[Libera interpretazione delle riflessioni di una camminata filosofica, colpevolmente in ritardo e sicuramente manchevole.]
Sull'Appennino imolese, nei pressi di Casalfiumanese, le colline sembrano fatte di una sostanza diversa, più morbida, meno terrena.
Da lontano gli altipiani si presentano allo sguardo lisci, tesi, puri. Il colore bianco della terra è dovuto alla buona percentuale di gesso – la vena compare alla vista solo poche vallate più a est. I calanchi scavano lunghi solchi, creando contrasti di luce curiosi: tutto è silenzioso, come raccolto in se stesso.
Si cammina per sentieri impervi, a strapiombo sulla vallata. La vista è superba: nelle giornate chiare si può vedere fino al mare. Come tutti i sentieri di collina, dopo qualche minuto di camminata (invero molti pochi se si è inesperti, come il sottoscritto) perdi l'orientamento: se hai una guida ti lasci condurre, godendoti il panorama e il profumo dei nespoli; solo, devi metterti a pensare, ricordare il percorso, tenere a mente la via.
Camminare e pensare: dittico che ha avuto una grande fortuna, sembra. Soprattutto nel pensiero speculativo. C'era chi faceva lezione camminando. C'era chi diceva che mettendo in moto le gambe, si metteva in moto il pensiero. C'era perfino chi non era capace di pensare se costretto all'immobilità, davanti alla scrivania. C'era anche chi scriveva trattati pedagogici camminando tra i boschi. C'era infine chi ha abitato nei boschi.
La mente va allenata, come il fisico; fare esercizio mentale significa muoversi, andare verso l'oggetto – Gegenstand – che ci sta davanti, capirlo, superarlo. “Solo se in cammino il pensiero ha un senso, un scopo” sembrano dirci i pensatori di cui sopra. E può essere anche il puro e semplice vagare, non importa: l'immobilità è morte del pensiero. Errare è umano, in entrambi i sensi etimologici del verbo.
Cammino, questo, che non è sempre facile né tantomeno già tracciato. Aprire nuovi sentieri mentali e scontrarsi col Problema (πρόβλημα, sporgenza, quasi come quella del sasso, che spunta invisibile dalla terra e ci fa cadere): questa è l'attività della filosofia.
La sua è la strada a tentoni, con le mani in avanti, come quando si cammina al buio.
Quanto di più lontano si possa immaginare dalla strada lastricata e illuminata della fede. Il credente è già indirizzato. Vede il Problema e lo riconduce a un principio, lo accetta, lo supera.
Il filosofo, l'uomo del dubbio, è solo, senza guida: inciampa, procede con fatica (“la strada del dubbio e della disperazione”; così descriveva Hegel la sua Fenomenologia). Il Problema lo deve sciogliere con le sue stesse forze, ed ogni tentativo è un tentativo nuovo.
Ogni sentiero è un sentiero vergine, perciò stesso incerto.
Forse già sappiamo che il Problema non sarà risolto una volta per sempre: può essere ipocritamente eluso, dimenticato e resterà lontano, certamente scomparirà per un qualche tempo: ma si ripresenterà ogni volta tra le pieghe delle realtà, nell'orrore del quotidiano.
Allora perché intraprendere un cammino così faticoso, equidistante e dalla certezza religiosa e dalla pretesa immodesta di verità di qualche scienza? Perché iniziare un cammino che quasi certamente non sarà sicuro, di cui non conosciamo lo sbocco?
Perché il sentiero che avremo aperto sarà un sentiero nostro, autonomo, indipendente. E se non ci porterà da nessuna parte, o ci riporterà al punto di partenza, ancora e ancora, almeno avremo una vera certezza (misera e grandiosa cosa al cospetto delle migliaia di false certezze degli altri): di aver fatto coincidere la nostra vita con le nostre azioni.
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