sabato 16 ottobre 2010

Desiderio di memoria fedele, o Io immortale


[Per ogni sorta di chiarimento sul progetto generale rimando al primitivo abbozzo dello schema così come lo scrisse Iacopo più di tre mesi fa e alla sua compiuta e più recente presentazione.
Come già ripetuto, state per leggere una traccia teorica, senza pretese di esaustività. Se lo trovate eccessivamente complesso, saltatelo.]


Insieme alla tensione verso una forma mitica che sappia ricondurre gli aspetti del reale ad una sfera genuinamente simbolica, agisce sulla causazione dell’opera artistica il forte desiderio di memoria fedele, che costituisce una vera e propria necessità biologica dell’Io artistico.
Legato essenzialmente all’istinto di sopravvivenza e a quello conseguente di perpetuazione della specie, il desiderio di memoria (qui momentaneamente “sganciato” dall’aggettivo fedele che, come vedremo, rappresenta una precisa peculiarità del fare artistico) costituisce quindi l’aspetto più strettamente biologico del finalismo agente in itinere sulla causazione artistica.
A differenza della tensione verso il mito, la cui spinta omogenea si riflette nel progressivo piegarsi della linea artistica verso l’utopica chiusura del cerchio*, il desiderio di memoria fedele assume inizialmente i contorni tipici di una profonda necessità materiale per elevarsi poi, con la spinta verso la “fedeltà” di tale proposito, in direzione di un bisogno più marcatamente artistico e quindi spirituale.
[* Per la rappresentazione geometrica del fare artistico si veda l’intervento precedente sull’Io mitico.]
La fedeltà rappresenta la presa di coscienza del Soggetto artistico riguardante la vera natura della propria opera; da questa consapevolezza scaturisce il desiderio di essere ricordato attraverso una produzione che rifletta nella maniera più veritiera possibile le intenzioni proprie dell’artista*.
[* Rifacendoci alla definizione di Io artistico come di “demiurgo” della propria opera spiegata nel precedente intervento, si potrebbe descrivere la tensione verso la fedeltà della memoria come il desiderio di mantenere una rigorosa ortodossia artistica attraverso il rifiuto di ogni eresia o pratica eterodossa che possa snaturare l’essenza del Soggetto creante deviandola verso territori che ne rifletterebbero, al contrario, solo gli aspetti rifiutati o, a seconda dei casi, rinnegati.]
La presa di coscienza del valore reale della propria opera, e quindi dell’intima intenzione ad essa connessa, è, così come l’azione curvante del finalismo mitico, un aspetto dal carattere utopico, in quanto si può realizzare solo in maniera parziale o virtuale. Tale consapevolezza si attua in continuazione lungo il percorso del Soggetto artistico che può, di volta in volta, ri – scoprire un aspetto fino a quel momento mantenutosi nell’ombra, e mutare di conseguenza la sua idea riguardo al progetto artistico in via di realizzazione.
Certamente, un’idea sul senso generale della propria opera può condurre ad un’esclusione degli elementi più grossolanamente eterodossi, ma in ogni caso questa operazione di selezione e di valutazione sul proprio percorso non può mai dirsi totalmente conclusa*.
[* La costruzione del circolo mitico e il desiderio di memoria fedele concorrono all’edificazione di un centro in cui si riflettano simultaneamente tutti gli aspetti dispersi della realtà effettuale, assimilati così ad una unità dal carattere specificamente spirituale; tale azione simultanea verso l’affermazione dell’unità potrebbe essere rappresentata dal simbolo del quadrato inscritto nel cerchio, assimilabile, secondo quanto riportato da René Guénon**, alla raffigurazione tradizionale dell’equilibrio finale. Senza entrare troppo nello specifico, ma solo per offrire un ulteriore spunto di riflessione, basti sapere che, stando all’interpretazione dell’esoterista francese, il cerchio rappresenta l’inizio di un ciclo, lo sviluppo delle possibilità (nel nostro caso, l’espansione che dal centro, ovvero l’Io artistico, muove la volontà demiurgica verso l’esterno poi determinato nella forma dell’opera d’arte), mentre il quadrato in esso racchiuso simboleggia il completamento di tale sviluppo, la cristallizzazione che conduce all’equilibrio finale per il ciclo considerato. Se per “ciclo” s’intende la vita artistica dell’autore, la circonferenza starà allora ad indicare il dispiegarsi della sua volontà in diverse direzioni e quindi in altrettante opere d’arte (tutte caratterizzate, ricordiamolo, da una costante tensione al mito) e il quadrato, assimilato all’elemento minerale, solido per eccellenza, rappresenterà la presa di coscienza sul proprio operato e la sua successiva chiusura in una forma che sia perfettamente coesa in ogni sua parte, definitivamente cristallizzata e immune da qualsiasi modificazione da parte di azioni esterne.]
[** Si vedano a questo proposito “L’esoterismo di Dante” e “Simboli della Scienza sacra”, entrambi editi in Italia da Adelphi.]
Riassumendo: l’aspetto finalistico della creazione artistica tende, nella sua duplice azione mitica e mnemonica, all’edificazione e al consolidamento di un centro che sappia garantire unità delle parti, e che costituisca al tempo stesso una fedele immagine simbolica capace di tramandare alla posterità dialogante le reali intenzioni dell’artista e di rendere così tale patrimonio “immortale”.

