venerdì 14 gennaio 2011

Metodo e crisi

Esistono dei momenti particolari nella storia, delle epoche in cui la percezione del mondo cambia. È proprio in questi periodi che si affaccia la necessità della fondazione di nuovi metodi.

La crisi sopraggiunge a seguito di scoperte scientifiche rivoluzionarie, di avvenimenti storici dalla portata epocale, a seguito di invenzioni che cambiano il corso degli eventi. Può essere l'influenza di una personalità formidabile, capace di smuovere forze e pensieri umani, o dal lavoro di un individuo isolato: non importa.

La crisi innesca una messa in discussione generale delle conoscenze stabilite e crea l'urgenza di una ristrutturazione del sapere, di battere nuove nuove vie per giungere alla verità.

(Diamo per scontato che sia il fatto a influenzare il metodo, ma questo non è sempre ovvio: il mutamento, più verosimilmente, procede in parallelo. Il fatto crea cambiamento nel metodo e il metodo, a sua volta, cerca fondamento sul fatto.)

La via per arrivare alla “semplice e rotonda verità”: questo è il metodo.

Meta, oltre, dopo; hodòs, cammino, strada. Strada che cerca di giungere, attraverso fatiche e dubbi e prostrazioni, alla certezza non più discutibile.

La metafora della via è particolarmente utile per trasmettere il senso di movimento e fatica; sembra descrivere il pellegrinaggio del credente in cerca della fede perfetta.

Filosofi, scienziati, pensatori in generale, proprio in questi momenti di cambiamento radicale, di rovesciamento di paradigma, hanno sollevato la questione del metodo come strumento per fondare le nuove conoscenze o, a seconda dei casi, per metterle in crisi.

Il metodo è la questione iniziale per eccellenza: ogni filosofia o sistema di pensiero inizia con un metodo. È un bisogno preliminare tipico della razionalità umana: prima di mettersi in cammino, bisogna riflettere sul cammino stesso, sul tipo di percorso, sui limiti della via.

Occorre decidere la modalità precipua di conoscenza: in un primo momento facendo piazza pulita delle vecchie costruzioni, che ormai non si adattano più, e disorientano dal fine. Poi decidendo cosa è lecito sperare di trovare e cosa invece tagliare fuori dalle possibilità di certezza.

Una breve panoramica in ambito filosofico - scientifico può aiutare a capire di cosa stiamo parlando.

Galileo intuì le potenzialità di un nuovo strumento ottico inventato in Olanda. Invece di usarlo per battere sul tempo i nemici, lo puntò verso la volta celeste. Trascorse un inverno al freddo, osservando, annotando le sue “sensate esperienze” diligentemente. Fu la nascita del Sidereus Nuncius.

Dai semplici fatti contenuti in quel libro, e nulla di più, la visione aristotelica del mondo era messa in discussione. Sorgeva il problema di rifondare la conoscenza umana. Di rendere conto, razionalmente, di quello che l'aristotelismo non immaginava neppure.

L'origine del metodo scientifico galileiano: radicare la conoscenza dall'osservazione diretta e matematizzare i dati forniti dai sensi. Infine dedurne principi generali per ampliare la conoscenza umana.

E se c'è qualcosa che stride con la Sacra Scrittura, allora è colpa dell'interpretazione umana del Verbo divino, non del fisico che legge l'altro grande libro di dio, la Natura, scritto nei caratteri dei quali lui solo è il vero esegeta: caratteri matematici.

Diversamente stanno le cose con Bacone. Anch'egli avverte il bisogno di costituire un “nuovo organo” logico, che rimpiazzasse le vecchie e desuete argomentazioni scolastiche, buone solo per le dispute teologiche: “idola theatri”, preconcetti filosofici di cui è essenziale disfarsi per amore della verità.

Ecco che subentra l'esperienza diretta dei fatti, proveniente dalla non più inutili arti meccaniche, la fedele annotazione di essi su tavole della verità, e infine l'induzione di principi primi, che rispecchiano la cosa stessa. La fiducia nell'induzione sperimentale era assoluta.

L'elevazione definitiva della matematica a forma paradigmatica di conoscenza, modello per tutte le altre discipline, si ha con Descartes. La matematica diventa addirittura uno strumento innato nell'uomo, proveniente nientemeno che da dio stesso. É la sua origine metafisica ad assicurarne la validità.

Nel Discours vengono isolati quattro principi fondamentali per dirigere la nostra mente verso la verità incontrovertibile.

É il metodo cartesiano: individuare idee chiare e distinte, analizzarle (ovvero scomporle in più semplici e maneggevoli idee secondarie), sintetizzarle (ricomporle una volta scelte le idee vere) ed enumerarle per essere sicuri di non avere dimenticato qualcosa.

Era l'inizio delle due grandi correnti filosofiche della modernità: il razionalismo continentale e l'empirismo anglosassone.

Ma il tempo passa e non lascia mai le stesse carte sul tavolo. Il razionalismo dovette lasciare il posto al sistema newtoniano che sì, ammetteva ancora un dio regolatore, ma non ne faceva l'asse portante del suo metodo. Troppo pericoloso lasciare il cammino della verità nelle mani di un padrone invisibile: sarebbe un ritorno alla scolastica.

