venerdì 3 dicembre 2010

La gita al MEI

A tutti i "nostri" interferiti, che ci seguono da più di un anno, con grande affetto

Come ogni anno è arrivato (e passato) il MEI; come ogni anno mi sono concesso una gitarella a Faenza e qualche cd nuovo; come ogni anno, pioveva.

Cos'è il MEI? Presto detto: Meeting Etichette Indipendenti.
Meeting: tanta gente. Etichette: qualcosa che ha a che fare con la musica, nella migliore delle ipotesi. Indipendenti: non chiedetemi da chi o che cosa, vi prego. Tanti capelli, tanti jeans stretti come insaccati, tante giacchette scure, tanto trucco. Molta disillusione e artisti dallo sguardo vacuo che non “emergeranno” mai.

[Che brutto verbo, emergere: e per le associazioni involontarie che crea con la materia fecale, e per l'idea che per diventare qualcuno occorra stare “sopra” gli altri.]

La cornice è sempre quella della fiera di Faenza: uno slargo di cemento, casermoni dal tetto blu arcuato che sembrano usciti da un incubo di Sant'Elia, tendoni bianchi che ingoiano la gente e paiono digerirla con brontolii raccapriccianti (e invece sono le band che suonano dentro).

Alle 5, calano le tenebre azzurre di novembre; i lampioni si specchiano nelle pozzanghere e fra i buchi del cemento, atmosfera post-bellica da grande e sperduta periferia dell’est; il casino comincia a darti alla testa: devi tornare a casa.

Perché m’ostino ad andarci?
Per vari motivi.

1) I buoni prezzi che puoi trovare. Facendo un rapido calcolo: vado al MEI da 6 anni; ogni volta torno a casa con non meno di 5 cd; almeno 30 esemplari (dei più rari e soddisfacenti) vengono dalle bancarelle del MEI. E non sborso mai più d’un cinquantone.

[Esemplari di quest'anno: Love “Da capo”; Brian Wilson “Smile”; una compilation tributo a John Peel (doppio); Pixies “Surfer Rosa”.]

2) Lo stand della casa editrice ISBN e Arcana: i loro titoli, per quanto riguarda la storia e la critica musicale, non sono secondi a nessuno in Italia. Non è raro trovare occasioni o sconti.

3) Lo stand del Mucchio: ogni anno faccio amicizia o scambio quattro chiacchiere con qualcuno della redazione. L'anno scorso era toccato a Guglielmi, quest'anno alla Raugei. Ragazza giovane, piuttosto anonima, stretta di mano scialba, ma sguardo simpatico. Le faccio i complimenti. Risponde “Grazie.” Non ci siamo piaciuti.

4) I casi umani: non c'è nulla come il MEI per farsi quattro risate sulla pelle degli altri, soprattutto quando si è depressi.

Anche quest'anno la scelta era piuttosto varia. In primis, le ragazze della biglietteria.
“Salve, ho un acconto del comune di Ravenna.” “Mi dia pure.” “Prego.” Sguardo perplesso. “Mi scusi ma lei è assessore?” Inizio perfetto.

Poi gli stand più improbabili; capelloni sforacchiati di piercing che ti guardano passare in cagnesco perché non ti fermi davanti alle loro cinture fatte con le cravatte.

Oppure l'oggettistica radical, portafogli e accessori vari fatti con i materiali di scarto delle bici. Molto graziosi, non c'è che dire, ma “mi costa una vita”, diceva il buon Battisti, e non ho voglia di farmi prendere in giro perché porto una cintura fatta con una ex-camera d'aria.

Infine, gli strambi. Non parlo solo degli artisti, quelli sono spesso casi patologici. Parlo del pubblico.
Quanto amo guardare il pubblico! Il motto gaberiano del “far finta di essere sani”, qui non può essere applicato. Di più, è ribaltato: si fa finta di essere strani.

Per riscaldarmi un po', entro nella tenda in fondo alla piazza, forse la tenda M, non ricordo. 
Sul palco una ragazza che sembra vestita con un unico lenzuolo, periplo da matrona e berretto giamaicano. A fianco, un tipo sulla cinquantina, coppola e maglione della nonna smanetta con un Mac. Alla sua destra, un ragazzo non tanto più giovane, bocca costantemente aperta, ondeggia i folti capelli ricci e guarda stupito il pubblico, quando non è alle prese con cavi, cavetti e manopoline. 
Hanno appena finito di lamentarsi col presentatore (per vostra e sua fortuna non descriverò il suo abbigliamento) della mancanza di etichette italiane che producono il loro tipo di musica, e della triste necessità di dover cercare ingaggi all'estero.
Poi inizia il tormento: base dubstep ripetuta, atmosfere soffuse, qualche strepitìo in qua e in là, bassi alti e alti molto bassi, voce femminile salmodiante qualche oscura e seducente formula in inglese. Ma tant'è.

