martedì 25 marzo 2014

Discorso Grigio di Fanny & Alexander


La simbologia, soprattutto se applicata ai colori, può essere ambigua. È difficile non cadere nei personalismi, nelle idiosincrasie, e interpretare la semantica del colore con il dovuto distacco. Così è per Discorso Grigio, lo spettacolo di Fanny & Alexander dedicato all'analisi teatrale della retorica politica.

Il grigio è il colore dell'indistinto, del fumo, dell'opacità. Il grigio è il colore spurio per eccellenza, il colore del torbido quotidiano, della prassi ripetitiva. Grigio è l'ordinario. La scelta di questo colore per connotare il politico in genere risponde, credo, ad una scelta precisa operata dal gruppo teatrale ravennate.

Già dalla mise dell'attore, lo straordinario Marco Cavalcoli, si capiscono le ragioni di questa scelta. Un uomo ordinario, in giacca e cravatta, spaurito, prima del grande discorso alla nazione. Non troppo alto, né troppo basso, nessun segno caratteristico. È la neutralità in persona. È nervoso, entra in scena, ripete le mosse come l'amante allo specchio prima dell'appuntamento, cerca di scrollarsi di dosso tensioni ed incertezze.

Alle orecchie, due cuffie bene in vista. Niente di quello che dirà, non una delle interminabili e ripetitive formule retoriche scelte – formule tagliate e incollate sapientemente, tratte da “discorsi alla nazione” che abbiamo già mille volte sentito e inconsciamente registrato – nulla sarà davvero frutto delle sue convinzioni o dei suoi ideali. Il grigiore del personaggio è soprattutto grigiore delle sue idee: un blob informe di frasi ad effetto, sconnesse, insignificanti; come sconnessa ed insignificante è stata la nostra politica, il nostro discorso collettivo degli ultimi decenni.

Come il pupazzo del ventriloquo, la voce non è sua. Disperatamente si muove, ripete in modo meccanico la prossemica dell'oratore di piazza, del venditore di aspira-polveri: indice verso la folla, per accusare; mano sul cuore, per testimoniare della sua buona fede; braccia aperte davanti a sé, come il magnanimo padrone per accogliere le lagnanze dei poveri, oppure slanciate verso il cielo, per festeggiare la vittoria sicura.

Quasi non sorprende la scelta di ingigantire le mani del personaggio per farne grottesche appendici di pupazzo, che si agitano e intralciano i movimenti. I Fanny & Alexander non hanno fatto altro che mettere sotto una lente d'ingrandimento gli strumenti propri dell'uomo politico, e sottoporli al giudizio del pubblico, senza avanzare giudizi o tesi.

Foto di Enrico Fedrigoli

È come se il corpo dell'attore subisse un processo di svuotamento, parallelo allo svuotamento semantico del logos politico che vorrebbe incarnare.

In un primo momento, il corpo è costretto a svuotarsi, per sopportare il flusso ininterrotto del discorso retorico – e i suoi movimenti sconnessi, ripetuti, mi hanno ricordato delle scariche elettriche, come quelle liberate dai defibrillatori nel tentativo di ridare anima ad un corpo incosciente. Quindi si gonfia, nel tentativo ridicolo di dare carne a frasi tanto altisonanti quanto posticce. Infine, eccolo irrigidirsi in una maschera plumbea, priva di espressione e di vita, come se fosse stato toccato dallo sguardo di Medusa.

E infatti, quando l'attore, alla fine dello spettacolo, rientra in scena, portando un testone sulle spalle – effigie di questo grigiore, simbolo della impossibilità, innata alla tecnica del discorso politico, di qualsiasi contatto sincero con l'uditorio – si lancia in un girotondo malato, ripete ossessivamente le formule retoriche come fossero un rosario demente. È il discorso che arriva alla sua logica conclusione: s'avvita su se stesso, perde forza, si spegne nel non-senso.

Foto di Enrico Fedrigoli

E alla fine del discorso rimarrà sulla scena, esausto, in un limbo di silenzio sospeso. Lo sguardo luccicante, come ogni politico che si rispetti, aspetta l'unica cosa in grado di legittimarlo, brama l'unica cosa che lo possa salvare: l'applauso della folla.

La grande intuizione dello spettacolo sta tutta qui: nell'aver tentato, attraverso il linguaggio del corpo dell'attore, di svelare i dispositivi retorici che sostengono la comunicazione politica. E riesce, nella sua semplicità, nell'apparente minimalismo della sceneggiatura e della scenografia, ad arrivare al suo obiettivo.

Discorso Grigio è solo una tappa di un percorso progettato dalla compagnia ravennate che dovrebbe toccare altre tipologie del discorso pubblico, da quello sindacalista a quello pedagogico – il Discorso Giallo che è già in scena, con protagonista Chiara Lagani; da quello giuridico a quello militare.

Sul loro sito, nella presentazione del progetto, vengono poste queste domande:
Che cosa significa 'pubblico'? Che cosa è comune? Quand'è che un gruppo, raccolto attorno a un individuo può dirsi comunità?

Discorso Grigio sembra suggerirci che, almeno nell'ambito del politico, ovvero del discorso che più di qualunque altro dovrebbe fondare e fondarsi sul concetto di comunità, di coesione poleica, di condivisione, questo rapporto sia stato ormai definitivamente interrotto, per ragioni che ineriscono forse alla sempre crescente spettacolarizzazione della politica.

Non a caso, la retorica è definita da Foucault come il contrario della parresia, del parlar-franco. Abbandonata necessariamente la verità, si entra nel grigiore ambiguo della retorica, che ammalia, confonde. 

Il politico, impegnato com'è nella retorica del consenso, non sa che farsene di una comunità: ciò che gli serve è un pubblico. È costretto a dimenticarsi del dialogo, perché le sue orecchie sono turate dalle cuffie della retorica; s'ingrigisce in una maschera divenuta inespressiva per sovrabbondanza di discorso, metafora del tanto vituperato qualunquismo.

Così come l'informazione si perde nel rumore della retorica, l'ideologia si sdilinquisce nella ricerca del consenso. La politica diventa grigia.


Visto il 20 febbraio presso il Teatro i, Milano.

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