L'empirismo invece finì coll'implodere su sé stesso: è vero, noi sentiamo cose, avvertiamo oggetti esterni, ed ogni nostra conoscenza viene dall'esterno. Ma dove finisce la scienza e dove inizia l'interpretazione? Se tutto quello che esperiamo è contingente, allora lo sarà anche la nostra scienza.

La crisi fu seria: ancora oggi ne subiamo le dirette conseguenze. Einstein dovette fare a meno delle prove sensibili e, paradossalmente, si ritornò alla pura speculazione filosofica. Planck, d'altra parte, non riuscì a sfuggire alla sua probabilità, e sembrò quasi che dio giocassi ai dadi col mondo.

La filosofia della scienza contemporanea, poggia sul principio di falsificazionismo. Abbiamo rinunciato alla meta: non possiamo che ribaltare il concetto e reputare al massimo probabile una teoria che può essere falsificata.

Oggi è la possibilità della confutazione che fonda scientificamente la teoria.

Abbiamo posto dei limiti al nostro percorso, ritagliandoci un minuscolo itinerario lungo il quale possiamo essere relativamente (!) tranquilli e fuori pericolo, lontano dallo scetticismo più estremo.

Ma un metodo che si autolimita, che rinnega la sua meta, che non ha più direzione, e rischia di farsi fine laddove dovrebbe restare solo il mezzo, può ancora portare tale nome? Non è questa una crisi dalla quale, forse, potrebbe nascere un nuovo metodo?

4 commenti:

  1. "contro il metodo" p. k. feyerabend

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  2. Ottimo!
    Buona risposta quella di Feyerabend, ma non mi convince del tutto. Le sue critiche a Popper sono fondate

    a) rischia di semplificare il concetto stesso di processo scientifico
    b) paradossalmente è troppo fiduciosa in sè stessa
    c) non tiene conto della casualità, forse la vera fonte della scoperta;

    Ma oltre a ciò, il non-metodo è pur sempre una scelta di metodo.

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  3. No, no, non giochiamo con le parole, un metodo è un metodo, un non-metodo non è un metodo. Un non-metodo sarebbe un metodo solo se presupposto tale, se fosse nome a fascio di un numero x di pratiche che blabla la verità ecc., "il non-metodo per le meduse", ad esempio, ma se intendiamo il non-metodo come l'abbandono di metodo allora la tua critica sbaglia nella lingua, non incatenarti ai significanti, c'è una dimensione pratica della faccenda che non deve assolutamente essere scordata nell'allestire quella teorica, e per la qual dimensione pratica un non-metodo non è un metodo, può esserlo solo sul piano linguistico! Non-M ti sembra uguale a M perché la negazione di per sé non stravolge le qualità di M stesso (se è negazione di M, allora per forza non-M include M nel suo significato stesso). Se ci credi, allora presentati dal tuo veterinario portandogli il tuo non-gatto, sostenendo che alla fine bene o male sia proprio un gatto. A una scelta metodica non consegue la scelta di un metodo, qui sbagli, oltretutto la scelta metodica si realizza su un piano completamente diverso dall'oggetto stesso della scelta (e cioè "metodo sì o no?), mi spiego? La scelta di un metodo non è una scelta di metodo, scegliere un non-metodo non è scegliere un metodo successivo ma è abbandonare il precedente.

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  4. Il paragone col gatto dal veterinario mi è piaciuto molto.

    Beh, la tua critica è fondata, mi sembra: ma vediamo la questione da due punti di vista diversi.

    Secondo te, se ho capito bene, è possibile non avere un metodo, punto.
    Secondo me no, dal metodo non si esce. O meglio non si esce da una "scelta di metodo".

    L'intervento voleva dare una definizione, per quanto limitata e manchevole, al concetto di metodo, e mostrare come nel corso della storia del pensiero moderno la questione del metodo rimane un punto d'importanza capitale per ogni costruzione filosofica e scientifica, soprattutto in tempi di crisi dei saperi.

    Sintetizzando, sono convinto che non si arrivi a risultati speculativi concreti senza la scelta preliminare di un metodo, che può essere anche del tutto personale o può addirittura essere la scelta di non averlo.

    In ogni caso, la mente razionale richiede di essere limitata, definita, circoscritta al fine di sapere su cosa è lecito indagare e cosa invece conviene tenere fuori dalla sua portata.

    Per il sottocritto, è precisamente questa definizione in negativo ("questo non è lecito, questo non è conoscibile") la molla che spinge alla ricerca, attraverso la critica alle conoscenze pregresse o date per assodate.

    Nel caso di Feyerabend, mi sento di dire che la sua scelta esplicita di non avere metodo ricade all'interno della necessità razionale di critica alle conoscenze stabilite, in modo da ridefinire l'ambito d'indagine scientifica.

    Definisco il mio campo e do un fondamento ai miei risultati - spesso criticando quelli degli altri - proprio scegliendomi un metodo.

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