La
simbologia, soprattutto se applicata ai colori, può essere ambigua.
È difficile non cadere nei personalismi, nelle idiosincrasie, e
interpretare la semantica del colore con il dovuto distacco. Così è
per Discorso Grigio,
lo spettacolo di Fanny & Alexander dedicato all'analisi teatrale
della retorica politica.
Il grigio è il colore
dell'indistinto, del fumo, dell'opacità. Il grigio è il colore
spurio per eccellenza, il colore del torbido quotidiano, della prassi
ripetitiva. Grigio è l'ordinario. La scelta di questo colore per
connotare il politico in genere risponde, credo, ad una scelta precisa
operata dal gruppo teatrale ravennate.
Già
dalla mise
dell'attore, lo straordinario Marco Cavalcoli, si capiscono le
ragioni di questa scelta. Un uomo ordinario, in giacca e cravatta,
spaurito, prima del grande discorso alla nazione. Non troppo alto, né
troppo basso, nessun segno caratteristico. È la neutralità in
persona. È nervoso, entra in scena, ripete le mosse come l'amante
allo specchio prima dell'appuntamento, cerca di scrollarsi di dosso
tensioni ed incertezze.
Alle orecchie, due cuffie bene in
vista. Niente di quello che dirà, non una delle interminabili e
ripetitive formule retoriche scelte – formule tagliate e incollate
sapientemente, tratte da “discorsi alla nazione” che abbiamo già
mille volte sentito e inconsciamente registrato – nulla sarà
davvero frutto delle sue convinzioni o dei suoi ideali. Il grigiore
del personaggio è soprattutto grigiore delle sue idee: un blob
informe di frasi ad effetto, sconnesse, insignificanti; come
sconnessa ed insignificante è stata la nostra politica, il nostro
discorso collettivo degli ultimi decenni.
Come il pupazzo del ventriloquo, la
voce non è sua. Disperatamente si muove, ripete in modo meccanico la
prossemica dell'oratore di piazza, del venditore di aspira-polveri:
indice verso la folla, per accusare; mano sul cuore, per testimoniare
della sua buona fede; braccia aperte davanti a sé, come il magnanimo
padrone per accogliere le lagnanze dei poveri, oppure slanciate verso
il cielo, per festeggiare la vittoria sicura.
Quasi non sorprende la scelta di
ingigantire le mani del personaggio per farne grottesche appendici di
pupazzo, che si agitano e intralciano i movimenti. I Fanny &
Alexander non hanno fatto altro che mettere sotto una lente
d'ingrandimento gli strumenti propri dell'uomo politico, e sottoporli
al giudizio del pubblico, senza avanzare giudizi o tesi.
Foto di Enrico Fedrigoli |
È
come se il corpo dell'attore subisse un processo di svuotamento,
parallelo allo svuotamento semantico del logos
politico che vorrebbe incarnare.
In un primo momento, il corpo è
costretto a svuotarsi, per sopportare il flusso ininterrotto del
discorso retorico – e i suoi movimenti sconnessi, ripetuti, mi
hanno ricordato delle scariche elettriche, come quelle liberate dai
defibrillatori nel tentativo di ridare anima ad un corpo incosciente.
Quindi si gonfia, nel tentativo ridicolo di dare carne a frasi tanto
altisonanti quanto posticce. Infine, eccolo irrigidirsi in una
maschera plumbea, priva di espressione e di vita, come se fosse stato
toccato dallo sguardo di Medusa.
E infatti, quando l'attore, alla fine
dello spettacolo, rientra in scena, portando un testone sulle spalle
– effigie di questo grigiore, simbolo della impossibilità, innata
alla tecnica del discorso politico, di qualsiasi contatto sincero con
l'uditorio – si lancia in un girotondo malato, ripete
ossessivamente le formule retoriche come fossero un rosario demente.
È il discorso che arriva alla sua logica conclusione: s'avvita su se
stesso, perde forza, si spegne nel non-senso.
Foto di Enrico Fedrigoli |
E alla fine del discorso rimarrà
sulla scena, esausto, in un limbo
di silenzio sospeso. Lo sguardo luccicante, come ogni politico che si rispetti, aspetta l'unica cosa in
grado di legittimarlo, brama l'unica cosa che lo possa salvare: l'applauso
della folla.
La grande intuizione dello spettacolo
sta tutta qui: nell'aver tentato, attraverso il linguaggio del corpo
dell'attore, di svelare i dispositivi retorici che sostengono la
comunicazione politica. E riesce, nella sua semplicità,
nell'apparente minimalismo della sceneggiatura e della scenografia,
ad arrivare al suo obiettivo.
Discorso
Grigio è solo una tappa di un
percorso progettato dalla compagnia ravennate che dovrebbe toccare
altre tipologie del discorso pubblico, da quello sindacalista a
quello pedagogico – il Discorso Giallo
che è già in scena, con protagonista Chiara Lagani; da quello
giuridico a quello militare.
Sul loro sito, nella presentazione del
progetto, vengono poste queste domande:
Che cosa significa 'pubblico'? Che cosa è comune? Quand'è che un gruppo, raccolto attorno a un individuo può dirsi comunità?
Discorso
Grigio sembra suggerirci che,
almeno nell'ambito del politico, ovvero del discorso che più di
qualunque altro dovrebbe fondare e fondarsi sul concetto di comunità,
di coesione poleica, di condivisione, questo rapporto sia stato ormai
definitivamente interrotto, per ragioni che ineriscono forse alla
sempre crescente spettacolarizzazione della politica.
Non
a caso, la retorica è definita da Foucault come il contrario della
parresia, del
parlar-franco. Abbandonata necessariamente la verità, si entra nel
grigiore ambiguo della retorica, che ammalia, confonde.
Il
politico, impegnato com'è nella retorica del consenso, non sa che
farsene di una comunità: ciò che gli serve è un pubblico. È
costretto a dimenticarsi del dialogo, perché le sue orecchie sono
turate dalle cuffie della retorica; s'ingrigisce in una maschera
divenuta inespressiva per sovrabbondanza di discorso, metafora del tanto
vituperato qualunquismo.
Così come l'informazione si perde nel
rumore della retorica, l'ideologia si sdilinquisce nella ricerca del
consenso. La politica diventa grigia.
Visto
il 20 febbraio presso il Teatro i, Milano.
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