La
prima qualità che colpisce – diretto, agli occhi – il
visitatore, è la luce del sole, bianchissima, che in pieno giorno si
riflette a meridione sulla foce del Tago. Cammini per il Chiado,
rivolgi lo sguardo al fiume (che è come un preannuncio di mare) e la
luce ti inonda, motteggiando un miracolo; annulla i colori degli
azulejos in
un'istantanea chiarissima, sovraesposta. Non si tratta di un nitore
toscano, di quelli che rendono più chiari i colori, più razionali
gli spazi; si tratta di un lucore atlantico che abbaglia, confonde la
vista. Perché Lisbona non è già più una città mediterranea. È
una città limite, appesa all'estremo del vecchio continente, con un
piede sull'ultimo sperone di roccia lusitano, e l'altro già immerso
nell'oceano.
Si
sarebbe portati quasi a crederci, al mito che la vuole fondata da
Ulisse durante le sue errabonde navigazioni mediterranee; da
Ulyssippo a Lisbona,
l'etimo è breve. Mi immagino l'Ulisse dantesco approdare al sicuro,
nel golfo protetto dalle acque grigio-verdi del Tago: giusto il tempo
di fondare un'estrema città, prima di lanciarsi nella folle
traversata della virtute e dell'ubrica canoscenza.
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