Soltanto una ragazza, forse della mia età, isolata in mezzo al pubblico, sembra apprezzare la loro musica: accenna la ritmica con le mani, che disegnano cerchi nell'aria; alza ginocchio destro, lo abbassa, alza ginocchio sinistro, lo abbassa, ondeggia la testa e si toglie i capelli dalla bocca una volta sì e una no. Qualcuno ride, si crea il solito “cerchio dell'imbarazzo”; prima di uscire faccio in tempo ad origliare alcuni commenti sull'eccessivo consumo di droghe.

5) Le riflessioni che ti spinge a fare, sulla tua terra, sulla tua generazione, sul tuo passato (cerchi di ricordarti con chi eri andato l'anno prima, e quello prima ancora, e come stavi, e che avevi in testa, e come sei cambiato, e la primissima volta col tuo amico, e l'autografo di Freak Antoni...), sugli eventi: su te stesso.

sabato 16 ottobre 2010

Desiderio di memoria fedele, o Io immortale


[Per ogni sorta di chiarimento sul progetto generale rimando al primitivo abbozzo dello schema così come lo scrisse Iacopo più di tre mesi fa e alla sua compiuta e più recente presentazione.
Come già ripetuto, state per leggere una traccia teorica, senza pretese di esaustività. Se lo trovate eccessivamente complesso, saltatelo.]


Insieme alla tensione verso una forma mitica che sappia ricondurre gli aspetti del reale ad una sfera genuinamente simbolica, agisce sulla causazione dell’opera artistica il forte desiderio di memoria fedele, che costituisce una vera e propria necessità biologica dell’Io artistico.
Legato essenzialmente all’istinto di sopravvivenza e a quello conseguente di perpetuazione della specie, il desiderio di memoria (qui momentaneamente “sganciato” dall’aggettivo fedele che, come vedremo, rappresenta una precisa peculiarità del fare artistico) costituisce quindi l’aspetto più strettamente biologico del finalismo agente in itinere sulla causazione artistica.
A differenza della tensione verso il mito, la cui spinta omogenea si riflette nel progressivo piegarsi della linea artistica verso l’utopica chiusura del cerchio*, il desiderio di memoria fedele assume inizialmente i contorni tipici di una profonda necessità materiale per elevarsi poi, con la spinta verso la “fedeltà” di tale proposito, in direzione di un bisogno più marcatamente artistico e quindi spirituale.
[* Per la rappresentazione geometrica del fare artistico si veda l’intervento precedente sull’Io mitico.]
La fedeltà rappresenta la presa di coscienza del Soggetto artistico riguardante la vera natura della propria opera; da questa consapevolezza scaturisce il desiderio di essere ricordato attraverso una produzione che rifletta nella maniera più veritiera possibile le intenzioni proprie dell’artista*.
[* Rifacendoci alla definizione di Io artistico come di “demiurgo” della propria opera spiegata nel precedente intervento, si potrebbe descrivere la tensione verso la fedeltà della memoria come il desiderio di mantenere una rigorosa ortodossia artistica attraverso il rifiuto di ogni eresia o pratica eterodossa che possa snaturare l’essenza del Soggetto creante deviandola verso territori che ne rifletterebbero, al contrario, solo gli aspetti rifiutati o, a seconda dei casi, rinnegati.]
La presa di coscienza del valore reale della propria opera, e quindi dell’intima intenzione ad essa connessa, è, così come l’azione curvante del finalismo mitico, un aspetto dal carattere utopico, in quanto si può realizzare solo in maniera parziale o virtuale. Tale consapevolezza si attua in continuazione lungo il percorso del Soggetto artistico che può, di volta in volta, ri – scoprire un aspetto fino a quel momento mantenutosi nell’ombra, e mutare di conseguenza la sua idea riguardo al progetto artistico in via di realizzazione.
Certamente, un’idea sul senso generale della propria opera può condurre ad un’esclusione degli elementi più grossolanamente eterodossi, ma in ogni caso questa operazione di selezione e di valutazione sul proprio percorso non può mai dirsi totalmente conclusa*.
[* La costruzione del circolo mitico e il desiderio di memoria fedele concorrono all’edificazione di un centro in cui si riflettano simultaneamente tutti gli aspetti dispersi della realtà effettuale, assimilati così ad una unità dal carattere specificamente spirituale; tale azione simultanea verso l’affermazione dell’unità potrebbe essere rappresentata dal simbolo del quadrato inscritto nel cerchio, assimilabile, secondo quanto riportato da René Guénon**, alla raffigurazione tradizionale dell’equilibrio finale. Senza entrare troppo nello specifico, ma solo per offrire un ulteriore spunto di riflessione, basti sapere che, stando all’interpretazione dell’esoterista francese, il cerchio rappresenta l’inizio di un ciclo, lo sviluppo delle possibilità (nel nostro caso, l’espansione che dal centro, ovvero l’Io artistico, muove la volontà demiurgica verso l’esterno poi determinato nella forma dell’opera d’arte), mentre il quadrato in esso racchiuso simboleggia il completamento di tale sviluppo, la cristallizzazione che conduce all’equilibrio finale per il ciclo considerato. Se per “ciclo” s’intende la vita artistica dell’autore, la circonferenza starà allora ad indicare il dispiegarsi della sua volontà in diverse direzioni e quindi in altrettante opere d’arte (tutte caratterizzate, ricordiamolo, da una costante tensione al mito) e il quadrato, assimilato all’elemento minerale, solido per eccellenza, rappresenterà la presa di coscienza sul proprio operato e la sua successiva chiusura in una forma che sia perfettamente coesa in ogni sua parte, definitivamente cristallizzata e immune da qualsiasi modificazione da parte di azioni esterne.]
[** Si vedano a questo proposito “L’esoterismo di Dante” e “Simboli della Scienza sacra”, entrambi editi in Italia da Adelphi.]
Riassumendo: l’aspetto finalistico della creazione artistica tende, nella sua duplice azione mitica e mnemonica, all’edificazione e al consolidamento di un centro che sappia garantire unità delle parti, e che costituisca al tempo stesso una fedele immagine simbolica capace di tramandare alla posterità dialogante le reali intenzioni dell’artista e di rendere così tale patrimonio “immortale”.

