolti di ingiurie e scherno; dopo aver visto i più cari amici esiliati per pura brama di potere, per desiderio di sopraffazione; dopo tutto questo, anche oggi i miei occhi si devono chiudere di fronte a tanta giustizia. Beati i tempi dei re! Beato chi rimase all’oscuro delle sudice macchinazioni democratiche! (Tosse.)
Non accetterò nessun dono, Cratilo. Non permetterò a questo argenteo cavallo acheo di profanare il mio tempio; tanto meno di recare offesa alla più sacra delle dee. Restituitelo al mittente. Dall’alto della sua sapienza saprà certamente meglio di un povero vecchio pazzo come consumarlo.
Efesini! Peggio di porci siete; vi contentate di putrido fango, invece di ricercare il vero sapere. Insozzate ogni cosa col vostro tocco, come re Mida dannati da un demone. Tutto avete bruttato, rapito, violentato; anche le labbra più sacre marciscono al vostro fetido bacio.
Salvate almeno i vostri figli; salvateli dalle vostre stesse braccia soffocanti. Che crescano all’oscuro di un tempio muschioso piuttosto che corrompersi nelle auree sale di palazzo. Per voi non c’è più speranza. Ma non spegnete germogli con parole velenose. (Pausa.)
Sono stanco Cratilo. Le parole fuggono. Portatemi un servo.

(Lunga pausa.
Il sole è calato sul mare. Dalle colonne del tempio spande la luce di un crepuscolo greve. Il bagliore di un braciere appena acceso illumina a sprazzi il volto gonfio del maestro.
Attorno a lui sono raccolti i suoi discepoli. Cratilo siede a fianco dello schiavo, che aspetta di riempire tavolette di cera 
delle ultime parole di Eraclito.)

E: Sembra che la mia anima non voglia lasciare questo corpo malato. È un supplizio terribile. Credo sia maggiore delle mie forze, maggiore più di quanto non possa sopportare. Piangi, Cratilo? Ti ho già detto che non voglio commiserazione.

C: Piango per me, Eraclito. Piango perché so cosa perdo.

E: Tanto più meriti il nome di sciocco, Cratilo.

C: Non riesco a capirti. Come puoi biasimarmi? Forse che non piangono i figli davanti alla pira del padre? Non meritano commiserazione forse, ancor più che i morti, i loro cari, che rimangono soli e tremanti come di fronte al primo freddo?

E: Lascia perdere l’opinione e il costume dei molti. Io non lascerò nessuno. Non lascerò questo mondo più di quanto non lasci il suo letto il fiume, giunto alla fine del suo corso. Mi sento scoppiare, Cratilo, proprio come se avessi dentro un fiume, un torrente di montagna, dopo le prime piogge di novembre; un fiume rabbioso, torbido. (Gira il capo verso l’orizzonte, tossendo forte. Si assopisce di nuovo.)

C (agli altri): Preparate la pira. Che tutto si svolga velocemente, nel buio di questa notte.
(Pausa)

E: Lo vedi adesso, Cratilo, lo vedi? Mai fu più chiaro di adesso. Mai la legge più forte – più del rosso di questo tramonto. (Attacco di tosse ancora più forte. Il viso butterato dell’edema contratto nel dolore)
Come il pesce nel mare – come il fiore di montagna – la nuvola che passa silenziosa – il sasso che frana dalla scoscesa. La goccia, la frana, il posarsi di una farfalla, il suono del flauto. Ogni movimento, ogni più piccolo respiro; il filo d’erba che cresce. I discorsi di ogni uomo, dall’era dei giganti e nelle tenebre del futuro, i pensieri dei discorsi, i sogni dei pensieri, i ricordi dei sogni, il ripetersi del ricordo. Tutto come l’oro. Ogni cosa ha dentro di sé l’oro, lo vedi?
Il fuoco, Cratilo, è l’oro.
Anche io sono destinato a – come tutto.
Il più piccolo granello è se stesso per conflitto.
I contorni, li vedo più netti, adesso, ora.
È un supplizio, Cratilo, più forte del mio essere.
Scivolo via. Non sia lo stesso con queste parole.
Fondetele nell’oro. Non resisteranno al fiume, ma verranno lette.
I miei contorni, scompaiono. Cratilo!
Lo vedo! Lo vedi anche tu? Ora, sull’abisso.
Riconosco il flusso necessario. La virtù è solo questo, è il segreto!
La felicità, Cratilo. Guarda. È davanti a noi, distante un tocco.
Che stolti. Una vita per questo.
Sto partendo, lo sento. Mi vedrai ancora.
Ogni volta che sul tuo corpo riconoscerai una ferita del tempo.
Non c’è fine, Cratilo, perché la persona non era un inizio.
Lasciate i miei pensieri alla dea.
Il giusto dono è questo.
Accompagnerò più volte chi ne avrà bisogno.
Il dolore eccede.
Brucio.

