giovedì 26 gennaio 2012

Crainz e il partitismo. Pensieri attorno a "Il paese mancato"




"Questo popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti e di cognati..."

Ennio Flaiano, Diario Notturno, 1951


Si ha come l'impressione che qualsiasi analisi storica, politica o sociologica sugli ultimi cinquant'anni del nostro paese, quale che sia la sua tesi o la sua posizione, non possa fare a meno di includere la riflessione di Pasolini.  
È un'impressione inquietante: la lucidità di Pasolini, da bussola sembra quasi diventare percorso obbligato, necessario – e non si capisce se la colpa sia nostra, della nostra mancanza di acume, oppure sia della storia che non vuole passare. È come se questo paese non voglia o non possa cambiare.
Questo almeno suggerisce la lettura di un libro fondamentale, Il paese mancato di Guido Crainz (Donzelli editore, Roma, 2003): dopo avere attraversato i fatti, le voci, la cultura italiana dal 1962 al 1992, l'ultimo capitolo (intitolato “La catastrofe”) si chiude così:

È forse necessario chiedersi se in questo percorso il Palazzo e parti significative del paese non si siano in realtà avvicinate, con quei tratti che Pasolini aveva delineato: lo spregio delle regole, il crescente disinteresse per i valori collettivi, un privilegiamento dell'affermazione individuale e di un gruppo che considera le norme un impaccio (e tratta chi le difende come un nemico da sconfiggere o da corrompere).”



Per Pasolini, e siamo nella prima metà degli anni Settanta, c'erano due Italie contrapposte, l'Italia del potere, da un lato, del Palazzo, e dall'altra la povera Italia proletaria del “grande cambiamento antropologico”, che andava velocemente modernizzandosi, investita da un industrialismo tanto feroce quanto inesorabile.

Crainz parte da questa lettura euristica e, lungo il dipanarsi dei fatti, delle citazioni, dell'argomentazione serrata, mostra come queste due parti abbiano finito per somigliarsi sempre di più – o meglio, come il “paese reale” si sia gradualmente appropriato dei vizi tipici del Palazzo: corruzione, arrivismo, disinteresse del pubblico. (In un lapsus calami improbabile ma significativo, avevo digitato “furbismo”.)

Le variabili di questo avvicinamento sono tante, impossibili da enunciare in breve senza cadere in un'eccessiva semplificazione. Uno di questi fattori, tuttavia, è talmente importante che non si può fare a meno di citarlo: accompagna come una nota di sottofondo l'intero volume, prima in sordina, poi sempre più forte, fino a esplodere nei primi anni '90: la partitocrazia.

In fondo, volendo azzardare un giudizio, la storia che fa Crainz non è solo la storia di un paese che non ha saputo imbrigliare le sue forze nella giusta direzione; no – è, più essenzialmente, la denuncia del fallimento della “forma partito”.

La degenerazione della politica in partitocrazia è il grande male che ha determinato la minorità politica di questo paese di fronte ai suoi vicini europei. Dagli anni '60 ai '90, l'unica autorità che non è stata investita dal '68, è quella del partito. Al contrario, proprio quando le critiche al clientelismo e alla lottizzazione del potere si facevano più serrate e pressanti, era allora che questa forma prendeva nuova forza sotto altre spoglie.

Fu così già nel Sessantotto, quando il movimento studentesco, parole di Foa:

non si espanse nelle fabbriche, esso vi si chiuse, vi andò per prendere in prestito l'ideologia rivoluzionaria. Straordinarie energie giovanili furono disperse per riscoprire e ripetere la Dottrina; nel ricostruire, spesso come caricatura, quello che si era pensato di mandare al macero.”

La critica all'autorità finì per rinforzare le fila, da un lato, di una forma politica, quella del partito, che avrebbe potuto invece essere superata; dall'altra dando adito all'ideologismo più becero e pericoloso, quello della terrorismo rivoluzionario armato.

Lo stesso Partito Comunista Italiano, secondo il Pasolini delle Lettere luterane:

un paese pulito nel paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico”,

l'oppositore principale delle logiche clientelari democristiane, la voce dell'opposizione intelligente, morale, intellettualmente avanzata, dopo la vittoria del 1975 s'adagiò sulle stesse logiche partitocratiche, azzerando quella distanza che lo aveva fino ad allora distinto (e irrobustito) rispetto alle altre forze politiche.