mercoledì 6 ottobre 2010

Introduzione a "Ravenna, la città che vorrei" di Fabrizio Varesco

[Un pensiero a tutti gli spettatori che si stanno godendo la prima del documentario di Fabrizio sulla "nostra" città a San Domenico, nonché agli amici che hanno partecipato alla sua realizzazione; mi spiace non esserci, perciò vi dedico simbolicamente questo intervento.

Mi è stata data l'occasione di scrivere un breve testo come introduzione al documentario, che sentirete recitato in apertura (anche se parzialmente modificato) dalla voce di Tondini. Si tratta di una sorta di carrellata istantanea, di una descrizione incerta di varie zone o aspetti di Ravenna, balbettante ed alleniana.

Lo pubblico di seguito per varie ragioni: sana pubblicità (potete vederlo gratuitamente a San Domenico, in fondo a Via Cavour, vicino al Mercato Coperto); riconoscenza al Varesco per l'opportunità; integrazione, anche se indiretta, agli interventi precedenti sulla geografia; per far conoscere la versione primitiva dello scritto.

Sarebbe stimolante sapere le impressioni che ha fatto il documentario ai suoi "primi" spettatori:lo spazio dei commenti al post è aperto anche e soprattutto a vostre possibili interferenze circa il lavoro visivo.]


"Ravenna, Ravenna.

Capitolo uno.
Era nato e cresciuto a Ravenna. Amava tutto della sua città: le dimensioni, la storia, il clima, il centro.
Non  avrebbe mai potuto immaginare la sua vita senza – non sarebbe mai riuscito ad immaginarsi...

No, no, no. Non va bene per niente.
Allora, ricominciamo.

Ravenna era la sua città. Ogni strada, ogni più insignificante particolare del paesaggio suscitava in lui antiche emozioni. Era come se ogni pietra fosse impregnata di memorie ed esperienze.
Si ricordava di quella volta con lei, di sera, a passeggiare lungo le inferriate di San Vitale. Come era bella! D’un tratto s’avvicinarono, e –

Che cosa c’entra? Ci mancava solo la solita storia d’amore.
Dai, sforzati un pochetto di più, che ti costa?

Più precisi, più analitici. Dati: ci vogliono dati. Si tratta o no di un documentario?

Ravenna: superficie 652 km²;  altitudine: 4 metri sul livello del mare; aopolazione: 157.479 abitanti; 8 monumenti dichiarati patrimonio dell’umanità; lavoro: tasso d’occupazione maschile 67% - 35° posizione nazionale; tasso d’occupazione femminile 61,3% - 6° posizione nazionale; popolazione di cittadinanza straniera: 17.190 – tasso d’immigrazione 28,1...          

Dio mio, che distacco! Inizio troppo freddo. I numeri spaventano – non funziona.
Concentrati, raccogli le idee, dai un qualche taglio alla descrizione:

La Ravenna Antica: sì, la capitale storica, dissoluta, l’imprendibile roccaforte bizantina, circondata dal fango e difesa dalle zanzare. Ancora con la Storia! No e poi no.

