lunedì 3 giugno 2013

La grande bellezza (solitaria)


La grande bellezza si annuncia già come film simbolo di questi anni. Sorrentino è uno dei pochi registi italiani ancora in grado di scattare istantanee; uno dei pochissimi ad avere il dono della sintesi.

Riunire è una più grande arte, un maggior merito”, scriveva Goethe nelle Affinità elettive, rispetto all'arte dell'analisi che separa e scompone, e continuava: “Un unificatore sarebbe il benvenuto in qualsiasi campo del mondo”. E a maggior ragione nel cinema.


Il tema centrale, come per altri suoi lavori – mi vengono in mente Le conseguenze dell'amore (2004) o il più recente This must be the place (2011) ma anche Il divo (2008) per certi aspetti – è quello della solitudine. Non abbiamo più a che fare con un eroinomane confinato in Svizzera (il paese dell'esilio e della solitudine per antonomasia) al soldo della mafia; né con cantanti invecchiati restando bambini, ormai fuori dal mondo. E nemmeno c'entrano presidenti del consiglio chiusi nella loro omertà democristiana.

Il protagonista è un intellettuale tanto raffinato e acuto quanto snob e narcisista, tale Gambardella, ingoiato dal vortice edonista della mondanità romana; uno scrittore bloccato che né può né vuole sfuggire alla sua decadenza. Mi ha ricordato tanto un Capote napoletano, certamente meno effeminato, ma ugualmente frivolo e talentuoso.



Gambardella-Servillo, fin dalla primissima scena, appare isolato: al centro di un ballo di gruppo grottescamente rallentato, fermo mentre s'accende l'ennesima sigaretta, confessa al pubblico di aver capito fin da giovane, “di essere condannato alla sensibilità”, e quindi fatalmente diverso dagli altri: solo.

Strano paradosso il suo: ricercare la mondanità, il mondo che conta, ma continuare ad essere solo. E sembra addirittura che cerchi la compagnia della buona società, non tanto per mascherare il suo male, ma proprio per godersi meglio la coscienza della solitudine. Non a caso i momenti più felici sembrano proprio essere quelli in cui, tornato a casa tra i postumi delle feste, si stende sul divano ad osservare il suo soffitto trasformarsi in un oceano.

È attraverso l'errare senza meta di questo flâneur isolato, incallito, alla ricerca del dettaglio sublime e come magnetizzato dalla grande bellezza della capitale, che il film si sviluppa in una sequela di episodi improbabili, accomunati solo dalla cifra della solitudine. I lavori di Sorrentino hanno questo di centrale: lasciar parlare l'immagine. La sceneggiatura, calibratissima e intelligente, quasi letteraria, e l'intreccio, che emerge solo a tratti: tutto questo viene dopo l'immagine, dopo il dettaglio, dopo il colore.

La prima qualità di questa Italia del 2013 è dunque la solitudine; non tanto del paese in se stesso e non solo dei suoi cittadini; quanto piuttosto la solitudine della bellezza. Le magnifiche riprese dal Tevere – intuizione che solo un estraneo alla città avrebbe potuto avere, in quanto il biondo fiume è ormai dimenticato dai romani – inquadrano sempre una città abitata di costruzioni, di architetture, di marmi, mai di uomini.

Una Roma lasciata riposare dalle torme di turisti, che finalmente riprende il respiro nelle luci dorate dell'alba; una Roma che si rivela solo quando nessuno la guarda. Perciò la bellezza è solitaria: compare al cessare dell'attenzione generale. Sembra quasi che Sorrentino ci voglia rieducare alla fruizione della bellezza, notando come essa possa esistere solo nella solitudine di uno sguardo, nel raccoglimento estatico del singolo, prima che la folla la faccia dileguare.

In una delle sequenze più suggestive, centrale per capire il nucleo del film, Gambardella, esasperato dall'ennesima festa, decide di sfuggire alla mediocrità del presente rifugiandosi nel passato solitario della bellezza. Con l'aiuto di un fantomatico “consigliere delle dame”, che conserva le chiavi di tutte le ville più belle di Roma, Gambardella s'intrufola tra le meraviglie marmoree e metafisiche.

