mercoledì 10 settembre 2014

Es patrìda gaian #8

"Nothing beside remains. Round the decay
Of that colossal wreck, boundless and bare,
The lone and level sands stretch far away."

P. B. Shelley

Anche i Greci hanno avuto i loro Greci. Lo stupore schiacciante che proviamo al cospetto delle opere e dei personaggi dell'antichità greca è analogo alla meraviglia timorosa che gli stessi greci hanno espresso nei confronti della civiltà minoica.

Ogni civiltà si sceglie i propri antenati, più o meno coscientemente, in un processo di invenzione e definizione delle proprie radici. Per questo motivo, ogni civiltà rimpiange un passato dorato, un'epoca perduta di grandezza e perfezione, che funge da indicazione per il futuro, e allo stesso tempo da lievito stimolante.


"Fare meglio, fare di più", superare i propri padri: il rimpianto del passato è un meccanismo che si potrebbe quasi definire evoluzionistico, data la sua importanza per la storia del pensiero e della civiltà umane. Non si può crescere, non si può mutare se non in rapporto o in opposizione ad un modello mitico scelto tra i tanti possibili.

All'Occidente è toccata l'antichità (l'arché) greco-ellenistico-romana, congerie di paradigmi, stili, pensieri tanto compositi quanto artificiali; per gli antichi greci, questo metro di crescita fu rappresentato dalla civiltà minoico-micenea. A ciascuno i suoi miti.

Omero canta questa fascinazione nei suoi poemi, affreschi formidabili di una grandezza micenea ormai perduta; i pensatori più tardi, tra cui non pochi filosofi, riecheggiano spesso (quasi un luogo comune) i fasti della civiltà minoica, impossibili anche solo da concepire senza provare un brivido.

Creta è la terra del grande passato perduto, dei sovrani divini e inossidabilmente giusti, come Minosse. Creta ha rappresentato per i Greci antichi l'immagine scolorita di un impero sterminato, che comandava dalle Cicladi a Cipro; era un paradigma di talassocrazia che hanno provato, per qualche tempo, ad uguagliare; era un modello commerciale formidabile, sia per la posizione strategica, sia per l'abilità con cui i commercianti minoici riuscivano a portare a termine gli affari, anche con il faraone d'Egitto; era la terra dei palazzi abnormi, terrificanti per la loro complessità e allo stesso tempo seducenti per la ricchezza incalcolabile.

Creta è il paese nemico che ogni nove anni chiede fanciulli e fanciulle ad Atene per darli in pasto al Minotauro, macchia di un peccato disumano. È l'Altrove nel quale relegare le nemesi del pensiero domestico, il luogo in cui prendono forma i contenuti più sfrenati dell'immaginazione mitica, come il labirinto.

Non sappiamo quasi niente di questa civiltà, se non qualche fondamento della loro estetica e della loro urbanistica. Distrutti due volte, due volte ricostruiti, dei grandi palazzi minoici non restano che dubbie ricostruzioni tardo ottocentesche.

Della loro arte leggera e libertina, così distante dalla coeva arte egizia, ieratica e frontale, rimangono frammenti ormai muti e incoerenti: figure umane che sembrano guardarci con il sorriso divertito di chi sta per svelare un enigma, giovani ragazze dal seno scoperto, qualche toro.



Il grande e nobile passato della civiltà minoica è oggi un frammento, così come lo sono per noi le polis greche da cui vantiamo di essere discesi. Tutto scompare, ma non il bisogno di una mitografia delle origini, di antenati migliori, che ci indichino le miserie del presente per organizzare meglio il nostro futuro. 

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