La Ravenna industriale: il deserto rosso cigolante e sbuffante, ricoperto di scheletri ferrosi e nuche d’altiforni, la Darsena, il puzzo... No, passato, cliché.

Allora proviamo con la Ravenna edonista che ride si droga e s’ubriaca i sabati sera d’estate: le macchine a passo d’uomo in cerca del parcheggio, la sabbia nelle scarpe, le strilla delle ragazzine, le facce impallidite davanti agli etilometri – peggio di prima.  Retorico, verboso.

No, allora, la Ravenna della Resistenza: i vecchietti che parlano dialetto al bar, in stazione, e che rischiano i frontali tagliando le rotonde, le vecchine che sparlano sotto la mia finestra del loro vicino.

E allora perché non la Ravenna Immigrata, che aiuta a parcheggiare in piazza Kennedy e vende collanine d’estate, in riva al mare? Fosse così semplice...

Forse la Ravenna Limitrofa? I lidi, i paesini dimenticati, Savio, San Zaccaria, le prime colline, Bertinoro, la dolce campagna romagnola?

Oppure la Ravenna dei luoghi comuni, mosaici e Mirabilandia.
Ah sì, proprio un bel documentario verrebbe fuori.

Fermati un attimo.
Dovevi scrivere un’introduzione e sei riuscito soltanto a raccozzare memorie d’infanzia o immagini ricorrenti, con un disordine che non si lascerà domare facilmente.

Forse una sola introduzione non basta.
Per capire una città occorre raccontarla più e più volte, da diverse voci, in diversi tempi – e l’immagine composta dal coro delle voci, quella sarà la vera città."

sabato 2 ottobre 2010

Tensione al mito, o Io mitico

[Per ogni sorta di chiarimento sul progetto generale rimando al primitivo abbozzo dello schema così come lo scrisse Iacopo più di tre mesi fa e alla sua compiuta e più recente presentazione.
Come già ripetuto, state per leggere una traccia teorica, senza pretese di esaustività. Se lo trovate eccessivamente complesso, saltatelo.]


Gli interventi precedenti hanno analizzato i tre stadi necessari alla causazione artistica, ovvero i processi legati alla creazione di un’opera d’arte: principio del discrimine o Io* distaccato, in cui il soggetto, o motore artistico, si distacca dalla società di provenienza per fondare o riappropriarsi di una voce strettamente personale; Dialogo e Epoché della Tradizione o Io dialogante, in cui il soggetto, reso indipendente dal suo allontanamento, instaura un dialogo propositivo con una Tradizione artistica a lui precedente o contemporanea; il nodo o Io legato, in cui l’individuo, maturato attraverso il distacco e il dialogo con la Tradizione, torna alla società da lui precedentemente abbandonata, intesa qui come soggetto fruitore dell’opera d’arte (a questo proposito si riveda la definizione di “bifrontismo artistico”).

[* La doppia denominazione intende sottolineare l’importanza dell’individualità in ogni fase creativa (causazione) e nelle due finalità artistiche; non si dimentichi, di conseguenza, il ruolo centrale giocato dall’aspetto biografico in un’opera d’arte.]

L’analisi razionale del processo creativo deve, a questo punto, tenere conto della differenza che corre tra causazione e finalità artistica; entrambe vanno a comporre quel processo unico (l’arte) che si svolge su un piano pratico, caratterizzato da un preciso “hic et nunc” riguardante di volta in volta il distacco, il dialogo, ecc. e, contemporaneamente*, su un piano ideologico, e che mira, in ogni sua particolare determinazione, a un obiettivo fondamentale (la creazione di un mito) e al soddisfacimento di una necessità biologica (il desiderio di memoria fedele**).

[* Il fatto che si arrivi solo ora ad analizzare le finalità artistiche è fuorviante e non deve indurre al pensiero che l’aspetto finalistico si attui solo a causazione conclusa; in realtà, il desiderio della creazione del mito e quello di memoria fedele accompagna l’Io artistico in ogni frase e parola, in ogni pennellata, in ogni nota e scalpellata. L’analisi così condotta vuole solo esemplificare separando atto e finalità, ma si tenga conto della compresenza costante di questi aspetti.]

[** Per non complicare le cose, in questa sede approfondiremo solo l’aspetto mitico del fare artistico, rimandando ad un secondo momento la spiegazione riguardante l’aggettivo “fedele” associato a “memoria”.]

Se la causazione spiega le condizioni necessarie alla costruzione del “corpo” artistico, la duplice finalità costituisce l’”anima” di tale corpo, indicando l’interesse che sta dietro all’atto pratico, la sua essenza più vera: la ricerca di un senso che sappia ricondurre all’unità (ecco un termine sulla cui importanza i critici di ogni tempo hanno speso migliaia e migliaia di parole) i sentimenti contrastanti dell’Io riguardo alla vita, che sappia contenere la dispersione del reale in un corpo circolare e perfettamente coerente*.

