[Articolo pubblicato originariamente per Pequodrivista]
Nei
filosofi di professione prevale un giudizio per lo più negativo
circa la questione della tecnica. Si passa da uno sfumato sospetto ad
un atteggiamento scettico, fino ad arrivare spesso a posizioni di
aperta ostilità.
Siano
essi di scuola heideggeriana o adorniana, seguano il pensiero critico
francese o quello cattolico fideista non importa: sembra proprio che,
per grande parte della filosofia, la tecnica ponga un problema
fastidioso, come una matassa difficile da sbrogliare, che si
preferisca accantonare sbrigativamente sotto l'etichetta riduttiva
della “volontà di potenza”.
Ho
sentito spesso, durante convegni, me ne ricordo uno formidabile di Franco Rella, liquidare la tecnica come fenomeno
principe della pericolosa volontà di potenza umana; volontà che va
di volta in volta a) negata, b) assecondata seppur con qualche limite
etico oppure c) deprecata in modo rassegnato, dato che non è
possibile estirparla.
Questo
giudizio negativo sulla tecnica e sui suoi prodotti è frutto di una
rivalità storica con la scienza che la comunità filosofica coltiva
da circa quattro secoli, ovvero da quel momento di crisi collettiva
da cui nacque la modernità. È stato infatti nel corso del Seicento
che la strada della filosofia e quella della scienza (termine che
emergerà solo nell'Ottocento) cominciano a dividersi, prima in modo
impercettibile, poi sempre maggiore, condizionando la storia della
conoscenza in Occidente.
Ma,
a dire il vero, anche molto prima di questo scisma decisivo, la
tecnica non godeva di buona fama. Come tutti sanno, il pensiero in
età classica doveva esercitarsi nella purezza della teoria.
Qualsiasi legame con la pratica, quel filo rosso importantissimo che
lega il cervello alla mano, era negato di principio. Il pensiero era
considerato autosufficiente: chiedere aiuto alla manipolazione della
materia non solo non era consigliabile, ma avrebbe interferito
nocivamente sulla riflessione teorica.
Il
tecnico era qualcosa a metà tra l'operaio e l'artigiano. Il sapere
tecnico era pur sempre un sapere, ma inferiore, poiché faticoso e
finalizzato al guadagno. Dice Aristotele, nella Metafisica, che la filosofia è
l'episteme per eccellenza, proprio perché libera da qualsiasi
preoccupazione pratica.
Fu
così, dunque, che la tecnica passò gradualmente sotto l'egida della
scienza, che si distanziò dal pensiero speculativo filosofico
soprattutto in due caratteristiche: a) l'uso di un linguaggio
simbolico altamente specializzato e astrattivo, la matematica e b) la
corroborazione delle teorie naturali attraverso il “cimento”,
ovvero attraverso esperimenti artificiali.
Fu
proprio per la necessità di confrontarsi con la natura che i
portatori di un sapere tecnico-meccanico vennero integrati
all'interno di una nuova istituzione del sapere, l'accademia
scientifica. Si cercò di ovviare ad una duplice mancanza che
all'epoca cominciava a farsi problematica: da un lato i professori, i
teorici, non sapevano come fare le cose, come usare le mani;
dall'altra, le mani dei meccanici avevano bisogno di una guida, di un
sapere teorico che le orientasse.
Famose,
e in questo caso paradigmatici, le vite dei due grandi sapienti
ibridi del Cinquecento: Vesalio l'anatomista da una parte, e Leonardo
dall'altra. Entrambi portatori di un sapere tecnico rivoluzionario
che faticava ad essere riconosciuto dalle autorità accademiche del
tempo.
Illustrazione dal De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, 1543 |
Il
punto è proprio questo: ciò che ha permesso all'uomo di conoscere
il mondo è stato questo intreccio di mano e cervello, di teoria e
tecnica. Il filosofo tende a dimenticarsi la seconda, a sminuirla,
credendo che la conoscenza sia soprattutto discorso o teoria; spesso
però anche lo scienziato, soprattutto il fervente positivista, tende
a ridurre la conoscenza a manipolazione della materia e
sperimentazione.
Definiamo
quindi sapere teorico un
sapere che si occupa della manipolazione di idee, seguendo la scuola di Deleuze e Guattari: la filosofia o la scienza teorica come una
“fabbrica” di concetti. Viceversa, la tecnica è quel sapere che
si occupa della manipolazione della materia orientata a fini
molteplici, siano essi artistici (techne era appunto il
termine che il mondo greco impiegava per definire le odierne belle
arti), ingegneristici (quindi utilitaristici) o scientifici (ovvero
finalizzati a corroborare un sapere astratto).
