[Gian
Franco Andraghetti ha pubblicato da non troppo tempo due libri
destinati a rimanere dei modelli imprescindibili per la produzione
storico-topografica della città di Ravenna: Aquae
condunt urbes (Media News, 2007) e Odo
nomi far festa (Edizioni Moderna, 2010).
Grazie
al suo lavoro decennale, possiamo percorrere con queste pagine la
storia della città, leggendola attraverso le sue strade, i corsi
abbandonati dei suoi fiumi, gli aneddoti sconosciuti sui suoi
palazzi.
È
da più di un anno che leggo e rileggo queste piccole enciclopedie e
ancora non esauriscono il loro fascino. Mi sono deciso a parlarne
con l'autore, finalmente: a casa sua, davanti ad una mappa spiegata
della città.]
Tutte
le volte che passo per il nuovo ponte sopraelevato rischio un
incidente perché mi viene da voltarmi a guardare verso la città e i
suoi campanili: quello di San Giovanni Evangelista, e poco più
avanti quello di Santa Maria in Porto. Penso sempre a come doveva
essere per un viaggiatore antico arrivare a Ravenna dal mare,
percorrere i suoi corsi d'acqua o per il cittadino seguire la curva
del Montone subito fuori le sue mura.
[Qui l'intervista stampabile]
Il
lavoro è nato un po' così: immaginando. Fu nel 2000, quando rimasi
parzialmente invalido: ero costretto tutto il giorno in casa.
Lavoravo alla pianta di Ravenna, studiavo le forme delle strade. Le
vie dritte, ortogonali, di origine romana erano solcate al centro
dallo scheletro del Padenna, dalle strade sinuose che seguivano il
corso dei suoi argini. È stato allora che ho cominciato ad
interessarmi della topografia storica della città, ed è diventata
presto una mania. Mi facevo portare i libri dall’Oriani e dalla
Classense da amici bibliotecari, leggevo tutto quello che trovavo
sull'argomento, stavo al computer dalle 8 di mattina alle 10 di sera.
Ho
impiegato più di cinque anni per completare il primo libro, Aquae
Condunt Urbes, l'atlante storico-topografico uscito nel 2007, e
altri tre per Odo nomi far festa, lo stradario odonomastico,
composto dalle storie e dalle informazioni che non sono riuscito ad
inserire nel primo.
[Mi
stupisce una tale ricchezza di informazioni. Ravenna è una città di
provincia con una storia da capitale, e spesso gli aneddoti si
stratificano come i nomi delle strade, rischiano di essere
dimenticati. C'è una storia sotterranea che ancora fatica ad
emergere. Chiedo a Gian Franco qualche esempio.]
Non
saprei davvero da dove cominciare. Forse, il più tristemente famoso
è quello dell'eccidio Diedi, famiglia di origine veneta, di cui
rimane ancora il palazzo rinascimentale in stile veneziano in via
Gardini. Siamo negli anni settanta del Cinquecento, e Bernardino
Diedi si mette nei guai per una promessa di matrimonio fatta a un
sorella del suo vicino di casa, l'illustre Girolamo Rasponi.
Nonostante questo vincolo, Bernardino chiede la mano a un'altra
donna, Susanna Succi, imparentata anch'essa con la famiglia Rasponi.
Girolamo
scatena la sua ira contro Susanna, decisa a sposarsi con Bernardino,
e la fa martoriare dal fratello Lodovico con quattordici stilettate.
Scoperto il terribile gesto, Lodovico è costretto a fuggire. Susanna
si salva, si sposa con Bernardino, rimane incinta per ben due volte.
È
allora che Girolamo decide di vendicarsi: assolda cinquanta banditi e
nel mezzo della notte irrompe in casa Diedi, massacrando l'intera
famiglia e la gestante Susanna. Bernardino si getta dal balcone, che
esiste ancora oggi, e viene finito dai sicari. Anche un testimone
civile viene ucciso a colpi d'archibugio. La città insorge, i
colpevoli vengono squartati pubblicamente, Girolamo Rasponi è
costretto all'esilio: la sua casa è bruciata e le ceneri cosparse di
sale. Terreno maledetto, si diceva allora – e ancora oggi è vuoto:
si tratta del giardino di Palazzo Vitelloni, in via Guerrini.