[* La circolarità e di conseguenza la perfetta coerenza sono però un’utopia.]

Tale senso, o desiderio di unità, si cerca sul piano biologico del desiderio di memoria e su quello più strettamente artistico della creazione, o meglio costruzione, di un mito, che si potrebbe raffigurare a livello geometrico come una circonferenza; tutti i punti del cerchio devono coerentemente rifarsi al centro (l’Io artistico, o divino, in questo caso), che è sorgente di ogni raggio e anche fine di ogni punto, che ad esso deve per necessità tornare*.

[* L’uso del termine “necessità” ha una precisa giustificazione: così come nella sfera religiosa ogni cosa è creata per necessità da un’entità necessaria (Dio), così è nella sfera artistica; si è parlato di arte come di una necessità profonda che plasma la materia in un modo necessario, che “non può essere altrimenti”. L’artista è quindi il Dio della propria opera. Si potrebbe parlare di una sorta di Teologia artistica. L’aspetto demiurgico dell’artista è già stato affrontato, per esempio, dal Tasso nei suoi “Discorsi sull’Arte poetica”; non si aggiunge pertanto nulla di nuovo rispetto a quanto già detto in passato.]

Tale forma specifica del mito artistico risponde alla volontà di costruire un corpo che rifletta la circolarità degli eventi cosmici (si pensi al succedersi delle stagioni, al ciclo vita – morte, al giorno e alla notte, ecc.) e che si riveli, al contempo, incorruttibile, proprio perché conchiuso in un guscio* capace di superare le barriere del tempo e dello spazio e di tendere a quella Tradizione da cui ogni artista deve attingere per potersi definire tale.

[* E’ interessante notare come la tensione costante ad una forma chiusa sia la ragione essenziale dell’emozione umana di fronte all’opera d’arte. L’opera artistica rappresenta la tentata realizzazione di questo luogo compiuto, un tentativo tipicamente umano poiché è proprio l’uomo l’unico essere capace di definirsi nella sua finitudine formale; per dirla seguendo la metafisica indù, l’uomo, in quanto relatività, è “qualificato” (in sanscrito, saguna) e “concepito distintivamente” (savishesha) mentre Brahma, il principio supremo a cui si rifà la metafisica pura, è “non qualificato” (nirguna) e “al di là di tutte le distinzioni” (nirvishesha). La non-forma, la non-definizione è quindi un attributo divino e l’essere umano, per questo, si emoziona nel riconoscere i chiari confini di un’opera che sappia raccogliere la sua essenza, che, ricordiamolo, è in parte definibile (e quindi conoscibile) nel corpo e in parte astratta, tendente a Dio, e quindi inconoscibile. La forma artistica è quindi la sintesi, in quanto simbolica, del corpo e dell’anima umana, rappresentazione geometrica di un mistero in costante nascondimento. Ricapitolando: l’uomo si emoziona di fronte alla forma poiché è la forma l’oggetto primo della conoscenza umana.]

L’arte si può quindi intendere come il tentativo di chiusura di un cerchio, una linea curvata che sappia conciliare gli opposti e “redimerli” in un hortus conclusus riparato dalle offese esterne e insieme aperto al confronto con un pubblico dialogante.

venerdì 17 settembre 2010

Cosa significa riappropriarsi della geografia. Per una geografia personale.


A Eleonora Cara

Spazio e tempo: le due dimensioni in cui siamo costretti a vivere.
Che siano imprescindibili per la nostra conoscenza l’aveva intuito Kant; che siano relative ce l’ha spiegato Einstein.


Dopo quasi un millennio di pagine e parole spese su questi due strani concetti, cosa potere aggiungere senza risultare banali o, ancor peggio, passati?


Partiamo da Heidegger e dalla sua opera più importante, Sein und Zeit (Essere e Tempo) che, secondo Vattimo, può anche venire chiamata Essere è Tempo.


La dimensione temporale della persona, il suo essere finita e transeunte, destinata alla morte per sua stessa costituzione ontologica (Sein zum Tode) è la condizione specifica della vita umana, e per questo più importante. L’essere non è mai fermo, diviene; e il divenire sfocia ineluttabilmente nel non-essere. Occorre dunque, secondo Heidegger, caricarsi sulle spalle il proprio destino, uguale per tutti e al di fuori della possibilità di una scelta, e vivere tenendo conto della nostra temporalità.


L’essere è tempo, si compie in esso, non può sussisterne al di fuori: l’uomo è tenuto ad appropriarsi del tempo, della sua attualità per capirsi, innanzitutto, e per farne parte.
La grande lezione è, secondo noi, questa: interessarsi al proprio tempo perché in esso e per esso siamo noi stessi.


