"Questo popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti e di cognati..."
Ennio
Flaiano, Diario
Notturno,
1951
Si
ha come l'impressione che qualsiasi analisi storica, politica o
sociologica sugli ultimi cinquant'anni del nostro paese, quale che
sia la sua tesi o la sua posizione, non possa fare a meno di
includere la riflessione di Pasolini.
È
un'impressione inquietante: la lucidità di Pasolini, da bussola
sembra quasi diventare percorso obbligato, necessario – e non si
capisce se la colpa sia nostra, della nostra mancanza di acume,
oppure sia della storia che non vuole passare. È come se questo
paese non voglia o non possa cambiare.
Questo
almeno suggerisce la lettura di un libro fondamentale, Il paese mancato di Guido
Crainz (Donzelli
editore, Roma, 2003):
dopo avere attraversato i fatti, le voci, la cultura italiana dal
1962 al 1992, l'ultimo capitolo (intitolato “La catastrofe”) si
chiude così:
“È forse necessario chiedersi se in questo percorso il Palazzo e parti significative del paese non si siano in realtà avvicinate, con quei tratti che Pasolini aveva delineato: lo spregio delle regole, il crescente disinteresse per i valori collettivi, un privilegiamento dell'affermazione individuale e di un gruppo che considera le norme un impaccio (e tratta chi le difende come un nemico da sconfiggere o da corrompere).”
Per
Pasolini, e siamo nella prima metà degli anni Settanta, c'erano due Italie contrapposte, l'Italia del potere, da un lato, del Palazzo, e
dall'altra la povera Italia proletaria del “grande cambiamento
antropologico”, che andava velocemente modernizzandosi, investita
da un industrialismo tanto feroce quanto inesorabile.
Crainz
parte da questa lettura euristica e, lungo il dipanarsi dei fatti,
delle citazioni, dell'argomentazione serrata, mostra come queste due
parti abbiano finito per somigliarsi sempre di più – o meglio,
come il “paese reale” si sia gradualmente appropriato dei vizi
tipici del Palazzo: corruzione, arrivismo, disinteresse del pubblico.
(In un lapsus calami
improbabile
ma significativo, avevo
digitato “furbismo”.)
Le
variabili di questo avvicinamento sono tante, impossibili da
enunciare in breve senza cadere in un'eccessiva semplificazione. Uno
di questi fattori, tuttavia, è talmente importante che non si può
fare a meno di citarlo: accompagna come una nota di sottofondo
l'intero volume, prima in sordina, poi sempre più forte, fino a
esplodere nei primi anni '90: la partitocrazia.
In
fondo, volendo azzardare un giudizio, la storia che fa Crainz non è
solo la storia di un paese che non ha saputo imbrigliare le sue forze
nella giusta direzione; no – è, più essenzialmente, la denuncia
del fallimento della “forma partito”.
La
degenerazione della politica in partitocrazia è il grande male che
ha determinato la minorità politica di questo paese di fronte ai
suoi vicini europei. Dagli anni '60 ai '90, l'unica autorità che non
è stata investita dal '68, è quella del partito. Al contrario,
proprio quando le critiche al clientelismo e alla lottizzazione del
potere si facevano più serrate e pressanti, era allora che questa
forma prendeva nuova forza sotto altre spoglie.
Fu
così già nel Sessantotto, quando il movimento studentesco, parole
di Foa:
“non si espanse nelle fabbriche, esso vi si chiuse, vi andò per prendere in prestito l'ideologia rivoluzionaria. Straordinarie energie giovanili furono disperse per riscoprire e ripetere la Dottrina; nel ricostruire, spesso come caricatura, quello che si era pensato di mandare al macero.”
La
critica all'autorità finì per rinforzare le fila, da un lato, di
una forma politica, quella del partito, che avrebbe potuto invece
essere superata; dall'altra dando adito all'ideologismo più becero e
pericoloso, quello della terrorismo rivoluzionario armato.
Lo
stesso Partito Comunista Italiano, secondo il Pasolini delle Lettere
luterane:
“un paese pulito nel paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico”,
l'oppositore
principale delle logiche clientelari democristiane, la voce
dell'opposizione intelligente, morale, intellettualmente avanzata,
dopo la vittoria del 1975 s'adagiò sulle stesse logiche
partitocratiche, azzerando quella distanza che lo aveva fino ad
allora distinto (e irrobustito) rispetto alle altre forze politiche.