mercoledì 6 ottobre 2010

Introduzione a "Ravenna, la città che vorrei" di Fabrizio Varesco

[Un pensiero a tutti gli spettatori che si stanno godendo la prima del documentario di Fabrizio sulla "nostra" città a San Domenico, nonché agli amici che hanno partecipato alla sua realizzazione; mi spiace non esserci, perciò vi dedico simbolicamente questo intervento.

Mi è stata data l'occasione di scrivere un breve testo come introduzione al documentario, che sentirete recitato in apertura (anche se parzialmente modificato) dalla voce di Tondini. Si tratta di una sorta di carrellata istantanea, di una descrizione incerta di varie zone o aspetti di Ravenna, balbettante ed alleniana.

Lo pubblico di seguito per varie ragioni: sana pubblicità (potete vederlo gratuitamente a San Domenico, in fondo a Via Cavour, vicino al Mercato Coperto); riconoscenza al Varesco per l'opportunità; integrazione, anche se indiretta, agli interventi precedenti sulla geografia; per far conoscere la versione primitiva dello scritto.

Sarebbe stimolante sapere le impressioni che ha fatto il documentario ai suoi "primi" spettatori:lo spazio dei commenti al post è aperto anche e soprattutto a vostre possibili interferenze circa il lavoro visivo.]


"Ravenna, Ravenna.

Capitolo uno.
Era nato e cresciuto a Ravenna. Amava tutto della sua città: le dimensioni, la storia, il clima, il centro.
Non  avrebbe mai potuto immaginare la sua vita senza – non sarebbe mai riuscito ad immaginarsi...

No, no, no. Non va bene per niente.
Allora, ricominciamo.

Ravenna era la sua città. Ogni strada, ogni più insignificante particolare del paesaggio suscitava in lui antiche emozioni. Era come se ogni pietra fosse impregnata di memorie ed esperienze.
Si ricordava di quella volta con lei, di sera, a passeggiare lungo le inferriate di San Vitale. Come era bella! D’un tratto s’avvicinarono, e –

Che cosa c’entra? Ci mancava solo la solita storia d’amore.
Dai, sforzati un pochetto di più, che ti costa?

Più precisi, più analitici. Dati: ci vogliono dati. Si tratta o no di un documentario?

Ravenna: superficie 652 km²;  altitudine: 4 metri sul livello del mare; aopolazione: 157.479 abitanti; 8 monumenti dichiarati patrimonio dell’umanità; lavoro: tasso d’occupazione maschile 67% - 35° posizione nazionale; tasso d’occupazione femminile 61,3% - 6° posizione nazionale; popolazione di cittadinanza straniera: 17.190 – tasso d’immigrazione 28,1...          

Dio mio, che distacco! Inizio troppo freddo. I numeri spaventano – non funziona.
Concentrati, raccogli le idee, dai un qualche taglio alla descrizione:

La Ravenna Antica: sì, la capitale storica, dissoluta, l’imprendibile roccaforte bizantina, circondata dal fango e difesa dalle zanzare. Ancora con la Storia! No e poi no.