A causa dei cambiamenti internazionali – la primavera di Praga, la scoperta dei gulag nell'U.R.S.S., il grande balzo maoista – e di scelte politiche sbagliate quando non opportuniste – il compromesso storico pianificato da Berlinguer – il PCI si trovò diviso al suo interno e incapace di comprendere i bisogni del suo elettorato: l'attenzione alle alleanze politiche aveva prevalso sul contenuto ideologico.

Con gli anni Ottanta e il successo del PSI di Craxi l'ingerenza della politica nel mondo della finanza crebbe a dismisura; e, invalso il sistema delle tangenti e delle lottizzazioni, fino a raggiungere dimensioni patologiche non più contenibili, il tracollo dello stesso arriverà con un discreto ritardo, nel 1992.

Non si può dire d'altra parte che il quasi ventennio berlusconiano abbia significato un'inversione di rotta: questo periodo storico – forse non ancora finito – viene solo abbozzato da Crainz, che lo tratterà più estesamente in Autobiografia di una repubblica (Donzelli editore, Roma, 2009). Con Berlusconi è l'ideologia che si svuota, lasciandone intatta la struttura, ovvero il partito. È il potere che svela la sua umanità in senso negativo: si toglie la maschera, l'ultimo velo di autoritarismo, e si fa simile all'individuo medio; o meglio, ai desideri e alle aspirazioni più beceri dell'individuo medio.

Per ultimo la Lega, che sulle prime seppe attirarsi anche inaspettate simpatie (Giorgio Bocca, giustificando il suo voto al Carroccio, ringrazierà “quei barbari” per avere saputo avanzare “in mezzo alle macerie, alle inefficienze, al malcostume di una democrazia incapace di correggersi”), salutata come la demolitrice della partitocrazia; finita oggi anch'essa, come ieri il PCI, soffocata dalle stesse logiche partitiche, divisa e sconfitta nell'ideologia.

Ora, bisogna chiarire che Crainz non attacca la forma partito in se stessa, ma la sua degenerazione in “partitismo”, ovvero l'esaltazione della conservazione passiva del potere, invece che del suo uso attivo per la trasformazione della società.

Ma dopo tale possente carrellata storica, dopo l'elenco dei ricorsi storici, sorge nel lettore un dubbio inquietante: e se fosse proprio la forma partito “in sé” ad essere il problema? Se fosse la forma politica di questa repubblica ad essere sbagliata e patologicamente portata alla degenerazione in clientelismo?

Certo, è difficile rispondere alla provocazione, e qui non abbiamo la possibilità di esaurire il tema; e, inoltre, sarebbe un'enormità dire che la forma-partito non sia mai servita a nulla: ho sotto gli occhi le immagini della Resistenza, organizzata in larga misura dai partiti; dei grandi referendum degli anni '70; delle manifestazioni in piazza, da Brescia a Genova.

D'altronde, siamo storicamente abituati a pensare alla politica come campo di scontro di forze partitiche. Machiavelli ravvisava in questo conflitto di parti la garanzia di una società viva e in perenne trasformazione. Bisogna però prendere atto che la forma partito nell'ultimo mezzo secolo, è gradualmente diventata la causa prima di una società atrofizzata e soffocata dagli interessi privati.

È ancora possibile pensare ad una politica che non si fondi sul partito per esistere? Poiché, una volta tramontate le ideologie, senza più bisogno di un organo che protegga dogmi politici inattaccabili; in un paese che tende naturalmente alla frammentarietà, alla divisione e alla corruzione, che senso può ancora avere il partito? A cosa serve davvero, dato che il voto, a causa della sua stessa struttura, non esprime più la volontà individuale?

Ogni volta che si attacca la forma-partito, si viene tacciati di qualunquismo. Ora, credo sia manifesto ormai che i partiti si differenzino gli uni dagli altri solo per la loro storia passata, e in alcuni, rarissimi casi, per una coerenza personale o per la cultura leggermente più elevata di alcuni loro componenti. Ma non esistono più un pensiero di sinistra e un pensiero di destra forti e contrapposti. E allora, se il ruolo del partito deve essere quello di differenziare anche nella più totale somiglianza, viene naturale chiedersi se forse questa ragion d'essere non sia tramontata da tempo.

Forse i contro hanno superato i pro di questa invenzione. Forse un giorno i posteri si chiederanno meravigliati le ragioni della nostra inveterata incapacità di pensare ad una politica diversa, senza bisogno di mediazioni partitiche ormai inessenziali.

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