sabato 28 maggio 2011

L'arte e il male. Nietzsche e Dario Fo a confronto.


In mezzo a quella selva teorico-poetica che è lo Zarathustra, uno dei temi che ci sembrano fondamentali è quello della leggerezza, declinato in due figure principali: la danza e la risata.

Tutto il libro è percorso dalla lotta contro lo spirito di gravità (“Il mio demone e nemico capitale[La visione e l'enigma; Za, III]), ovvero contro quell'insieme di teorie teologiche non meglio determinato accomunate dalla mortificazione del corpo e del mondo, dall'abbassamento dell'individuo a servo di una religiosità triste e cupa, dall'anelito a una realtà extra-mondana fittizia e foriera di infelicità su questa terra.

Quale fu fino ad oggi sulla terra la colpa più grande? Non furono le parole di colui che disse: “Guai a coloro che ridono!”? (cfr. Luca, 6, 25: “Guai a voi che ora ridete perché sarete afflitti e piangerete”) Forse non trovò sulla terra motivi per ridere? Allora aveva cercato male. Un bambino riuscirebbe a trovare di questi motivi.” [Dell'uomo superiore; Za, IV]

Il quasi-motto di Zarathustra, “Fratelli, rimanete fedeli alla terra!” può e deve essere inteso proprio sotto questo aspetto: il rifiuto incondizionato di tutto ciò che in un qualche modo “tradisce” la terra, come chi cerca ad esempio di abitare un mondo dietro al mondo (i metafisici o hiterweltlern), chi dispregia il corpo e i suoi bisogni (i teologi) o ancora chi cerca di rifugiarsi dietro falsi valori per quieto vivere, dimenticandosi di se stesso (la plebe).

Al contrario, la risata e la danza, intese come figure della leggerezza e del superamento di sé stessi tanto caro a Nietzsche, si situano all'esatto opposto di tutta quella sfera teorica che tende a gravare sull'individuo come un fardello, a piegarlo come un “cammello nel deserto”, annichilendone la volontà.

Perché è proprio questo che cerca di insegnare lo Zarathustra: imparare a piegare il caso e l'assurdità della vita umana attraverso l'esercizio della propria libera volontà. Una delle tante vie di questo superamento è la via figurata della leggerezza, della risata, della danza (le cito assieme perché nell'opera di Nietzsche sembrano quasi costituire un distico sacro: laddove è citata la risata, quasi sempre sarà accompagnata da un richiamo alla danza).

Innumerevoli luoghi trattano della risata. Essa viene innalzata a insegnamento capitale nello Zarathustra, dal primo all'ultimo dei quattro libri (“E falsa sia per noi ogni verità, che non sia stata accompagnata da una risata!” [Di antiche tavole e di nuove; Za, III]; “”Io ho santificato il riso!” [Dell'uomo superiore; Za, IV]).

Ecco qualche esempio per chiarire meglio il tema che ci apprestiamo a trattare.

Voi guardate verso l'alto quando cercate elevazione. E io guardo in basso, perché sono elevato. Chi di voi è capace di ridere e, insieme, di essere elevato? Chi sale sulle vette dei monti più alti, ride di tutte le tragedie, finte e vere. (…) Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare. (…) Non con la collera, ma col riso si uccide. Orsù, uccidiamo lo spirito di gravità!” [Del leggere e scrivere; Za, I]

Ridere delle tragedie: ovvero ridere dell'elemento assurdo e incommensurabile dell'esistenza, superarlo, rendersi immuni. Anche perché l'assurdo, paradossalmente, si può rivelare di grande utilità per il saggio. Infatti:

(…) i fanatici e i collitorti, cui anche il cuore penzola, predicano : “Il mondo non è altro che un mucchio di lordume”. (…) Vi è nel mondo un mucchio di lordume: questo è vero! Ma non per questo il mondo sarà un mucchio enorme di lordume! Vi è saggezza nel fatto che molte cose al mondo abbiano un odore cattivo: proprio la nausea fa spuntare ali e crea energie presaghe di sorgenti!” [Di antiche tavole e di nuove; Za, III]

È la nausea per lo schifo che esiste senza dubbio in questo mondo, secondo il linguaggio figurato di Nietzsche, che permette al saggio, all'uomo leggero di riderne e accettarlo così come appare, come un mucchio di lordume.

In ogni passaggio chiave del testo si trova senza eccezione un riferimento alla leggerezza del saggio, al potere della risata e della danza. Non senza sorprese, Nietzsche decide di chiudere il capitolo forse più citato e più controverso dell'opera (e per questo più pericoloso), La visione e l'enigma, proprio con l'immagine di una risata.

Siamo nel cuore dell'opera: si tratta della terribile intuizione dello Zarathustra, del suo “pensiero abissale”, l'unico davanti al quale anche il maestro della leggerezza sembra arretrare e tentennare, comportandosi come un convalescente (cfr. Il convalescente; Za III)

L'eterno ritorno dell'uguale, il divenire eracliteo curvato fino all'essere parmenideo: questo renderebbe vano e assurdo qualsiasi pensiero di libertà o responsabilità individuale.
Non solo: con una torsione teoretica estrema si arriverebbe a postulare l'assurdità della necessità. É qui che entra in gioco l'oltre-uomo, capace di accettare l'eterno ritorno; anzi, capace di aggredirlo e mozzarne la testa da serpente con un solo, terribile morso. Innalzarsi al di sopra del più terribile dei pensieri, al di sopra dell'intuizione che renderebbe vana e assurda ogni cosa, cavalcarla proprio con una risata.