Si può applicare la stessa tesi allo spazio? Si può e si deve.


Non solo il tempo ci condiziona e ci rende quello che siamo: anche lo spazio ha un ruolo importante nel definirci e nel renderci noi stessi.


Come tutti sappiamo (e non possiamo fare a meno di notare), di là di ogni generalizzazione o semplificazione, esistono caratteri temporali (Zeitgeist), che contraddistinguono un’epoca; allo stesso modo esistono caratteri spaziali che marcano un luogo (Raumgeist?) e la sua storia.


Se il tempo ci condiziona per se stesso, lo spazio ci condiziona attraverso luoghi.

C’è tuttavia una grande differenza: astrattamente il tempo è uguale per tutti (inteso come susseguirsi di attimi e compiersi d’azioni); diversamente lo spazio, che per noi non significa nulla in astratto.


Lo spazio è personale, accompagna concretamente la vita di una persona sottoforma dei luoghi nei quali essa è cresciuta ed ha vissuto. Crediamo si possa, in questo caso, parlare di una “geografia personale” che condiziona la vita di ognuno di noi, in un curioso comporsi e ricomporsi di eventi passati e luoghi.

Riconoscere l’importanza di una geografia personale è capitale per la formazione dell’individuo.

Siamo quello che siamo non solo per quello che abbiamo passato, ma anche per dove lo abbiamo passato.


I nostri pensieri, le nostre preferenze, i gusti, le paure, il carattere; in una parola, la nostra psiche è stata plasmata dei luoghi della nostra vita, delle persone che li hanno abitati, dagli oggetti che li hanno occupati, dalla natura che li ha resi come sono.


Si è già parlato di psicogeografia, ovvero dell’azione che l’ambiente circostante (lo spazio) opera sul nostro pensiero, invero senza troppo successo: forse il nostro sapere è ancora immaturo per capire se e come occorra parlare di questa influenza della natura sull’uomo.


D’altronde, se lo spazio cambia e forgia il nostro corpo, perché mai non dovrebbe cambiare anche il nostro pensiero? La nostra pelle, il colore degli occhi, gli zigomi, i nostri fenotipi cambiano secondo le condizioni ambientali che caratterizzano il nostro spazio.


Perfino la nostra lingua, il marchio che ci (contrad)distingue dagli altri animali cambia al variare dello spazio: lessico, fonetica, sintassi e semantica sono molto più sensibili allo spazio che non al tempo. Basti pensare che l’italiano che usiamo oggi non è poi troppo diverso da quello di Dante, mentre basta allontanarsi di qualche chilometro per non riuscire più a capire una parola del dialetto locale.


E il linguaggio non è forse immagazzinato nel nostro cervello, non è forse componente fondante del nostro pensiero? Si può concludere che il nostro modo di pensare non è solamente frutto del tempo in cui viviamo, ma anche del luogo che abitiamo; che ogni uomo sarà figlio del suo tempo, è vero, ma anche del suo spazio.


Capire noi stessi appropriandoci di una nostra geografia è compito più che mai attuale e complicato, proprio adesso che la storia sembra dirigersi verso una progressiva perdita di senso e significato geografico.


Senza rendercene conto e senza poter comprendere appieno questo processo siamo diventati uomini a una dimensione. Viviamo in funzione del tempo, che oggi è diventato la dimensione esistenziale per antonomasia: la tecnologia esiste anche e soprattutto per farci risparmiare tempo prezioso; i trasporti devono essere più efficienti, quindi più veloci; la comunicazione farsi più efficace, quindi più rapida.


Questo a discapito dello spazio, che si è come contratto, perdendo il suo significato. Lo spazio oggi è qualcosa da occupare, da superare o da ammirare, a seconda della sua espressione: ora spazio abitativo, ora spazio puramente geografico, ora spazio naturale.


In passato lo spazio era carico di un significato più profondo, che ricordava all’uomo della sua dimensione finita e limitata: era lo spazio invalicabile, lo spazio del viaggio, che differenziava (e perciò stesso valutava) la terra, i costumi, la lingua.


La scomparsa della geografia coincide con la svalutazione del suo significato, e genera una conseguente perdita di sapere.

Sapere che oggi andrebbe ritrovato riappropriandosi di – o forse addirittura ricostruendo – una geografia personale (in quanto non esiste una geografia collettiva se non istituzionalizzata), foriera di valori per ognuno noi, singolarmente preso.


Una geografia più che personale, intima; una geografia che non può essere urlata in piazza, contro un’altra geografia diversa e opposta; una geografia del tutto a-politica, poiché non va costruita a livello della polis, ma a livello dell’anthropos.