Cattivi, i Rasponi.
È
interessante anche la storia delle valve di bronzo, ovvero dei
battenti dell'ormai scomparsa Porta Aurea, trafugati dai Longobardi
nel 751 d.C., dopo il lungo assedio. Li portarono a Pavia, la loro
capitale, e da lì qualcuno riuscì a riportarli a Ravenna. È
l'inizio di un battibecco durato secoli: nel 1438, Niccolò
Piccinino, su ordine dei Visconti di Milano, costringe Ostasio III daPolenta, l'ultimo dell'illustre famiglia, a restituirle a Pavia.
Solo
nel 1528, Cesare Grossi, capitano di ventura per i veneziani, subito
dopo la presa di Pavia, riporta queste benedette valve a Ravenna,
appese come trofeo lungo i muri del Palazzetto Veneziano. Ironica
fine: il cardinale Alberoni decise di fondere quelle superstiti –
tranne una, che abbiamo restituito ai pavesi – per farne delle
monete, altre erano state utilizzate per riparare la campana della
Torre del Comune e per la statua bronzea dedicata a papa Alessandro
VII; talmente brutta, dicono, che la gente ci scagliava contro le sue
feci (spostata in piazza San Francesco fu abbattuta da ignoti, i
quali ne misero un braccio in grembo alla statua di Clemente XII in
piazza del Popolo).
[Gian Franco ride. La prima, una
tragedia in perfetto stile shakespeariano, che non aspetta altro che
un romanzo che la racconti. Come si dice, non tutti nella capitale,
sbocciano i fiori del male... La seconda invece ha un vago sapore
comico boccaccesco, non c'è che dire.]
Potrei
raccontarti anche di Tigrinetto, l'unico figlio sopravvissuto di una
famiglia di conti palatini toscani, invitata a Ravenna nell'alto
medioevo dai Traversari. Uno dei nipoti di questa nobile famiglia,
violentò una ragazza di Ravenna e tutti i nobili toscani furono
trucidati per vendetta. Tutti tranne Trigrinetto, il più piccolo dei
figli, allevato a Ravenna, che serberà per sempre un rancore e, per
la sua atroce vendetta, fu poi soprannominato “il bevitore di
sangue”.
Oppure
la storia di Marianna Bacinetti, che abitava in via d'Azeglio, nata
all'inizio dell'Ottocento e considerata una delle più belle e
intelligenti donne d'Italia. Conosceva alla perfezione il greco e il
latino; si sposò col marchese Florenzi di Perugia e conobbe a Roma
il futuro re Ludovico I di Baviera, che rimase talmente colpito dalla
donna da volerla con sé a coorte... Alla morte del marito, eccola
risposata con un esule inglese, Evelyn Wallington; la loro casa
diventa il rifugio di patrioti italiani, mentre la Marianna traduce
in italiano le opere di Schelling.
[Continua a raccontare: mi parla di
Leopardi ospitato in via Salara da un nostro concittadino
particolarmente seccante; del ferimento a morte del Cardinale
Alidosio in via San Vitale da parte del nipote del papa, Francesco
Maria della Rovere; di come via Zanzanigola derivi il suo nome da un
chiesa sul Padenna vicino a un guado – San Giovanni ad navinculam;
del ritrovamento nella Darsena del più antico reperto archeologico
ravennate: una statuetta bronzea di fattura etrusca...
La Darsena! oggi non si parla
d'altro. Ne approfitto per un suo parere.]
Sulla
Darsena ne ho sentite ormai tante. C'è chi ha parlato di un canale
sotterraneo che scavalchi la stazione e riporti l'acqua in città.
Bellissimo, ma del tutto impossibile da realizzarsi per ragioni
economiche. Altri addirittura hanno proposto di tombare
definitivamente il canale, per farci un giardino. A parte, ancora una
volta, i costi faraonici di realizzazione, mi sembra davvero un
peccato cancellare del tutto l'ultimo ricordo della natura acquatica
di questa città.