(Il viso contratto si distende.
Cratilo si alza, copre il viso del maestro. Uno dopo l’altro i cappucci scuri degli Eraclitei scompaiono nel buio della notte, portando fuori il corpo.
Lo schiavo lascia le tavolette a Cratilo.
Escono tutti, tranne lui.
Piano si toglie la tunica, rimane nudo. Si terge con un panno bagnato. Posa sul braciere un pezzo d’incenso e lascia la fragranza perdersi tra le tenebre del tempio.
Lentamente esce fuori, siede sulla nuda terra e perde il suo sguardo nelle stelle.
Silenzio.)

venerdì 6 novembre 2009

Corsa, incendio ed esecuzione prima dell'intervento demoniaco e il successivo oscuramento della linea solare

“Dona fiori ad Eliodora, dolce croco, purpureo giacinto,
Rose d’amore,
avvolgi le spalle in petali viola e bacia le tempie odorose di pioggia”
Cadde il seme e nacque il rovo spinoso
Crebbe il rovo sul bianco petto di Eliodora.

Ciò che accadde quella notte, di riflesso è ciò che fece Marcel pensando alla ragazza. Ricordo il verde delle foglie che non vidi
(perfino la luce di quelle foglie),
foglie d’alba
Un bosco di Rousseau: la tigre fra i cespugli incise il legno con le unghie facendo scappare tutti gli uccelli; uno di questi, volando basso in mezzo ai rami, ferì la mia fronte con l’artiglio ricurvo. Corsi tutta la notte tenendomi la testa, lasciando il fuoco crepitante che vomitava fumi sulla vegetazione, ancora acceso. Nella fronte sentii crescere il demonio.
La capanna degli indigeni era cenere. Tutt’attorno nemmeno un’anima, tanto era il fumo e il giallo delle fiamme. Resti del pasto frugale giacevano per terra, collane e denti d’avorio adornavano teschi dalle bionde parrucche. Fino al fiume scendeva un sentiero che percorsi come in sogno. La tigre divorò il rogo di Lisa. I presenti all’esecuzione (più di un milione, a quanto scrive il cronista), esultarono, gettando in aria i cappelli.
Ancora ridono di me, fra un incendio e l’altro.
“Marcel! Marcel fermo!”E Jackson ancora intento nel ballo è solo nella casa vuota, caotica nel limbo scuro che precede la notte.
Punto, linea, superficie.
Hanno trovato un cadavere, giù al fiume. Aveva con sé una lettera che andata perduta fra i flutti. Adesso è forse sepolto poco lontano da casa mia. Oggi le mosche sono irrequiete.

Un giorno, Charun, il demone blu,
scese sulla terra o forse ne riemerse
dalle gole dell’Ildebranda o dal Tifone,
o ancora dalle grotte terrificanti
guardate a vista dai serpenti con le ali.

O dark, dark, dark, they all go into the dark.
Prima dell’ombra viene un fuoco di luce.
E’ forse questo il suo volto? E’ forse questo volto il mio?

sabato 31 ottobre 2009

Il blog e l'anonimìa, ovvero perché lasciare una traccia

In quanto blog, questo è uno spazio pubblico.

Sono permesse critiche, commenti, suggerimenti, idee.
Il Web crea spazi di confronto (forum: piazze) ed è giusto usufruirne.

Non potrei pensare a nulla di più bello di uno scambio letterario con un pubblico anonimo.

