È
passato mezzo secolo dalla pubblicazione del capolavoro di Gadda, La cognizione del dolore. Era il
1963. Usciva presso Einaudi, in un'edizione bellissima, con un saggio
iniziale di Contini più difficile dello stesso romanzo, raccogliendo
per la prima volta in un unico volume i vari episodi apparsi sulla
rivista Letteratura durante la prima travagliata stesura, dal 1938 al
1941.
Nonostante
parlasse di quell'Italia, il libro parlava a questa Italia. Vent'anni
non sembravano, già allora, essere passati. Certo, c'era stata la
guerra, il grande miracolo economico di mezzo; quindi la mutazione
antropologica, la laicizzazione d'importo. Eppure, quasi librandosi
sulle diagnosi pasoliniane, quasi cancellando con un colpo di spugna
quell'indiscutibile rottura storica, il libro di Gadda parlava,
urlava, raccontava di un'Italia più profonda, surrettizia, la
borghesissima Italia della continuità e dell'immobilismo.
La
cosa che ormai non stupisce più, che anzi spaventa, è che il
romanzo continui a parlare di noi, allo scadere di questo 2013. Prima
e seconda repubblica, come se non fosse davvero mutato niente: la
lingua di Gadda sorvola il tempo, gli danza attraverso con le sue
circonvoluzioni, con le sue piroette e i suoi scoppi, con
quell'“espressionismo naturalistico” – secondo la felice
dizione di Gianfranco Contini – che nessun altro, dopo di lui, ha
saputo (o osato) imitare.
Certo,
Gadda è un classico: e come tale, continua a vivere. Ma forse non è
solo questo il punto. Gadda, a differenza di Calvino, parlava di una
realtà ben definita, ossessivamente focalizzata sul qui ed ora.
Gadda è il maestro della descrizione dell'immanente, colui che
meglio di ogni altro è riuscito a far emergere dalla semplice
parola, l'imbecillità e la baroccaggine del reale.
Come
scrive nella sua nota introduttiva al romanzo:
(...) il barocco ed il grottesco albergano già nelle cose, nelle singole trovate di una fenomenologia a noi esterna, nelle stesse espressioni del costume (…) grottesco e barocco non ascrivibili a una premeditata volontà o tendenza espressiva dell'autore, ma legati alla natura e alla storia (…) talché il grido-parola d'ordine «Barocco è il signor G.!», potrebbe commutarsi nel più ragionevole e più pacato asserto «barocco è il mondo e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine» [La cognizione del dolore, pag. 32].
[Giusto
per sfizio personale, elenco di seguito i formidabili esempi di
oggetti che Gadda, subito dopo, ritiene di dover qualificare come
barocchi: violoncello, contrabbasso, femore, bacino, fegato, sedere,
gobba del dromedario, trippe, enunciati del trombone in fa, fagioli,
zucche, cocomeri, e il famosissimo “croconsuelo”.]
Si
arriva quindi a capire meglio un paradosso altrimenti inspiegabile:
come, per una torsione a 180 gradi, il cosiddetto barocco Gadda si riveli a
ben vedere un precisissimo osservatore della realtà; mentre Calvino,
lungi da essere il lucido e cristallino cronista del grande
cambiamento italiano, divenga in fondo lo scrittore dell'ideale,
proprio perché solo l'ideale può essere ben scritto ed ordinato.
Ma
se nel caso di Calvino si riesce agilmente a capire la ragione della
qualità estremamente contemporanea dei suoi romanzi (parlando
dell'ideale, Calvino è in dialogo tanto con i suoi predecessori
quanto con i suoi eredi, si vedano Le città invisibili,
I nostri antenati, e
così via), per motivare la contemporaneità di Gadda, così
ancorato alla realtà e quindi intuitivamente assoggettato ad un tempo
che non si ferma per nessuno, bisogna invece ricorrere anche ad un
altra causa, esterna alla sua prosa: l'immobilismo italiano.
Non
è solo Gadda ad essere geniale descrittore: è anche merito di un
paese fermo da mezzo secolo. Celebrare i 50 anni de La
cognizione del dolore, significa
anche prendere atto di un blocco storico e sociale senza pari nella
storia di questo paese.
Lo
stile di Gadda ha tutti i requisiti per essere lo stile più consono
a descrivere questa immobilità sotterranea. In ordine sparso: il
dialetto, in barba ad ogni previsione sia di Calvino, sia di
Pasolini, che continua ad operare, seppure in modo sotterraneo o
demagogico, contribuendo a sgretolare la fittizia unità di un paese
mai davvero coeso, quanto piuttosto male mosaicato; gli arcaismi,
metafora di un popolo di intellettuali e accademici riversi su loro
stessi, di una cultura che ancora fatica a fare i conti con il suo
assurdo bagaglio di passato; nonché appunto il barocco, la sua "prosa dura, incollata, che nessuno legge", non solo
frutto della penna di Gadda, quanto piuttosto carattere distintivo
della caoticità ribollente e statica (nell'accezione ellenica del
termine) di questo maledetto paese.
Secondo
Pietro Citati, con Gadda la letteratura italiana del Novecento
raggiunge il suo apice; raccogliamo volentieri la provocazione,
aggiungendo solo una delle tante ragioni di questa eccellenza: Gadda ha inventato
lo stile letterario più adatto alla descrizione del nostro paese.
Attraverso la sua prosa non si esprimono solo le idiosincrasie e le
stranezze di un ingegnere atipico, ma la condizione di un intero
popolo; il lettore non leggerà soltanto provocazioni e soluzioni
stilistiche geniali, ma dovrà fare in conti con se stesso e con la
sua identità.