Mi
sembrerebbe più sensato cercare di valorizzare la zona, pur non
essendo un quartiere storico di grandissima importanza. Magari con un
porto turistico, per riprendere, in un qualche modo, la funzione che
ha avuto nella storia.
La
città deve molto alla Darsena; anzi: alle sue darsene. Borgo San
Biagio, ad esempio, si è sviluppato durante la dominazione veneziana
come darsena di un naviglio proveniente dalla campagna a nord della
città, che entrava nell'odierna via Maggiore attraverso via
Canalazzo, fino ad arrivare in faccia al ponte sul Montone e a Porta
Adriana. Oppure borgo San Rocco, che, più o meno negli stessi anni,
si sviluppava lungo il Canale del Molino e il Ronco, borgo nel quale
si svolse la più antica fiera della città.
Se
ci pensi bene, anche l'incredibile sviluppo tentacolare della
città negli anni '50 e '60, è stato causato dal porto, per la gente
che si trasferiva a Ravenna per lavorarvi. Siamo cresciuti grazie al
porto, e adesso qualcuno propone di tombarlo. Per questo, secondo me,
bisogna cercare di dare una ripulita alla zona senza lanciarsi in
progetti senza speranza, che rimarrebbero incompiuti per mancanza di
fondi.
[Penso
alla grande concitazione che la proposta di risanamento della Darsena
sta scatenando. Che si faccia questo rumore è un segnale senza
dubbio positivo, ma prima di qualsiasi proposta credo occorra trovare
una soluzione al problema del collegamento. Ravenna ha tagliato il
cordone ombelicale che l'univa al mare, l'ha dimenticato, lo ha
trasformato in luogo di villeggiatura – basti pensare al disastro
di Marinara.
Per
riqualificare la Darsena, bisogna prima di tutto trovare una
soluzione per aggirare la barriera che la stazione rappresenta, che
taglia fuori canale Corsini dal centro.]
D'altronde
c'è ancora molto in città che ha bisogno d'una sistemata: penso a
Piazza Kennedy, ad esempio. Il progetto di riqualifica, nonostante
forse un po' troppo “cementoso”, mi piace. Hanno rispettato la
memoria storica del luogo: al centro di quello che oggi è un grande
parcheggio, un tempo sorgeva la chiesa di Sant'Agnese. E non si
trattava mica di una chiesa da poco: tre navate, fondata su di un
tempio romano, con un grande convento annesso. Il progetto riprende
la forma della chiesa e cerca di darne una testimonianza, nel limite
del possibile; ne riporta la pianta per terra, spostando le colonne
originarie dimenticate nel giardino di Palazzo Rasponi dalle Teste.
Vedi,
io sarei sempre per bucare, bucare dappertutto. Anche in questo caso,
consiglierei agli addetti ai lavori di andare a fondo con lo scavo,
scoprire cosa c'è a livello delle fondamenta romane, far emergere
tutto. Sono occasioni sprecate tutte quelle nelle quali potresti
trovare delle cose, e invece non fai niente.
Ravenna
è stata distrutta diverse volte; eppure, è una delle poche città
al mondo ad essere state costruite sempre negli stessi posti. È
stata invasa, bruciata, tre volte capitale, di nuovo devastata,
saccheggiata. Ma sempre ricostruita sulle stesse fondamenta. In
qualsiasi punto si trova qualcosa. Ravenna dovrebbe essere il
paradiso degli archeologi: poche città possono vantare una tale
stratificazione: romana, bizantina, medievale, veneziana...
Praticamente dovunque potrebbero esserci reperti validi da
recuperare.
E
invece qua si “scoprono” cose spesso per l'iniziativa di privati,
che hanno bisogno di un garage sotterraneo e rivelano una domus
romana o bizantina; senza contare i danni che, tali tipi di
rinvenimenti casuali possono arrecare ai reperti stessi. Discorso
simile si può fare anche per l'isola ecologica in piazza Anita
Garibaldi. Era certo che sotto ci fosse qualcosa, e infatti hanno
trovato i resti di una domus romana. Ma non hanno continuato
gli scavi: forse mancavano i soldi per esplorare meglio la struttura
riemersa o non c’era la volontà.