Non stupisce, ma piuttosto inquieta, che oggi i movimenti politici più forti facciano leva su un’ideologia vecchia quasi 100 anni quale quella del Blut und Boden per assicurarsi un successo che altrimenti non avrebbero.


Costruire e costruirsi a tavolino una geografia politica posticcia per far presa su una massa dimentica delle proprie radici significa innanzitutto ignorare che la geografia, per avere un qualche senso positivo scevro da campanilismi o, ancor peggio, razzismi e soprattutto per aiutare la formazione dell’individuo deve essere personale, ovvero in fieri.

giovedì 9 settembre 2010

Generazioni a confronto. Devianze da Paolo Nori.


La cornice non era delle migliori per godersi lo spettacolo, ma ci accontentiamo.

Paolo Nori alla festa del PD è un bel regalo, perciò bando a inutili critiche: potrei descrivere gli occhi rapiti dei pochi spettatori per fugare ogni dubbio su interesse o efficacia.

Nori è un incredibile narratore. Qualità rara, rarissima, che non si può coltivare né acquistare col tempo: o c’è, oppure la gente non ascolta, sbadiglia, si perde nei suoi pensieri e chi si è visto, si è visto.

È vero, ci sono e ci saranno sempre ottimi narratori su carta che in pubblico faticano ad esprimersi (famoso il caso di Calvino); non ne faccio una colpa. Ma credo sia innegabile che oggi una delle doti più rare, e perciò stesso, preziose, sia quella di riuscire ad arrivare al pubblico più ampio possibile, domando i mezzi di comunicazione per farsi ascoltare; e, soprattutto, raccontare senza farsi influenzare dal contesto.

La presentazione del nuovo libro, I Malcontenti, a metà strada tra lettura pubblica e recitazione, è filata liscia per una buona oretta, trascinata dall’accento parmigiano buffo e salmodiante di Nori, che racconta come è nato il libro, il punto di vista dei vari personaggi, esperienze realmente accadute, la Bologna in cui vive, i pensieri dei protagonisti, tutto in unico flusso di (in)coscienza in cui reale e fittizio di rafforzano vicendevolmente.

Non voglio raccontare del libro, né della pelata di Nori, né delle persone presenti. Voglio piuttosto parlarvi di un’idea che mi ha colpito più delle altre – anzi, a pensarci bene non so nemmeno se sia sua o di un suo personaggio: e sarebbe importante saperlo, perché gli scrittori non condividono – quasi – mai le idee dei loro esseri di carta.

Il ragionamento è semplice, di carattere generazionale. Come tutti i discorsi sul passare del tempo, affascina il pubblico, poiché sembra innalzare il discorso quotidiano, il meschino evento di tutti i giorni alla dimensione storica, nobilitandone il carattere.

Riporto quasi testualmente:

Chi è nato negli anni ’20 e aveva vent’anni negl’anni ’40, doveva combattere perché servivano braccia per difendere la nazione. Chi è nato negli anni ’30 e aveva vent’anni negl’anni ’50, doveva lavorare, perché c’era da ricostruire la nazione. Chi è nato negli anni ’40 e aveva vent’anni negl’anni ’60, anche lui doveva lavorare perché c’era il boom economico e non si poteva non lavorare. Chi è nato negl’anni ’50 e aveva vent’anni negl’anni ’70, doveva protestare perché il modo in cui era stata ricostruita la nazione non andava più bene. Infine, chi è nato negli anni ’60, e aveva vent’anni negli ’80, non doveva penare per lavorare, ché c’era già lavoro pronto, né protestare, ché tutto andava bene; insomma non doveva romper troppo i maroni. *”

[ * Tutto questo calcolare era inserito in un contesto più ampio, che ho colpevolmente dimenticato di citare: la tesi era che la disperazione non è solo una forza negativa, ma può divenire il motore di miglioramento delle condizioni di vita.]

Perché poi occorra per forza prendere in riferimento i vent’anni di una persona come se fossero quelli i più importanti, non è dato a sapere; ma il discorso è indubbiamente interessante.

Come al solito, ho subito riflesso l’argomento per la mia generazione: chi è nato negli anni ’90, e aveva vent’anni negli anni ’10, come verrà ricordato?

Si tratta qui di cercare di ricostruire un senso di questi ultimi 10-20 anni, compito immane per il motivo stesso che il tempo non è ancora passato, ci è come appiccicato addosso e non possiamo comprenderlo appieno.

Tuttavia si possono isolare delle date importanti, avvenimenti che hanno sicuramente influito sulla vita di tutti i ventenni di oggi.

