giovedì 9 settembre 2010

Generazioni a confronto. Devianze da Paolo Nori.


La cornice non era delle migliori per godersi lo spettacolo, ma ci accontentiamo.

Paolo Nori alla festa del PD è un bel regalo, perciò bando a inutili critiche: potrei descrivere gli occhi rapiti dei pochi spettatori per fugare ogni dubbio su interesse o efficacia.

Nori è un incredibile narratore. Qualità rara, rarissima, che non si può coltivare né acquistare col tempo: o c’è, oppure la gente non ascolta, sbadiglia, si perde nei suoi pensieri e chi si è visto, si è visto.

È vero, ci sono e ci saranno sempre ottimi narratori su carta che in pubblico faticano ad esprimersi (famoso il caso di Calvino); non ne faccio una colpa. Ma credo sia innegabile che oggi una delle doti più rare, e perciò stesso, preziose, sia quella di riuscire ad arrivare al pubblico più ampio possibile, domando i mezzi di comunicazione per farsi ascoltare; e, soprattutto, raccontare senza farsi influenzare dal contesto.

La presentazione del nuovo libro, I Malcontenti, a metà strada tra lettura pubblica e recitazione, è filata liscia per una buona oretta, trascinata dall’accento parmigiano buffo e salmodiante di Nori, che racconta come è nato il libro, il punto di vista dei vari personaggi, esperienze realmente accadute, la Bologna in cui vive, i pensieri dei protagonisti, tutto in unico flusso di (in)coscienza in cui reale e fittizio di rafforzano vicendevolmente.

Non voglio raccontare del libro, né della pelata di Nori, né delle persone presenti. Voglio piuttosto parlarvi di un’idea che mi ha colpito più delle altre – anzi, a pensarci bene non so nemmeno se sia sua o di un suo personaggio: e sarebbe importante saperlo, perché gli scrittori non condividono – quasi – mai le idee dei loro esseri di carta.

Il ragionamento è semplice, di carattere generazionale. Come tutti i discorsi sul passare del tempo, affascina il pubblico, poiché sembra innalzare il discorso quotidiano, il meschino evento di tutti i giorni alla dimensione storica, nobilitandone il carattere.

Riporto quasi testualmente:

Chi è nato negli anni ’20 e aveva vent’anni negl’anni ’40, doveva combattere perché servivano braccia per difendere la nazione. Chi è nato negli anni ’30 e aveva vent’anni negl’anni ’50, doveva lavorare, perché c’era da ricostruire la nazione. Chi è nato negli anni ’40 e aveva vent’anni negl’anni ’60, anche lui doveva lavorare perché c’era il boom economico e non si poteva non lavorare. Chi è nato negl’anni ’50 e aveva vent’anni negl’anni ’70, doveva protestare perché il modo in cui era stata ricostruita la nazione non andava più bene. Infine, chi è nato negli anni ’60, e aveva vent’anni negli ’80, non doveva penare per lavorare, ché c’era già lavoro pronto, né protestare, ché tutto andava bene; insomma non doveva romper troppo i maroni. *”

[ * Tutto questo calcolare era inserito in un contesto più ampio, che ho colpevolmente dimenticato di citare: la tesi era che la disperazione non è solo una forza negativa, ma può divenire il motore di miglioramento delle condizioni di vita.]

Perché poi occorra per forza prendere in riferimento i vent’anni di una persona come se fossero quelli i più importanti, non è dato a sapere; ma il discorso è indubbiamente interessante.

Come al solito, ho subito riflesso l’argomento per la mia generazione: chi è nato negli anni ’90, e aveva vent’anni negli anni ’10, come verrà ricordato?

Si tratta qui di cercare di ricostruire un senso di questi ultimi 10-20 anni, compito immane per il motivo stesso che il tempo non è ancora passato, ci è come appiccicato addosso e non possiamo comprenderlo appieno.

Tuttavia si possono isolare delle date importanti, avvenimenti che hanno sicuramente influito sulla vita di tutti i ventenni di oggi.