Come prima beveva cocktails e si faceva di coca, adesso si droga della bellezza dei tanti Raffaelli, dei Reni, delle meravigliose statue ellenistiche. Per sfuggire a un presente asfissiante si trova rifugio in un passato che lascia respirare.

Questo è il secondo tema: la presenza del passato. Tema che è stato, come il primo, già affrontato da Sorrentino, ma mai meglio definito come in questo film.

Basti pensare a This must be the place: la rock star decaduta interpretata da Sean Penn era l'icona di questo concetto: un individuo incapace di crescere e di lasciare il passato al suo corso. In una delle scene chiave, che abbiamo richiamato altrove, il protagonista, al cospetto di un gerarca nazista, decide di non ucciderlo, ché sarebbe come liberarlo da se stesso, ma piuttosto di condannarlo a memoria eterna con il flash di una macchina fotografica.

Similmente, ne La grande bellezza, assistiamo ad una città (e per sineddoche ad un'Italia) che non riesce a evolvere; una società stordita da un benessere che fa male, ipnotizzata da fantasmi di edonismo, sì, ma privato di qualsivoglia piacere.

C'è una battuta rivelatrice che esprime perfettamente questo concetto. Gambardella sta bevendo, è già piuttosto ubriaco; sulla terrazza vista Colosseo – il sogno di chiunque se lo possa permettere, come abbiamo imparato dalla vicenda di una casa in Via del Fagutale –, tra urli e schiamazzi, passa un trenino danzante. “Vuoi sapere perché i nostri sono i trenini più belli?”, chiede Gambardella a qualcuno, “Perché non vanno da nessuna parte.”

È con il movimento inebetito (e forse inquietante) dei trenini delle feste che Sorrentino ha voluto descrivere lo stato di questa Italia. E, a nostro parere, non avrebbe potuto sceglierne uno migliore. Se Fellini con La dolce vita aveva descritto un'Italia da basso impero, che stava “cadendo” in un benessere imposto, trascinando impetuosamente con sé le proprie radici e il proprio passato (un'Italia che la fontana di Trevi la usava per farci il bagno), Sorrentino con La Grande bellezza descrive un Italia in “caduta ferma”, incapace di infrangersi al suolo, bloccata e asfissiante.

Letta in questo senso, la continuità quasi forzata tra i due film, che Sorrentino ha scelto deliberatamente di alimentare fin dal titolo, ha una valenza meta-cinematografica: il fatto che, dopo ormai mezzo secolo, siamo costretti a ritornare in Via Veneto per capirci, costretti a tuffarci nei festini orgiastici e privi d'allegria, è in sé un indizio per comprendere come siamo stati “truffati” dal nostro passato.

In altre parole: il punto, nel 2013, non è tanto essere caduti nel Basso Impero, o prenderne coscienza; è la volontà di continuare a caderci, ancora e ancora. Un paese-trenino che non va da nessuna parte, che non “cade” da nessuna parte – senza progetto.

È in questo quadro che acquista significato anche la storia della Santa, da alcuni letta come unico vero “sprazzo di bellezza” del film; una figura che farebbe intravedere un raggio di luce in mezzo al niente. Io leggerei la storia in maniera diversa. La Santa è il simbolo di questo passato che non vuole andarsene, che spaventa e inorridisce; maschera rugosa e sdentata che sostiene, guarda caso, di mangiare solo radici, “perché le radici sono importanti”.

È un'altra, a mio avviso, l'immagine “bella” che ci consegna questo film. Ad una festa di matrimonio, tra cardinali che raccontano ricette e invitati che s'avventano contro il buffet incutendo un vero e proprio timor panico nei poveri camerieri, Gambardella balla con una sua amica. La camera li osserva in disparte, come se li stesse spiando. È allora che Gambardella le fa una domanda e si dà una risposta, coinvolgendo nella sua riflessione gli spettatori.

Io e te siamo mai stati a letto insieme? No? Meno male. Ci resta ancora qualcosa di bello da fare. Il futuro è una cosa meravigliosa.”

Ecco la risposta di Sorrentino alla presenza del passato: la scoperta (o meglio, la riscoperta) di avere ancora, nonostante tutto, un futuro.

Nessun commento:

Posta un commento