Nuova poesia dedicata ai ruderi del castello detto di 'Pietra Mora', edificato su di un affioramento roccioso - lo 'Spungone' - che partendo dal torrente Marzeno, nelle prime colline faentine, arriva fino alla frazione di Capocolle, nel comune di Bertinoro (FC).
Il sito è ricordato anche da Luciano de Nardis in un breve articolo di argomento folkloristico da lui steso per la rivista romagnola La Piê:
"Sotto Monte Sassone, accanto ai ruderi del castello della Pré Mora (Pietra Mora), nel banco dello spungone sullo strapìombo della voragine del rio della Samoggia, fra le colline a monte di Faenza e Castrocaro nella zona di demarcazione dell’antico confine fra la terra del Papa e quella del Granducato, sono scavate le quattro grotte delle fate (chiamate anche busa – buca - e camaraz – cameraccie). Questa pietra era un prodigioso palazzo, nei lontani millenni delle Fate che lo disertarono quando l’uomo non credette più alla poesia, ma vi lasciarono, pegno del ritorno, i loro magici telai d’oro, su cui l’anima tesseva le canzoni che nessuno sa più! E perché l’uomo non ne facesse sua preda, confidarono la guardia dei telai a un biscione che sibila minacce e con un soffio precipita nella voragine le ladre scalate, quando mai tentassero le porte inviolabili."(L. De Nardis, La Piê, 1925)
Ecco la poesia:
Era pena,
l’asse
il sostegno
del monte
alle grotte
era la
morte della larva –
tenuta dei
cocci,
del voto
fatuo alla fioritura
erano
briciole del corpo
del prode,
voce
selvatica che
ne sgola i
lembi …
E un testo precedente, ispirato alla leggenda della grotta delle fate e già pubblicato su questo blog:
Le dame di
Monte Sassone
Il tempo
sfilacciato di una vita
che nulla
può farci l’ago
ha avuto
forse pietà di noi
delle case
abbandonate quando
il passo
del giaguaro
seminava
grida pari
al crollo
delle terre
sotto il
bacio dell’aratro
quando il
seme inselvatichiva
e la mala
pianta taceva
i segreti
andati in fiamme
quando
gonfie nubi ferrose
s’alzavano
sulle rovine
e custodi
di sale ricolme
di bronzi
e di giade
lasciavano
che il filo delle lame
si
dipanasse ai loro piedi
quando
quando
quando
*
e a fare
come il cavaliere,
che
all’ago preferì i telai d’oro
delle dame
di monte Sassone
– si badi
alla luce delle vesti
come un
tempio il cui marmo
sia inciso
nel fuoco di costellazioni
ma
spolpando il frutto della luce
il succo
ripugna
come un
porcaro
vestito da
signore –
e il cui
corpo sbriciolato
fu gettato
dalla furia del serpente
giù
nell’ombra della terra
fino a
fare minerale del pensiero,
noi cosa
perderemmo
e cosa
avremmo al sicuro ora
che il
secco si beve tutto
che i
lembi del lago hanno branchie
da cui
svapora l’oro dei campi?
(la foto qui sotto è di Stefano Ciani)
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