A
causa dei cambiamenti internazionali – la primavera di Praga, la
scoperta dei gulag nell'U.R.S.S., il grande balzo maoista – e di
scelte politiche sbagliate quando non opportuniste – il
compromesso storico pianificato da Berlinguer – il PCI si trovò
diviso al suo interno e incapace di comprendere i bisogni del suo
elettorato: l'attenzione alle alleanze politiche aveva prevalso sul
contenuto ideologico.
Con
gli anni Ottanta e il successo del PSI di Craxi l'ingerenza della
politica nel mondo della finanza crebbe a dismisura; e, invalso il
sistema delle tangenti e delle lottizzazioni, fino a raggiungere
dimensioni patologiche non più contenibili, il tracollo dello stesso
arriverà con un discreto ritardo, nel 1992.
Non
si può dire d'altra parte che il quasi ventennio berlusconiano abbia
significato un'inversione di rotta: questo periodo storico – forse
non ancora finito – viene solo abbozzato da Crainz, che lo tratterà
più estesamente in Autobiografia
di una repubblica (Donzelli
editore, Roma, 2009). Con Berlusconi è l'ideologia che si svuota,
lasciandone intatta la struttura, ovvero il partito. È il potere che
svela la sua umanità in senso negativo: si toglie la maschera,
l'ultimo velo di autoritarismo, e si fa simile all'individuo medio; o
meglio, ai desideri e alle aspirazioni più beceri dell'individuo
medio.
Per
ultimo la Lega, che sulle prime seppe attirarsi anche inaspettate
simpatie (Giorgio Bocca, giustificando il suo voto al Carroccio,
ringrazierà “quei
barbari” per avere saputo
avanzare “in mezzo alle
macerie, alle inefficienze, al malcostume di una democrazia incapace
di correggersi”),
salutata come la demolitrice della partitocrazia; finita oggi
anch'essa, come ieri il PCI, soffocata dalle stesse logiche
partitiche, divisa e sconfitta nell'ideologia.
Ora,
bisogna chiarire che Crainz non attacca la forma partito in se
stessa, ma la sua degenerazione in “partitismo”, ovvero
l'esaltazione della conservazione passiva del potere, invece che del
suo uso attivo per la trasformazione della società.
Ma
dopo tale possente carrellata storica, dopo l'elenco dei ricorsi
storici, sorge nel lettore un dubbio inquietante: e se fosse proprio
la forma partito “in sé” ad essere il problema? Se fosse la
forma politica di questa repubblica ad essere sbagliata e
patologicamente portata alla degenerazione in clientelismo?
Certo,
è difficile rispondere alla provocazione, e qui non abbiamo la
possibilità di esaurire il tema; e, inoltre, sarebbe un'enormità
dire che la forma-partito non sia mai servita a nulla: ho sotto gli
occhi le immagini della Resistenza, organizzata in larga misura dai
partiti; dei grandi referendum degli anni '70; delle manifestazioni
in piazza, da Brescia a Genova.
D'altronde,
siamo storicamente abituati a pensare alla politica come campo di
scontro di forze partitiche. Machiavelli ravvisava in questo
conflitto di parti la garanzia di una società viva e in perenne
trasformazione. Bisogna però prendere atto che la forma partito
nell'ultimo mezzo secolo, è gradualmente diventata la causa prima di
una società atrofizzata e soffocata dagli interessi privati.
È
ancora possibile pensare ad una politica che non si fondi sul partito
per esistere? Poiché, una volta tramontate le ideologie, senza più
bisogno di un organo che protegga dogmi politici inattaccabili; in un
paese che tende naturalmente alla frammentarietà, alla divisione e
alla corruzione, che senso può ancora avere il partito? A cosa serve
davvero, dato che il voto, a causa della sua stessa struttura, non
esprime più la volontà individuale?
Ogni
volta che si attacca la forma-partito, si viene tacciati di
qualunquismo. Ora, credo sia manifesto ormai che i partiti si
differenzino gli uni dagli altri solo per la loro storia passata, e
in alcuni, rarissimi casi, per una coerenza personale o per la
cultura leggermente più elevata di alcuni loro componenti. Ma non
esistono più un pensiero di sinistra e un pensiero di destra forti e
contrapposti. E allora, se il ruolo del partito deve essere quello di
differenziare anche nella più totale somiglianza, viene naturale
chiedersi se forse questa ragion d'essere non sia tramontata da
tempo.
Forse
i contro hanno superato i pro di questa invenzione. Forse un giorno i
posteri si chiederanno meravigliati le ragioni della nostra
inveterata incapacità di pensare ad una politica diversa, senza
bisogno di mediazioni partitiche ormai inessenziali.
Nessun commento:
Posta un commento