D’obbligo ricordare la caduta delle Torri Gemelle (“la più grande opera d’arte della Storia”, secondo Stockhausen): eravamo piccoli, è vero, ma non abbastanza da ignorare l’assurda pregnanza storica di quell’avvenimento. Alcuni hanno dapprima scambiato il vero con il fittizio, è pensavano quelle immagini frutto di un regista visionario; questo tuttavia è un epifenomeno collegato alla spettacolarizzazione del mondo (come dimenticare il povero Truman intrappolato nella sua gabbia dorata), e non al movimento della Storia.

Il passaggio dalla lira all’Euro, gli odiosi problemi di aritmetica sul cambio, che venivano impartiti alle elementari per “preparare i ragazzi al futuro” – come se sapere il valore dei soldi assicurasse poi la loro venuta; il numero magico 1.936,27 – e i genitori che ci dicevano semplicemente, “costa tutto il doppio!

L’ascesa di Internet: questa volta davvero troppo esigui i nostri anni per capirla fino in fondo, attestata ai nostri occhi da siti che diventavano sempre più belli e colorati, e dalle prof. dicevano “non scaricate da internet!”, dalla scuola che reinventava un ripostiglio nella caldissima “aula computer” e dalle rapide nonché fallimentari visite a fiato sospeso sui “siti porno”.

Lo scoppio della cosiddetta Seconda guerra del golfo, l’invasione dell’Afghanistan prime e dell’Iraq poi, in quei paesi lontani che occupavano nell’immaginazione dei più spazi desertici e insignificanti. Le facce barbute di Osama bin Laden, di cui ritrovavamo il nome scritto sulle penne a scuola (!) e grugno di Saddam Hussein.

Il dilagare del terrorismo, prima in America, poi in Spagna, quindi in Inghilterra: la paura degli aerei e dei volti intercontinentali; l’angoscia constante della carica esplosiva, il sospetto del diverso, e delle religioni diverse.

Il G8 di Genova, i visi insanguinati, le botte, Giuliani.

La paura per malattie incurabili, pronipoti della pesta nera, che sarebbero arrivate spazzando via l’intera civiltà umana: ora la SARS; ora l’aviaria; ora la suina; ora l’H1N1 – e non arrivavano mai.

La guerra infinita in Israele, il Conflitto per eccellenza, i visi stravolti dei palestinesi dopo il fosforo bianco, i giovani e spaesati ebrei sui carri armati, pronti a far fuoco ai loro compagni di scuola; la morte di Arafat, proprio lui che sembrava non dover morire mai.

Il crollo degli ideali politici, iniziato col Muro e proseguito in Italia con Mani Pulite, o Tangentopoli, versione più complicata e noiosa del Monopoli, almeno per i più piccoli.

L’allarmismo ecologico, l’effetto serra, i CFC, lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello del mare, il catastrofismo del “giorno dopo domani”, l’attesa spasmodica dell’Armageddon finale e le sue innumerevoli testimonianze prima in Umbria, poi in Indonesia, a New Orleans, in Abruzzo e ad Haiti.

I martiri della mafia, Falcone, Borsellino, da una parte; e la schifosa connivenza dei governi, gli intrallazzi, la completa amoralità di ogni partito politico.

La faccia di Berlusconi che da quando abbiamo memoria continua a governare la nostra penisola, come un grande fratello ridanciano e barzellettiere – e l’ascesa della Lega, questi strani esseri verdi e grassi che dicevano parolacce in televisione.

La morte del Papa, i suoi funerali, l’odio quasi istintivo che il povero (si fa per dire) Ratzinger emanava naturalmente e suscitava nel pubblico (“Quel tedesco? Papa?! Oh mi signor!”, citazione a memoria di mia nonna, pia e fedele volontaria a Santa Teresa.)

Obama, il primo presidente americano nero. “Non dura due mesi, gli sparano prima.”

E Veltroni che gli ruba il motto: “Yes we can”. Poi abbiamo capito che da noi non si poteva fare.

E quindi? Quelli nati nel ’90, segnati fin dalla nascita dalle infinite crisi economiche, dal crollo della superpotenza e del sogno americani, dalla morte della politica, dal terrorismo globale, dal precariato?
Quelli che avevano vent’anni negli anni ’10, all’inizio di un secolo nato nero, senza troppe prospettive per il futuro, giovani eppure già disillusi e cinici come cinquantenni, svogliati, convinti dell’inutilità di tutto quello che li circonda, scettici ma privi di domande?

Sembra di vivere la tragicomica seconda caduta d’un redivivo positivismo: la sfiducia per il futuro è la stessa; le stesse certezze di progresso e infinito miglioramento che crollano.

Forse, chi è nato negli anni ’90, e aveva vent’anni negli anni ’10, l’unica cosa che poteva fare, era vivere la propria vita senza troppe illusioni – senza credere in essa.