Non più pastore, non più uomo, - un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai al mondo aveva riso un uomo come lui rise! Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo (…) La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora! [La visione e l'enigma; Za, III]

Ed ecco come, alla fine del nicciano superamento di sé, l'elemento della risata sembra rivestire l'importanza più grande, divenendo l'emblema dell'uomo nuovo, che accetta l'assurdo ridendone, scavalcandolo, infinitamente più lieve.

(…) che tutte le cose grevi divengano lievi, tutti i corpi danzanti, tutti gli spiriti uccello: e davvero questo è il mio Alfa e Omega!” [I sette sigilli, 7; Za, III]

Perché parlare di Nietzsche, di un filosofo, all'interno di un percorso teorico centrato sull'arte, e sul rapporto di questa con il male?
Primo per la straordinaria carica poetica delle sue opere: Nietzsche riscoprì uno stile oracolare, ai suoi tempi avversato dai più, che fini per aumentare la polisemia del suo pensiero e per renderlo più vivo. Secondo: per mostrare che l'idea della risata non solo come strumento d'elevazione e leggerezza, ma anche come arma contro il male e l'assurdo, viene da molto lontano. E la risata, come l'arte, è un tratto tipico della natura umana.

Per far questo mi servirò del capolavoro di Dario Fo, Mistero Buffo.
Come per lo Zarathustra, anche in questo caso di troviamo davanti a un calderone di immagini, spunti teorici e stilemi incredibilmente vario. Per ciò mi concentrerò in particolare su una tra le tante giullarate popolari raccolte in anni di lavoro: La nascita del giullare.

Il testo è di tradizione antica: si parla di una giullarata duecentesca, sicuramente diffusa in tutta Europa. Come tipico di molte altre rappresentazioni sacre medievali, al lazzo è accostato l'elemento tragico: tratto che sarà ripreso fino ai giorni nostri, basti pensare alla commedia all'italiana del Novecento.

Il testo inizia con l'arrivo del giullare, che richiama a sé l'attenzione promettendo di far scompisciare il pubblico con le sue danze e le sue imitazioni; poi, però, fin dalle prime battute, il racconto prende un'altra piega. Il giullare inizia a raccontare la sua storia personale: una storia terribile, tragica (cui rimando la lettura a chi interessato).

In origine era un contadino, la sua era una vita miserabile come migliaia di altre vite del tempo. Schiacciato dallo strapotere padronale, costretto a un lavoro forzato nei campi, umiliato costantemente dal potere costituito.

(In Mistero Buffo non sono rari commenti esterni allo spettacolo che oggi ci fanno sorridere, zeppi come sono di riferimenti alla cultura sessantottina e sinistroide del tempo: ecco che il contadino diviene simbolo del proletariato, e la rivolta al padrone un'allegoria della presa di coscienza della lotta rivoluzionaria!)

Ed ecco che, aiutato da un miracolo divino (nientemeno che un bacio di Gesù), il contadino si “trasforma” in giullare, e del giullare acquista tutti i crismi: l'eloquio straripante, la gestualità, la capacità di raccontare ed essere ascoltato, il potere della parola.

A ve mostrerò 'me se trasformeno i paròli in lame tajénti che i stronca d'un boto i garéti dei impostori infami... e altre parole che divegne tamburi per desvegiare i çerveli dormienti! Venìt!

Ecco delineate, con un linguaggio incredibilmente espressivo la capacità carattersitica del giullare, ovvero quella di stimolare la risata. Una risata che supera le tragedie, che le scavalca, come la risata nicciana e non solo; una risata che taglia come una lama, che risuona nel cervello addormentato della gente come un tamburo.

S'intuisce adesso come il discorso svolto finora possa inserirsi all'interno della nostra riflessione: anche in questo caso, l'arte, sotto forma di spettacolo giullaresco, è capace di parlare delle tragedie, dell'assurdità quotidiana; è capace di sollevare il fruitore dallo sconforto, ma senza dimenticarlo o minimizzarlo.

É proprio quando affronta temi come quello della morte di innocenti (cfr. La strage degli innocenti), del dolore della madre per la sofferenza del figlio, dell'ingiustizia e della terribile condizione umana (cfr. Maria alla Croce, Gioco del matto sotto la Croce), pur riuscendo a mantenere la capacità di far ridere che, a nostro avviso, il teatro di Dario Fo raggiunge vette artistiche ed espressive raramente eguagliate.

Il tutto parlando un linguaggio semplice, volgare nel senso buono del termine, intriso di quella saggezza popolare che si ritrova spesso nei grandi interpreti della religiosità del semplici (ad esempio di Pasolini, nel poco conosciuto I turcs tal Friùl).

Ecco come, dal Medioevo a Nietzsche, e di rimando da Nietzsche ad oggi, il potere della risata viene utilizzato dall'arte per parlare umanamente dell'assurdo, per difendersi da esso, e per denunciare quella parte di assurdo prodotta dall'uomo.

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