sabato 9 aprile 2011

L'arte e il male. La scelta di Capote.

Abbiamo indagato, piuttosto frettolosamente, i nessi che legano l'arte e il male, ovvero la capacità della prima di rendere più accettabile e lenire l'assurdità del secondo – spesso attraverso un processo di dolore condiviso.

Grazie il fenomeno artistico abbiamo la certezza che il Male Assoluto sia una fantasia per semplificare i concetti e dividere il mondo in buoni e cattivi, senza problematizzare, dimenticandoci di quella “zona grigia” in cui è possibile scindere il bene dal male, poiché entrambi costitutivamente interni alla natura umana (cfr. a proposito il capolavoro di Levi I sommersi e i salvati).

Il fenomeno artistico, inteso come il più radicalmente umano dei linguaggi che disponiamo, accetta questa zona grigia e la racconta. Viene così evitato in partenza il rischio di assolutizzare il male in una condanna univoca, privilegiando la ricostruzione dell'evento, la biografia dei personaggi, il contesto ambientale; come se si volesse avvertire il fruitore della banalità di questo male (altro lavoro, quello della Arendt, che analizzeremo in questa serie di interventi).

In Cold Blood, forse il lavoro più importante dell'autore americano Truman Capote, è solo uno degli infiniti esempi che si possono portare a sostegno delle tesi di cui sopra, ma di formidabile efficacia per capire la potenza dell'etica del racconto (sottoinsieme dell'etica dell'artistico).

Capote sceglie di raccontare uno dei più efferati delitti della storia americana; raccoglie per anni interviste e segue le indagini del Kansas Bureau of Investigation; sistematizza i materiali e mette ordine laddove sembra impossibile portarvelo.

Il risultato è un romanzo sperimentale, pubblicato nel 1965-1966, che aprirà strade inedite nella storia della letteratura, incoraggiando generazioni di artisti a raccontare questo mondo senza bisogno di inventarne uno nuovo. Si tratta di fare del crudo dato reale vera e propria opera d'arte, sostituendo all'invenzione la documentazione, al non-senso reale il senso narrativo.

Non si deve pensare però che il lavoro di Capote sia una semplice ricostruzione degli eventi o, peggio ancora, un'inchiesta giornalistica dilatata. No, la novità sta nel tessuto narrativo che sostiene l'opera, che dà voce ai personaggi e permette al lettore di conoscerli.

Capote è un regista che taglia, mette a fuoco, contrappone, mescola di continuo le due storie (quella degli assassini e quella delle vittime) senza mai cadere nel patetismo o nella spettacolarizzazione giornalistica.

Allora vediamo che la famiglia dei Clutter, a prima vista la famiglia tipo della provincia americana dei gloriosi fifties (sana, bella, ricca, pia) cela in seno problemi famigliari evidenti e gravi: la depressione della madre, il potere unilaterale del padre-padrone, l'isolamento del figlio.

Allo stesso modo, gli assassini sono umanizzati, laddove la cronaca rischia di demonizzare: il lettore scopre i retroscena esistenziali, l'infanzia difficile di un personaggio incredibilmente umano come Perry Smith, i suoi sogni, le sue paure; i disturbi mentali del compare Dick, il sadismo, il sogno americano di successo e donne che diventa patologico e sfocia in disastro.

Perfino il processo viene sviscerato nel profondo, facendo emergere le incongruenze dell'accusa e le titubanze della difesa, il fanatismo religioso del giudice e di alcuni giurati, l'intenzionale mancanza di analisi accurate delle perizie psichiatriche e delle biografie dei due assassini.

Ed è alla fine della lettura – che coincide con la fine materiale dei due assassini – che il lettore riesce a comprendere un delitto altrimenti assurdo, come quello dell'uccisione di un'intera famiglia per nulla.

Magistrale in questo caso, nonché perfettamente riuscita a livello stilistico, è la decisione di Capote di far raccontare il delitto vero e proprio non alla voce narrante e nemmeno agli investigatori che stanno dalla parte della giustizia, ma allo stesso carnefice.

Qui il potere etico del fenomeno artistico raggiunge vette inattese: il racconto raccapricciante dello sterminio di una famiglia esce dalla bocca di colui che lo ha compiuto.

La personificazione del lettore col colpevole è immediata. La paura di essere scoperti dalla polizia, le vertigini provocate da troppo alcool, la fretta di trovare i soldi che non vogliono comparire, cinque persone che piangono e supplicano di risparmiarli, il mantra ripetuto più volte “no witnesses”: tutto questo umanizza l'evento altrimenti Assurdo, e convince il fruitore che i responsabili del delitto non sono bestie ma uomini come lui.

Qui però occorre fare attenzione: Capote non giustifica mai gli assassini. Umanizzare non significa giustificare: non è questa la finalità del fenomeno artistico. Nessuna giustificazione, ma racconto il più possibile umano, quindi comprensibile.

Capote vuole conoscere gli assassini e farli conoscere al suo pubblico, perché sa che attraverso una narrazione dei fatti (quella che abbiamo più sopra chiamato narrazione etica) sapientemente orchestrata, il lettore può arrivare almeno a comprendere quello che è successo, senza lasciarsi distrarre della condanne unilaterali dell'opinione pubblica.

È questo il nodo etico ed estetico: il lettore impara la moderazione, il gusto della comprensione umana, il sentimento della pietas non tanto religiosa, quanto civile.

Non a caso il libro si apre con una citazione importante, in francese medievale: “Frères humains qui aprés nous vivez, | N'ayez les cuers contre nous endurcis, | Car, si pitié de nous povres avez, | Dieu en aura plus tost de vous mercis”.

È la prima strofa della Ballade des pendus, capolavoro del poeta Villon, che similmente a Capote avvicina i lettori agli impiccati, ricordando attraverso la loro stessa voce che sì, hanno commesso ingiustizia, ma anche nella colpa rimangono esseri umani.

Avere pietà per il colpevole significa riconoscersi in esso e comprenderlo, pur rimanendo saldi nella sua condanna.
Abbiamo già detto e ripetuto che l'empatia dell'artistico si esprime in primo luogo nell'umanizzazione dell'Assurdo: queste non sono che celebri conferme di questa empatia.

Concludiamo. Il libro di Capote ebbe fin da subito un grande successo di pubblico e critica. Tuttavia la novità degli stilemi narrativi fece fatica ad imporsi in un primo momento, e il filone della “narrativa etica” faticò ancora qualche tempo ad emergere, sovrastata dalla crescente congerie di prodotti post-modernisti.


Ma è proprio in questi ultimi anni che il romanzo di Capote sembra essere ritornato al centro delle discussioni letterarie in Italia, elevato a padre putativo di altri importanti lavori spesso etichettati, del tutto arbitrariamente, come non-fiction, parole che non riusciamo proprio a comprendere.

Assistiamo ad un'ulteriore prova del grande rovesciamento della realtà pronosticato già da Debord: il romanzo che viene costruito sul reale diventa non-fiction, e non il contrario, come invece sarebbe più normale che fosse: è il romanzo fantastico che dopotutto dovrebbe essere non-reale. La fiction è misura della realtà, non più il contrario.

Ma questo discorso apre una porta che non abbiamo tempo di attraversare.

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