La Ravenna industriale: il deserto rosso cigolante e sbuffante, ricoperto di scheletri ferrosi e nuche d’altiforni, la Darsena, il puzzo... No, passato, cliché.

Allora proviamo con la Ravenna edonista che ride si droga e s’ubriaca i sabati sera d’estate: le macchine a passo d’uomo in cerca del parcheggio, la sabbia nelle scarpe, le strilla delle ragazzine, le facce impallidite davanti agli etilometri – peggio di prima.  Retorico, verboso.

No, allora, la Ravenna della Resistenza: i vecchietti che parlano dialetto al bar, in stazione, e che rischiano i frontali tagliando le rotonde, le vecchine che sparlano sotto la mia finestra del loro vicino.

E allora perché non la Ravenna Immigrata, che aiuta a parcheggiare in piazza Kennedy e vende collanine d’estate, in riva al mare? Fosse così semplice...

Forse la Ravenna Limitrofa? I lidi, i paesini dimenticati, Savio, San Zaccaria, le prime colline, Bertinoro, la dolce campagna romagnola?

Oppure la Ravenna dei luoghi comuni, mosaici e Mirabilandia.
Ah sì, proprio un bel documentario verrebbe fuori.

Fermati un attimo.
Dovevi scrivere un’introduzione e sei riuscito soltanto a raccozzare memorie d’infanzia o immagini ricorrenti, con un disordine che non si lascerà domare facilmente.

Forse una sola introduzione non basta.
Per capire una città occorre raccontarla più e più volte, da diverse voci, in diversi tempi – e l’immagine composta dal coro delle voci, quella sarà la vera città."

sabato 2 ottobre 2010

Tensione al mito, o Io mitico

[Per ogni sorta di chiarimento sul progetto generale rimando al primitivo abbozzo dello schema così come lo scrisse Iacopo più di tre mesi fa e alla sua compiuta e più recente presentazione.
Come già ripetuto, state per leggere una traccia teorica, senza pretese di esaustività. Se lo trovate eccessivamente complesso, saltatelo.]


Gli interventi precedenti hanno analizzato i tre stadi necessari alla causazione artistica, ovvero i processi legati alla creazione di un’opera d’arte: principio del discrimine o Io* distaccato, in cui il soggetto, o motore artistico, si distacca dalla società di provenienza per fondare o riappropriarsi di una voce strettamente personale; Dialogo e Epoché della Tradizione o Io dialogante, in cui il soggetto, reso indipendente dal suo allontanamento, instaura un dialogo propositivo con una Tradizione artistica a lui precedente o contemporanea; il nodo o Io legato, in cui l’individuo, maturato attraverso il distacco e il dialogo con la Tradizione, torna alla società da lui precedentemente abbandonata, intesa qui come soggetto fruitore dell’opera d’arte (a questo proposito si riveda la definizione di “bifrontismo artistico”).

[* La doppia denominazione intende sottolineare l’importanza dell’individualità in ogni fase creativa (causazione) e nelle due finalità artistiche; non si dimentichi, di conseguenza, il ruolo centrale giocato dall’aspetto biografico in un’opera d’arte.]

L’analisi razionale del processo creativo deve, a questo punto, tenere conto della differenza che corre tra causazione e finalità artistica; entrambe vanno a comporre quel processo unico (l’arte) che si svolge su un piano pratico, caratterizzato da un preciso “hic et nunc” riguardante di volta in volta il distacco, il dialogo, ecc. e, contemporaneamente*, su un piano ideologico, e che mira, in ogni sua particolare determinazione, a un obiettivo fondamentale (la creazione di un mito) e al soddisfacimento di una necessità biologica (il desiderio di memoria fedele**).

[* Il fatto che si arrivi solo ora ad analizzare le finalità artistiche è fuorviante e non deve indurre al pensiero che l’aspetto finalistico si attui solo a causazione conclusa; in realtà, il desiderio della creazione del mito e quello di memoria fedele accompagna l’Io artistico in ogni frase e parola, in ogni pennellata, in ogni nota e scalpellata. L’analisi così condotta vuole solo esemplificare separando atto e finalità, ma si tenga conto della compresenza costante di questi aspetti.]

