Ometto basso. Pancia pronunciata, occhi tristi.
Un dito in meno: l'anulare, mano sinistra.
Viso simpatico, tipicamente romagnolo.
Di tanto in tanto gli scappa qualche frase
smangiata in dialetto, subito corretta,
come se si vergognasse di parlarlo
con chi non è sicuro lo intenda bene.
Si parla di tutto e politica mentre mi taglia i capelli.
“E pensare che in teoria – in teoria – dovremmo
essere un paese civile. Mi hanno fatto una multa,
sono andato a reclamare, ho trovato chiuso
l'ufficio. A gni pos credar. Far perder tempo a chi
lavora, come niente fosse. Non gliene frega più niente
a nessuno. Quando ci siamo ridotti così?”
La domanda apre le risposte. Una lente
d'ingrandimento al contrario. Il discorso
prende un'altra piega. Balbetto confuso
qualcosa: il benessere ci ha addormentato.
“Forse.” Il cinismo, l'individualismo,
l'americanizzazione, la discontinuità dei Settanta.
Intorno la desolazione del centro commerciale
come uno sfondo teatrale. Famiglie e carrelli.
Parrucchiere dell'est trafficano con
forbici e lozioni. Un tizio legge il giornale
in disparte, lancia delle occhiate
mentre la tinta s'attacca. Famiglie e carrelli.
Potremmo essere dovunque. O invece
siamo da nessuna parte.
Lo guardo riflesso sullo specchio. Danza attorno
la mia testa. “Avete rovinato tutto. La vostra generazione
non ha saputo andare fino in fondo. Guarda cosa
ci avete lasciato.” Ricambia lo sguardo.
“Hai ragione. Ma come potevamo accorgercene?”
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