C'è
un'altra ragione per festeggiare l'anniversario della pubblicazione
di questo libro, a nostro avvisto: questa va ricercata nell'inesausta
“rabbia civile” di Gadda. Non c'è una sola pagina esente da
questa rabbia, che ne permea la trama, la strozza, fino a farla
implodere su se stessa e lasciarla a metà. È la rabbia che
costringe l'autore ad infinite deviazioni, a digressioni improbabili, alla scrittura di
frammenti estranei all'economia dell'intreccio, ai “ribòboli
sterili”, come appunto li chiama lo stesso Gadda.
La
rabbia per l'imbecillità del reale, per il suo barocco; ma anche
(…) scoppi d'odio verso i deficienti, gli ebeti, gli opinanti cretini, i calcolatori beccuzzanti sullo strame un lor miserrimo e già rinsecchito vantaggio (…) il delinquente nato (…) il furbo-cretino e carrierista d'ogni maniera di fraudi (…) [La cognizione del dolore, pag. 35].
Rabbia
infinita e rancore verso il paese natale, sublimato in satira e
descrizioni deliranti, metaforizzato dal frastuono ebete delle
campane del paese andino-brianteo del Maradagàl, che ad ogni ora intronano i
pensieri del protagonista.
È
questo aspetto “civile” di Gadda che occorre salvare ed imitare:
il racconto non solo del bello, o della grande bellezza, ma anche
della grande imbecillità di questo nostro mondo; un furore sacro che
non si fa mai sterile urlo o mutismo inane, ma prende forma in acuta
descrizione di tutte le brutture e “dissocialità” che siamo
costretti a vivere, o che impunemente commettiamo.
Non
assopirsi mai, non acquiescere: arrabbiarsi sempre davanti a ciò che
Gadda chiama “imbecillaggine generale del mondo”, o anche “le
baggianate della ritualistica borghese”, senza mai trasformarsi nel
solitario misantropo che, significativamente, Gadda ritrae nel
romanzo come suo alter ego, come per scongiuro e allontanamento
superstizioso (o, forse, come rassegnata previsione).
Quasi
negli stessi anni della stesura della Cognizione del
dolore, al di là dell'oceano,
in un contesto completamente diverso, Theodor W. Adorno scriveva:
Il talento non è forse altro che rabbia felicemente sublimata, la capacità di tradurre quelle energie che, un tempo, si esaltavano oltre ogni limite nello sforzo di distruggere gli oggetti che opponevano resistenza, in una contemplazione paziente e concentrata, e di essere altrettanto tenaci e implacabili nella ricerca del segreto degli oggetti come il bambino che, un tempo, non si dava pace finché non aveva strappato al giocattolo tartassato la sua voce lamentosa [Minima Moralia, # 72].
I
passaggi del romanzo che descrivono il trionfo dei borghesi
all'Odéons, il tipico ristorante di lusso, affidati dall'autore
all'immaginazione ottenebrata di un Gonzalo schiumante davanti a una magra e
rancorosa zuppetta, sembrano attagliarsi perfettamente all'aforisma
di Adorno.
La “contemplazione paziente e concetrata”, scaturita
dalla rabbia più bestiale e assurda, si tramuta in straordinario
pezzo di bravura, di cui, a mo' di conclusione, è difficile anche solo scegliere qualche
passaggio senza rovinarne l'effetto complessivo:
Estraevano, con distratta noncuranza, di tasca, il portasigarette d'argento: poi, dal portasigarette una sigaretta, piuttosto piena e massiccia, col bocchino di carta d'oro; quella te la picchiettavano leggermente sul portasigarette, rinchiuso nel frattempo dall'altra mano, con un tatràc; la mettevano ai labbri; e allora, come infastiditi, mentre che una sottil ruga orizzontale si delineava sulla lor fronte, obnubilata di cure altissime, riponevano il trascurabile portasigarette. (…) Dopo di che, oggetto di stupefatta ammirazione da parte degli «altri tavoli», aspiravano la prima boccata di quel fumo d'eccezione, di Xanthia, o d Turmac; in una voluttà da sibariti in trentaduesimo, che avrebbe fatto pena a un turco stitico. E così rimanevano: il gomito appoggiato sul tavolino, la sigaretta fra medio e indice, emanando voluttuosi ghirigori; mescolati di miasmi, questo si sa, dei bronchi e dei polmoni felici, mentre che lo stomaco era tutto messo in giulebbe, e andava dietro come un disperato ameboide a mantrugiare e a peptonizzare l'ossobuco. La peristalsi veniva via con un andazzo trionfale, da parer canto e trionfo, e presagio lontano di tamburo, la marcia trionfale dell'Aida o il toreador della Carmen. Così rimanevano. A guardare? Chi? Che cosa? Le donne? Ma neanche. Forse a rimirare se stessi nello specchio delle pupille altrui. In piena valorizzazione dei loro polsini, e dei loro gemelli da polso. E della loro faccia di manichini ossibuchivori. (…) Oh! Sì, sì! Quello, veramente, lo si vedeva ch'era arrivato a poter dire di se stesso: «Yo soy un hombre». Non era una faccia di bischero: no, no [La cognizione del dolore, pp. 200-202].
brillante, molto ben scritto, e documentato. complimenti!!
RispondiEliminaio avrei aggiunto "fumavano: subito dopo la mela", che apre il brano dedicato ai manichini ossibuchivori ed esprime, in efficacissima sintesi, lo sgomento, e la rabbia che ne consegue