Alcuni storceranno la bocca.
Ma come? Un pubblico anonimo, digitale, è meglio di un pubblico in carne ed ossa?
Come fidarsi di nick volatili ed immateriali, dietro cui potrebbe celarsi chiunque?
Come prendere sul serio l’opinione di un perfetto Nessuno?
Come prestare fede a ciò che viene detto per uno schermo che appiattisce, filtra, falsa ogni cosa?

Ma chi l’ha detto che lo schermo è un filtro?
Non è affatto vero: lo schermo non distorce un bel niente.

La fredda obiettività digitale è più utile per comprendere una persona che dieci uscite consecutive a parlare del più e del meno.
Ciò si può benissimo osservare nei tanti amati-odiati social network, dove l’unica legge fissa è: “tutto è così come appare.”
Dopo appena due minuti di navigazione sulle pagine di prefetti sconosciuti, siamo in grado di dare un giudizio che, con un piccolo margine d’errore, è spesso del tutto fondato.
Figuriamoci poi se si tratta di scambiare idee.

Non di rado, attraverso questi pochi centimetri di silicio, possono nascere concetti che mai si avrebbe il coraggio di esprimere davanti a persone concrete, vuoi per vergogna, vuoi per uno sguardo storto, per un gesto, per un attimo fuggito.

E non puoi mentire: lo sguardo digitale restituirà in modo perfetto non solo le parole manifeste, ma anche e soprattutto le idee nascoste, le convinzioni profonde, le opinioni che non avresti mai la forza di confessare.
La verità, se così si può definire.

Il cervello degli afasici non riesce a comprendere il significato delle parole che percepisce.
Sente suoni, ma non coglie il loro senso.
Eppure, se non nei casi più gravi, gli afasici riescono a comprendere quel viene loro detto e possono continuare ad avere relazioni con gli altri.
Non solo, alcuni possono capire immediatamente se stai dicendo loro la verità o meno, quasi come avessero acquisito nuove facoltà per compensare la mancanza di una normale percezione.

Non capire le parole non significa non sentirle, non avvertire i toni, gli accenti, le modulazioni della voce, il ritmo della parlata. E soprattutto non significa non vedere il corpo di chi parla: i suoi gesti, il suo sguardo, la sua mimica.
È questa componente non-verbale che permette loro di capire l'interlocutore integrando insieme le informazioni che possono acquisire indirettamente.

Cosa vuol dire tutto questo?
Presto detto: la macchina non capisce nulla di quello che scrivete.
Non sa il significato delle vostre frasi.
Ma in ognuna di essa è nascosta una componente extra-verbale, che arriva al destinatario, che svela i vostri pensieri.

Parlando con l’Anonimo non riusciremo mai a conoscere il suo nome, la sua data di nascita, la residenza, il suo lavoro. In questo senso, la sua identità ci rimarrà nascosta.
Questa tuttavia è un identità che non interessa a nessuno, che sì connota l’individuo, ma non lo caratterizza.

Avremo colto, invece, un’altra identità, ben più importante e nascosta, interiore.
L’essenza, per così dire, di quella persona, il carattere che molto più del nome e del cognome distingue l’Individuo da ogni altro individuo al mondo.

Le buone interferenze sono anche queste: le vostre.
Deviateci, iniziateci a nuove strade.

Per vedere, per farvi vedere

L’acqua, lo sento, non bagna più
Sa di ferro, di sangue oramai.

Una notte m’è passata di fianco
La vita: anni di voci, di gesti

In pochi minuti. Ho avvertito
La ruvida carezza del tempo.

Tanto vagammo in terra, in mare
Da soli, per sempre da soli.

L’acqua, lo sento, non placa più
Ha il colore della polvere.

Mi sono svegliato, alla luce del giorno,
ancora e ancora, da solo.

Einmal ist keinmal, sussurrano piano.
Tanto vagammo in mare, in terra

Consumammo le suole, le ore.
Ancora e ancora, da soli.

Iacopo - parole
Elia - link

venerdì 30 ottobre 2009

Trento, 30 Ottobre 2009

Io voglio fermarmi al regno dei vivi
Dove il picco ricurvo frammenta
Le soglie infinite, laggiù, il regno
Celato dal sole, ciò non mi importa.
Resti serrata la vita fluente
Dal mondo al mondo, serrata
Che il vento a spirale e lo scrigno
Riprendano il regno perduto.

