Non si tratta di una recherche du
temps perdu: il tempo è lì, sullo schermo, tangibile, visibile.
Nessuna nostalgia nell'ultimo lavoro di Richard Linklater, Boyhood (2014),
ma piuttosto sguardi clinici e impietosi. Un'educazione sentimentale.
Nel
romanzo di Flaubert, del 1869, assistiamo infatti a qualcosa di analogo. È
la storia di un borghese di provincia risucchiato dal tempo, privo di
scopi e di interessi. Abulico, perennemente indeciso, malinconico,
del tutto privo di qualsiasi appiglio narrativo, se non fosse per
l'amore senza speranza che lo attira fatalmente alla sua Madame
Arnoux. Una storia tra mille altre, immerse nel tempo.
Leggendo
il libro, il lettore prova un sentimento sotterraneo ma costante: quell'inquietudine appena percepibile che ci coglie non appena
avvertiamo
il passaggio del tempo. Lo stesso tipo di inquietudine che ci prende
quando ci accorgiamo che, nel nostro telefono, il calendario va ben
oltre le nostre più rosee aspettative di vita; quando osserviamo
le generazioni succedersi nelle aule che noi stessi abbiamo
frequentato; quando insomma
capiamo che al
tempo, di noi, non interessa granché.
Flaubert
osserva dall'alto, con ironia; come se il narratore potesse, nello
spazio di qualche centinaio di pagine, sfuggire alla stessa corrente
che travolge, mastica e assimila i personaggi del libro. Si fa beffe
delle loro debolezze, delle mode che seguono, dei grandi avvenimenti
a cui pensano di assistere; allo stesso tempo, schiaccia i rari
esempi di virtù sotto il peso del necessario e inevitabile oblio.
Linklater
riesce, e con grande
maestria, in un esercizio
analogo a quello di Flaubert. Per due ore tenta, disperatamente, di
sfuggire al passare dei dodici anni che invecchiano, sformano e
consumano gli attori del suo film. Per due ore osserva con lo stesso
spietato distacco la società americana, l'avvicendarsi effimero
delle cose: il progresso tecnologico, gli attacchi militari tanto
numerosi che se ne perde il conto, il turbinare insensato di persone
che entrano ed escono dalla vita
dei personaggi.
Il
film descrive con documentaristica attenzione dodici anni
reali della vita
quotidiana, immaginaria,
di un ragazzetto texano qualunque. Per due ore, nessun grande evento,
nessun incontro memorabile. Gente comune, ma non per questo meno
interessante. Poiché, come per Flaubert, è nei gesti, nei tic,
nelle comuni debolezze delle persone, nella loro inevitabile
insignificanza, che si gioca il film e la sua comprensione.
E il
sentimento che cresce nello spettatore, lentamente ma
inesorabilmente, come le spire di un brutto animale, è lo stesso che
perturba il lettore di Flaubert: lo schiarirsi della verità
fondamentale che la vita è illusione.
O come raccontava
lo stesso Linklater in un suo
film precedente, il
bellissimo Waking
Life (2001), la vita è un sogno
che non smettiamo mai di sognare.
Speriamo
che questo film abbia il successo che merita, superando tutte le
difficoltà di accoglienza che interessarono invece il romanzo di
Flaubert alla sua prima apparizione. Perché, come scrive Thibaudet,
"il pubblico chiede sempre un lavoro che gli dia l'illusione
della realtà, e non di fargli capire che la realtà è
un'illusione".
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