D’obbligo ricordare la caduta delle Torri Gemelle (“la più grande opera d’arte della Storia”, secondo Stockhausen): eravamo piccoli, è vero, ma non abbastanza da ignorare l’assurda pregnanza storica di quell’avvenimento. Alcuni hanno dapprima scambiato il vero con il fittizio, è pensavano quelle immagini frutto di un regista visionario; questo tuttavia è un epifenomeno collegato alla spettacolarizzazione del mondo (come dimenticare il povero Truman intrappolato nella sua gabbia dorata), e non al movimento della Storia.

Il passaggio dalla lira all’Euro, gli odiosi problemi di aritmetica sul cambio, che venivano impartiti alle elementari per “preparare i ragazzi al futuro” – come se sapere il valore dei soldi assicurasse poi la loro venuta; il numero magico 1.936,27 – e i genitori che ci dicevano semplicemente, “costa tutto il doppio!

L’ascesa di Internet: questa volta davvero troppo esigui i nostri anni per capirla fino in fondo, attestata ai nostri occhi da siti che diventavano sempre più belli e colorati, e dalle prof. dicevano “non scaricate da internet!”, dalla scuola che reinventava un ripostiglio nella caldissima “aula computer” e dalle rapide nonché fallimentari visite a fiato sospeso sui “siti porno”.

Lo scoppio della cosiddetta Seconda guerra del golfo, l’invasione dell’Afghanistan prime e dell’Iraq poi, in quei paesi lontani che occupavano nell’immaginazione dei più spazi desertici e insignificanti. Le facce barbute di Osama bin Laden, di cui ritrovavamo il nome scritto sulle penne a scuola (!) e grugno di Saddam Hussein.

Il dilagare del terrorismo, prima in America, poi in Spagna, quindi in Inghilterra: la paura degli aerei e dei volti intercontinentali; l’angoscia constante della carica esplosiva, il sospetto del diverso, e delle religioni diverse.

Il G8 di Genova, i visi insanguinati, le botte, Giuliani.

La paura per malattie incurabili, pronipoti della pesta nera, che sarebbero arrivate spazzando via l’intera civiltà umana: ora la SARS; ora l’aviaria; ora la suina; ora l’H1N1 – e non arrivavano mai.

La guerra infinita in Israele, il Conflitto per eccellenza, i visi stravolti dei palestinesi dopo il fosforo bianco, i giovani e spaesati ebrei sui carri armati, pronti a far fuoco ai loro compagni di scuola; la morte di Arafat, proprio lui che sembrava non dover morire mai.

Il crollo degli ideali politici, iniziato col Muro e proseguito in Italia con Mani Pulite, o Tangentopoli, versione più complicata e noiosa del Monopoli, almeno per i più piccoli.

L’allarmismo ecologico, l’effetto serra, i CFC, lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello del mare, il catastrofismo del “giorno dopo domani”, l’attesa spasmodica dell’Armageddon finale e le sue innumerevoli testimonianze prima in Umbria, poi in Indonesia, a New Orleans, in Abruzzo e ad Haiti.

I martiri della mafia, Falcone, Borsellino, da una parte; e la schifosa connivenza dei governi, gli intrallazzi, la completa amoralità di ogni partito politico.

La faccia di Berlusconi che da quando abbiamo memoria continua a governare la nostra penisola, come un grande fratello ridanciano e barzellettiere – e l’ascesa della Lega, questi strani esseri verdi e grassi che dicevano parolacce in televisione.

La morte del Papa, i suoi funerali, l’odio quasi istintivo che il povero (si fa per dire) Ratzinger emanava naturalmente e suscitava nel pubblico (“Quel tedesco? Papa?! Oh mi signor!”, citazione a memoria di mia nonna, pia e fedele volontaria a Santa Teresa.)

Obama, il primo presidente americano nero. “Non dura due mesi, gli sparano prima.”

E Veltroni che gli ruba il motto: “Yes we can”. Poi abbiamo capito che da noi non si poteva fare.