Perché perduto, come il corso
Di ogni vita che inizia il suo ciclo
Tanto vagammo in terra, in mare
E ancora, oltre questi, alla visione
Di un regno straniero
E ora un grande regno perduto.
Ogni granello del tempo
Fu una famiglia da amare
.

Elia - parole
Iacopo - link

sabato 26 settembre 2009

Poesia e spazio della poesia

L’esperienza straordinaria di William Butler Yeats rappresenta, nel panorama letterario del novecento, un caso quasi unico (come non citare Pessoa), in cui la poesia e, nel dettaglio, il simbolo, assumono connotazioni ultraterrene, valori iniziatici, appunto perché “rivelati” al poeta da entità sovrannaturali.
Oggi si parla di post-avanguardia, post-modernismo, post di qua e post di là (viviamo nell’era del “post”, se non si fosse capito) senza rendersi conto che un intellettuale come Yeats già era stato capace di andare ben oltre la povera avanguardia orizzontale. Altro che “post”!
Io vedo il nostro tempo come una lumaca che arranca viscida verso la verità, che scivola lentissima perché ormai, e in questo mi darete ragione, il mondo del tangibile (politica, economia e, perché no, arte) soffre in maniera terribile l’invecchiamento ideologico.

La lumaca ha un guscio che cresce su se stesso, che accumula strati su strati e che finirà con il collassare. E poi non venite a dire che Latouche non vi aveva avvertiti!
L’invecchiamento ideologico è un male tutto nostro.
La poesia di Yeats, quella più grande, quella, per intenderci, dell’ultimo periodo, possiede una linfa che sfido io a riscontrare in un altro poeta moderno!

Il simbolo portante dell’ultima poesia Yeatsiana (the Great Wheel of Lunar Phases) fu rivelato al poeta dopo innumerevoli sedute medianiche che videro protagonisti sua moglie e misteriose presenze, chiamate istruttori.

Questa poesia, retta da un simbolo tanto poderoso e carico di enigmatiche verità, non risente di alcun invecchiamento o di alcuna retorica.
Dopo Yeats, non si è potuto fare altro che tornare sulla propria strada e fondare i vari “post”. Forse per compensare la povertà di idee con l’illusione di potere andare oltre quando oltre, e qui mi viene da ridere, non si può più andare.

Dall’esperienza comune di poeti quali Yeats e Pessoa e dalla lettura di un autore squisitamente orizzontale quale io considero Ezra Pound, ho modulato la mia attuale concezione poetica, soffermandomi, in particolare, sulle diverse “direzioni” che una poesia può assumere nello spazio e, perché no, anche nel tempo.

L’idea di spazialità trova il suo fulcro nell’uso principale del simbolo, che è elemento base della poesia, e nell’aspetto che il testo poetico assume una volta riversato sulla carta.
Ecco che, allora, un qualsiasi frammento estrapolato dai Cantos, il monumentale e incompiuto capolavoro poundiano, nel suo straordinario e istintivo fluire, non potrà fare altro che ancorare l’occhio e la mente del lettore al suo corpo denso e magmatico, costringendolo quasi (e qui il fantasma di Nietzsche) a leggere senza porsi alcuna domanda sul senso di ciò che si sta appunto leggendo. Questa poesia è ciò che io chiamo “poesia orizzontale”, caratterizzata da un incessante divenire che sembra sempre sul punto di travolgere il lettore.

Altri autori, come il dimenticato Arturo Onofri e il già citato Fernando Pessoa, operano in una direzione diversa, quasi ascetica; laddove il frammento poundiano costituiva il basamento del tempio, la poesia metafisica di Onofri e quella esoterica di Pessoa rappresentano le sue colonne, i suoi canti verticali, protesi verso un abisso di vertigine dal sapore tutt’altro che terreno.

La sintesi perfetta fra la “poesia orizzontale” di Pound e la “poesia verticale” di Pessoa e Onofri, si può riscontrare nel simbolismo estremo di William Butler Yeats, in cui una complessa visione esoterica viene sottoposta ad un simbolismo essoterico dalla fortissima carica evocativa.
La poesia di Yeats si muove in diagonale: un occhio alzato verso il cielo e l’altro saldamente ancorato all’esperienza del quotidiano.
Parlerei perfino di “poesia strabica” se “poesia obliqua” non suonasse decisamente meglio.

