"Nothing beside remains. Round the
decay
Of that colossal wreck, boundless
and bare,
The lone and level sands stretch
far away."
P. B. Shelley
Anche
i Greci hanno avuto i loro
Greci. Lo stupore schiacciante che proviamo al cospetto delle opere e
dei personaggi dell'antichità greca è analogo alla meraviglia
timorosa che gli stessi greci hanno espresso nei confronti della
civiltà minoica.
Ogni civiltà si sceglie i propri
antenati, più o meno coscientemente, in un processo di invenzione e
definizione delle proprie radici. Per questo motivo, ogni civiltà
rimpiange un passato dorato, un'epoca perduta di grandezza e
perfezione, che funge da indicazione per il futuro, e allo stesso
tempo da lievito stimolante.
"Fare
meglio, fare di più",
superare i propri padri: il rimpianto del passato è un meccanismo
che si potrebbe quasi definire evoluzionistico, data la sua
importanza per la storia del pensiero e della civiltà umane. Non si
può crescere, non si può mutare se non in rapporto o in opposizione
ad un modello mitico scelto tra i tanti possibili.
All'Occidente
è toccata l'antichità (l'arché)
greco-ellenistico-romana, congerie di paradigmi, stili, pensieri
tanto compositi quanto artificiali; per gli antichi greci, questo
metro di crescita fu rappresentato dalla civiltà minoico-micenea. A
ciascuno i suoi miti.
Omero canta questa fascinazione nei
suoi poemi, affreschi formidabili di una grandezza micenea ormai
perduta; i pensatori più tardi, tra cui non pochi filosofi,
riecheggiano spesso (quasi un luogo comune) i fasti della civiltà
minoica, impossibili anche solo da concepire senza provare un
brivido.
Creta è la terra del grande passato
perduto, dei sovrani divini e inossidabilmente giusti, come Minosse.
Creta ha rappresentato per i Greci antichi l'immagine scolorita di un
impero sterminato, che comandava dalle Cicladi a Cipro; era un
paradigma di talassocrazia che hanno provato, per qualche tempo, ad
uguagliare; era un modello commerciale formidabile, sia per la
posizione strategica, sia per l'abilità con cui i commercianti
minoici riuscivano a portare a termine gli affari, anche con il
faraone d'Egitto; era la terra dei palazzi abnormi, terrificanti per
la loro complessità e allo stesso tempo seducenti per la ricchezza
incalcolabile.
Creta
è il paese nemico che ogni nove anni chiede fanciulli e fanciulle ad
Atene per darli in pasto al Minotauro, macchia di un peccato
disumano. È l'Altrove nel quale relegare le nemesi del pensiero
domestico, il luogo in cui prendono forma i contenuti più sfrenati
dell'immaginazione mitica, come il labirinto.
Non
sappiamo quasi niente di questa civiltà, se non qualche fondamento
della loro estetica e della loro urbanistica. Distrutti due volte,
due volte ricostruiti, dei grandi palazzi minoici non restano che
dubbie ricostruzioni tardo ottocentesche.
Della loro arte leggera e libertina,
così distante dalla coeva arte egizia, ieratica e frontale,
rimangono frammenti ormai muti e incoerenti: figure umane che
sembrano guardarci con il sorriso divertito di chi sta per svelare un
enigma, giovani ragazze dal seno scoperto, qualche toro.
Il grande e nobile passato della civiltà minoica è oggi un frammento, così come lo sono per noi le
polis greche da cui vantiamo di essere discesi. Tutto scompare, ma
non il bisogno di una mitografia delle origini, di antenati migliori,
che ci indichino le miserie del presente per organizzare meglio il
nostro futuro.
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