E quindi? Quelli nati nel ’90, segnati fin dalla nascita dalle infinite crisi economiche, dal crollo della superpotenza e del sogno americani, dalla morte della politica, dal terrorismo globale, dal precariato?
Quelli che avevano vent’anni negli anni ’10, all’inizio di un secolo nato nero, senza troppe prospettive per il futuro, giovani eppure già disillusi e cinici come cinquantenni, svogliati, convinti dell’inutilità di tutto quello che li circonda, scettici ma privi di domande?

Sembra di vivere la tragicomica seconda caduta d’un redivivo positivismo: la sfiducia per il futuro è la stessa; le stesse certezze di progresso e infinito miglioramento che crollano.

Forse, chi è nato negli anni ’90, e aveva vent’anni negli anni ’10, l’unica cosa che poteva fare, era vivere la propria vita senza troppe illusioni – senza credere in essa.

7 commenti:

  1. Effettivamente è curioso (o angosciante) riflettere su ciò che la storia dirà di noi, e su ciò che noi diremo sulla nostra storia. Forse la nostra generazione di ventenni ha sviluppato una sorta di velo impermeabile contro ciò che ci è/e ci sta scosciando addosso... o forse è la semplice dinamica di ogni generazione, poiché alla fin fine del sentimento sugli eventi rimane solo che il ricordo di qualcosa che comunque era differente dalla storia reale di storici e critici.
    Essenziale è tenere in noi il più possibile di ciò che abbiamo vissuto finora, e, visto che è solo ora che iniziamo a poter fare effettivamente qualcosa, che abbiamo i poteri per cercare di plasmare nel nostro piccolo la nostra realtà, bisogna rimboccarsi le maniche in qualche modo iniziando a ricredere nella propria vita. E se qualcuno crede al crollo dei valori, la risposta è semplice: anche quelli sono fatti per cambiare, proponiamone di nuovi! Inutile disilludersi di tutto e di tutti in un asettico relativismo. Se già “Chi è nato negl’anni ’50 e aveva vent’anni negl’anni ’70, doveva protestare perché il modo in cui era stata ricostruita la nazione non andava più bene” perchè non possiamo farlo ora anche noi? Abbiamo i mezzi, manca la volontà...

    RispondiElimina
  2. E se fossero i mezzi a mancare, e non la volontà?

    RispondiElimina
  3. Sono finito più o meno casualmente su questo blog e ho cominciato a leggere la cronaca della presentazione di Nori, e in questa scrittura ho trovato una lucidità e un entusiasmo che mi hanno fatto pensare a un ragazzo che ho conosciuto pochi anni fa durante un concorso letterario, e che poi ho rivisto per le strade della nostra città. E, incredibile, guardandomi un po' intorno, spulciando fra i profili, ho scoperto che quel ragazzo sei proprio tu. Bentrovato Jacopo, sono contento di leggerti.
    Giorgio Pozzi

    RispondiElimina
  4. La domanda è pura possibilità retorica o riferita a casi particolarizzabili?

    RispondiElimina
  5. Ti ringrazio Giorgio, è bello risentirti dopo tanto tempo. Checché ne possano dire i poetucoli della nostra provincia, la rete ti dà, soprattutto quando non vuoi, molta visibilità. Questa ne è la prova.

    Il concorso alla Fernandel: estate 2007 se non sbaglio. E' stata un'esperienza importante per me: ha seminato quelli che sarebbero diventati i germi delle riflessioni sulle città che trovi su queste "pagine".

    A presto, mi farebbe piacere fare quattro chiacchiere e sapere come te la passi.

    RispondiElimina
  6. @ Jacopo: né l'una ne l'altra.
    E' una semplice e disincantata risposta al tuo acuto intervento.

    Credo proprio che oggi, per la nostra generazione educata, mediamente colta (almeno più dei nostri padri), disillusa dalla politica, cresciuta sotto la voce di relativismo culturale, priva di solide radici di storiche, non manchino in fondo né la cultura né la volontà di cambiare le cose. Mancano piuttosto i mezzi.

    RispondiElimina
  7. o ci si crogiola sbadatamente nel limbo della discussione per sfogare il pensiero nel solito nulla di fatto...

    RispondiElimina