Nella “poesia obliqua”, di cui anche T.S.Eliot si potrebbe considerare un ottimo esponente, ho così trovato, da lettore, la mia dimensione ideale. Perfettamente equilibrata fra ciò che sta in terra e fra ciò che sta "oltre", la poesia obliqua (è ora di togliere le virgolette) parla del mondo, ma è come se ne parlasse da una posizione privilegiata e inaccessibile, e, quindi, più sicura e attendibile.

Ben vengano dunque le buone interferenze.



venerdì 25 settembre 2009

Presentazione




La vita è fatta di piccole solitudini
R. Barthes

2009. Le lettere si sono fatte liquide.
È ancora possibile parlare di “libro”?
È ancora necessaria una narrativa?

Il narratore, oggi, nell’epoca dell’ubiquità informativa
dell’estetica spettacolarizzata
della vita liquida
assomiglia molto al cane che abbaia alla sua eco
al folle visionario in un mercato ormai vuoto

Come dicono i francesi, egli rimane medusé di fronte ad una realtà sempre più frenetica
Fatta di schegge impazzite
Mossa da impulsi più che da emozioni

Rimane impietrito perché
non solo la lentezza la ricerca della parola giusta
ma anche il raccoglimento il buon perdere tempo
la contemplazione stessa
la solitudine
hanno dovuto lasciare spazio a ben più luccicanti valori

le hanno additate come nostre nemiche
come irrancidite e rancorose compagne di lamenti
come ostacoli da superare per vincere nella gara del vitalismo
dell’edonismo del consumo.

Una folle corsa che non ha più meta.

...

Nel 1993 si aprì una nuova era.

Una rivoluzione del genere non si viveva da quando Gutenberg, nella sua bottega a Magonza, non inaugurava il suo torchio da stampa, marcando per sempre la pagine di quel sacro incunabolo con eleganti caratteri gotici.

Da quando, verso la fine degli anni Venti, uno scienziato americano non azionava il primo modello di televisione elettronica, nel suo laboratorio a San Francisco.

Erano gli albori dell’epoca del Web.
Il laboratorio del CERN rendeva finalmente pubblica una tecnologia basata sull’ipertestualità in grado di rivoluzionare il concetto stesso di comunicazione.

Oggi ormai si sono persi i confini di questa enorme ragnatela.

...

La biennale di Venezia di quest’anno ospita un’opera utile per capire quello che pensiamo quando parliamo del Web.
È di un giovane artista d’origine argentina, Tomas Saraceno.

Una gigantesca ragnatela di cavi elastici neri assicurati al muro da viti quasi invisibili.
Fili intricati senza apparente razionalità.






Una ragnatela che diventa simbolo d’un intero universo, fatto di rimandi, di relazioni, di collegamenti, di interferenze.
Riflesso del microscopico che diventa macroscopico nel tutto
come un granello di sabbia che si fa parte dell’Everest.

Puoi esplorarla in vari modi.
Guardarla da fuori, ammirarla da lontano. Così non la comprenderai appieno.


Limiterai la tua partecipazione a leggeri scuotimenti di testa. A poche sillabe di meraviglia, forse.
Oppure puoi entrare dentro l’installazione, cercare di districarti, trovare la via d’uscita senza rimanere intrappolato, e passare soddisfatto alla sala seguente.
Devi essere cauto. Valutare le possibili strade per arrivare alla tua meta.
Devi andare piano. Se la sottovaluti, se sfidi la ragnatela con foga, rimarrai incastrato.
Perderai l’equilibrio.
Cadrai come quei goffi turisti americani, suscitando le risate di tutti.

...

Questo blog ha la pretesa, forse arrogante, di sfidare la ragnatela di Saraceno.
Muoversi con ponderatezza nella terra di nessuno del Web per rispondere alle domande con le quali abbiamo iniziato.
Trovare efficaci modi d’espressione per far riflettere
per con-muovere
per intrattenere, perché no?

Sfruttare un mezzo che ci permette di coltivare contatti
Di condividere piccole solitudini
Di scrivere senza rendere conto a nessuno
Di ridonare la forma a lettere divenute liquide
Spinti solo dalla passione e dall’urgenza del messaggio.

Questa è Internet.



Questa è la Babele moderna.