Non
hai idea di quante occasioni abbia sprecato questa città. Il solo
pensiero del Palazzo di Teodorico mi atterrisce. Gli scavi risalgono
ai primi del '900. Era un cantiere enorme, che andava da via Alberoni
fino quasi a San Giovanni Evangelista: tale era l'area del Palazzo.
Per farti un'idea, pensa che la grande parete che vediamo oggi, che
per secoli è stata chiamata erroneamente “Palazzo” è in realtà
solo un’entrata dell’area palaziale, poi sfruttata come
nartece di una chiesa, San Salvatore in Calchi.
Gli scavi del Palazzo di Teodorico, inizio Nocevento |
Era
un'occasione imperdibile per creare uno dei più importanti parchi
archeologici a cielo aperto d'Italia: quasi una decina di mosaici
pavimentali bellissimi che sono stati rimossi per far spazio
all'edilizia. Da piccolo giocavo a calcio ai Salesiani, in mezzo a
quello che un tempo era il grandioso Palazzo di Teodorico: oggi non
ci sono che palazzoni orrendi.
Disegno che ipotizza la pianta del Palazzo |
O
ancora: la Torre cittadina, un simbolo storico che scandiva le ore
della vita quotidiana, dall'entrata a scuola agli incendi, oggi
imbragata in ferri che la sostengono per non farla cadere. Ora, se
sono riusciti a salvare la Torre di Pisa, non potevamo cercare di
fare un lavoro un po' migliore con la nostra torre? Ne hanno tagliato
la cima, dieci metri buoni; hanno spostato la famosa campana chissà
dove; hanno nascosto dietro quelle brutte imbragature le effigi
famose della Mariola (in realtà la stele funeraria di un
togato romano); e l'hanno lasciata così, sventrata e deturpata.
[E
adesso è davvero difficile “cercare la Mariola per Ravenna”,
nascosta com'è alla vista di tutti. Penso a Cervantes, che cita
l'effige e il detto popolare addirittura nel Don Quijote... C'è
qualcosa che dovremmo fare per evitare altre perdite del genere?
Qualche occasione da non mancare?]
Le
mura! Le mura mi stanno particolarmente a cuore, e rischiamo davvero
di perderle, anche quelle poche che ci sono rimaste. Un po' per il
menefreghismo della cittadinanza, devo ammetterlo; ma anche per
l'incuria nella quale sono state lasciate. Ultimamente ho visto un
po' di miglioramenti, soprattutto lungo via Canale Molinetto, ma di
lavoro ne resta ancora molto da fare.
Penso
spesso, ad esempio, a quanto sarebbe bello renderle di nuovo
praticabili, ricostruendone il camminamento dal Torrione fino a porta
Gaza. Infatti è in piazza della Resistenza che arrivano le corriere
dei turisti, e quale modo migliore per entrare in città, se non
proprio percorrendole fino al centro?
La
nostra città deve molto alla sua cinta muraria. Basti pensare ai
terribili assedi che l'hanno tormentata in passato; anzi, la città è
proprio cresciuta nelle mura, letteralmente: sono state
ultimate durante il periodo di massimo splendore, quando era una
capitale imperiale in espansione, ricca di palazzi e sovrappopolata.
Ma dopo le invasioni, la popolazione ha cominciato a decrescere e le
mura si facevano “più lontane”, troppo estese per una città in
rovina. Tra le case e le mura c'erano orti, animali al pascolo. E
poi, ancora una volta, la città le ha raggiunte – e, solo da
pochissimo, superate.
[E
vediamo davvero di superarle queste mura, ma in modo figurato:
aprendoci fuori dalla provincia, fuori dal nostro ombelico per una
volta, coscienti del patrimonio che portiamo con noi. E soprattutto
vediamo anche di imparare a conoscerlo meglio, questo patrimonio,
servendoci anche del notevole lavoro di Gian Franco Andraghetti.]
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