Un
esempio interessante di come siano necessarie in campo
scientifico-razionale ambedue le componenti, è dato dal processo
della recente scoperta del bosone di Higgs, la particella subatomica
responsabile del campo di forza quantistico che conferirebbe la massa
a tutte le altre particelle della fisica quantistica. Questo bosone è
stato prima di tutto ipotizzato attraverso un lavoro puramente
teorico, ovviamente basato su dati sperimentali; quindi è
intervenuta la tecnica che, dopo lunghe indagini, ha provato
l'esistenza materiale di un'idea.
Ora,
credo che nella comunità filosofica sia giunto il momento di
riconoscere non solo l'importanza della tecnica, ma di fare un passo
in avanti. Bisogna capire (e quindi studiare) il fatto che la tecnica
sia diventata (o sia sempre stata? bisognerebbe discuterne a lungo)
una parte integrante della nostra conoscenza, e che abbia largamente
influito sul nostro modo di “essere nel mondo”, per usare
un'espressione di Heidegger.
Già
qualche movimento in questo senso è stato recentemente fatto da
Sloeterdijk, (filosofo già citato in queste "pagine") pur con tutte le difficoltà e le riserve del caso:
l'uomo come animale tecnico, animale che si fa razionale anche
attraverso l'uso e la manipolazione dell'ambiente che gli sta
attorno. Vengono in mente la pagine cinquecentesche di Bruno, il suo
elogio della mano; ma si potrebbe anche prendere un'altra strada,
seguire il sentiero di un'altra importante scuola del pensiero.
Kant
ha imposto in filosofia il termine “trascendentale”. Già nella
scolastica medievale, secoli prima, il termine veniva utilizzato in
ambito specialistico per indicare quegli aspetti del reale
massimamente universali, eterni e immutabili. Tommaso d'Aquino usava
il termine “trascendentale” per indicare quegli aspetti comuni a
tutti gli enti universali, quegli aspetti che lo stesso Platone, nel
Timeo, aveva riunito come parti costitutive dell'anima del
mondo del mondo nella triade geniale di Essere, Identico
e Diverso.
Con
Kant il termine abbandona l'ambito ontologico per entrare in quello
gnoseologico. Non interessano più, dunque, le cose del mondo, ma il
modo che abbiamo di conoscere
le cose del mondo. Non bastano più, semplicemente, le sensazioni che
arrivano dall'esterno e un intelletto passivo a categorizzarle, come
volevano gli empiristi inglesi; la nostra conoscenza ha una parte
attiva, detta appunto trascendentale perché funziona prima di
ogni sensazione e a prescindere da esse (come per esempio durante
l'intuizione il ruolo che svolgono le funzioni trascendentali dello
spazio e del tempo: ogni intuizione avviene in esse ed esse sono
trascendentali ad ogni intuizione).
Per
usare il lessico kantiano:
È un principio trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra conoscenza in generale. (Critica del Giudizio, capitolo V)
Pur
di forzare un po' il pensiero kantiano, anche a costo di far storcere
il naso ai puristi, non si potrebbe dire che nel caso della
conoscenza scientifica o razionale del mondo, la tecnica sia (o sia
diventata) un trascendentale? Si può ragionevolmente affermare
infatti, che senza la manipolazione del reale, non solo non è
possibile corroborare una qualsiasi teoria scientifica, ma non si
potrebbe forse neppure formularne una di senso compiuto.
Ogni
teoria scientifica ha l'ambizione di descrivere il funzionamento di
un pezzetto di natura. Se non potessimo manipolare, sperimentare
concretamente questa natura, non saremmo stati nemmeno capaci di
formulare la teoria che pretende di descriverla. In altre parole, la
tecnica, il sapere che manipola, è un principio trascendentale della
nostra conoscenza del mondo, in particolar modo di quel tipo di
conoscenza che si chiama scientifica o razionale, poiché senza di
essa non potremmo nemmeno conoscere gli oggetti che intendiamo
indagare: essa è una condizione universale a priori per la nostra
conoscenza. Sintetizzando un po': possiamo conoscere razionalmente
qualcosa solo a condizione di poterla manipolare per vari e
differenti fini.
Per
tornare al punto di partenza: lungi dall'essere la più pericolosa
manifestazione della volontà di potenza dell'uomo, con buona pace
sia di Nietzsche che dei suoi detrattori, possiamo definire tecnica
quel comportamento o sapere pratico che non si è sviluppato solo
storicamente, ma che, in un certo senso, è condizione stessa di un
nostro tipo di conoscenza, quello scientifico-razionale: più
semplicemente, la tecnica è una funzione trascendentale.
Concludendo:
non solo la tecnica è lungi dall'essere pericolosa o nociva per
l'uomo: si potrebbe dire che senza tecnica, l'uomo non sarebbe
pienamente consapevole di sé e del mondo che lo circonda.
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