[** Per non complicare le cose, in questa sede approfondiremo solo l’aspetto mitico del fare artistico, rimandando ad un secondo momento la spiegazione riguardante l’aggettivo “fedele” associato a “memoria”.]

Se la causazione spiega le condizioni necessarie alla costruzione del “corpo” artistico, la duplice finalità costituisce l’”anima” di tale corpo, indicando l’interesse che sta dietro all’atto pratico, la sua essenza più vera: la ricerca di un senso che sappia ricondurre all’unità (ecco un termine sulla cui importanza i critici di ogni tempo hanno speso migliaia e migliaia di parole) i sentimenti contrastanti dell’Io riguardo alla vita, che sappia contenere la dispersione del reale in un corpo circolare e perfettamente coerente*.

[* La circolarità e di conseguenza la perfetta coerenza sono però un’utopia.]

Tale senso, o desiderio di unità, si cerca sul piano biologico del desiderio di memoria e su quello più strettamente artistico della creazione, o meglio costruzione, di un mito, che si potrebbe raffigurare a livello geometrico come una circonferenza; tutti i punti del cerchio devono coerentemente rifarsi al centro (l’Io artistico, o divino, in questo caso), che è sorgente di ogni raggio e anche fine di ogni punto, che ad esso deve per necessità tornare*.

[* L’uso del termine “necessità” ha una precisa giustificazione: così come nella sfera religiosa ogni cosa è creata per necessità da un’entità necessaria (Dio), così è nella sfera artistica; si è parlato di arte come di una necessità profonda che plasma la materia in un modo necessario, che “non può essere altrimenti”. L’artista è quindi il Dio della propria opera. Si potrebbe parlare di una sorta di Teologia artistica. L’aspetto demiurgico dell’artista è già stato affrontato, per esempio, dal Tasso nei suoi “Discorsi sull’Arte poetica”; non si aggiunge pertanto nulla di nuovo rispetto a quanto già detto in passato.]

Tale forma specifica del mito artistico risponde alla volontà di costruire un corpo che rifletta la circolarità degli eventi cosmici (si pensi al succedersi delle stagioni, al ciclo vita – morte, al giorno e alla notte, ecc.) e che si riveli, al contempo, incorruttibile, proprio perché conchiuso in un guscio* capace di superare le barriere del tempo e dello spazio e di tendere a quella Tradizione da cui ogni artista deve attingere per potersi definire tale.

[* E’ interessante notare come la tensione costante ad una forma chiusa sia la ragione essenziale dell’emozione umana di fronte all’opera d’arte. L’opera artistica rappresenta la tentata realizzazione di questo luogo compiuto, un tentativo tipicamente umano poiché è proprio l’uomo l’unico essere capace di definirsi nella sua finitudine formale; per dirla seguendo la metafisica indù, l’uomo, in quanto relatività, è “qualificato” (in sanscrito, saguna) e “concepito distintivamente” (savishesha) mentre Brahma, il principio supremo a cui si rifà la metafisica pura, è “non qualificato” (nirguna) e “al di là di tutte le distinzioni” (nirvishesha). La non-forma, la non-definizione è quindi un attributo divino e l’essere umano, per questo, si emoziona nel riconoscere i chiari confini di un’opera che sappia raccogliere la sua essenza, che, ricordiamolo, è in parte definibile (e quindi conoscibile) nel corpo e in parte astratta, tendente a Dio, e quindi inconoscibile. La forma artistica è quindi la sintesi, in quanto simbolica, del corpo e dell’anima umana, rappresentazione geometrica di un mistero in costante nascondimento. Ricapitolando: l’uomo si emoziona di fronte alla forma poiché è la forma l’oggetto primo della conoscenza umana.]

L’arte si può quindi intendere come il tentativo di chiusura di un cerchio, una linea curvata che sappia conciliare gli opposti e “redimerli” in un hortus conclusus riparato dalle offese esterne e insieme aperto al confronto con un pubblico dialogante.