domenica 3 luglio 2011

Il Sentiero degli Dei. Parte prima.

Dedico questa serie di interventi a Lorenzo,
Giulia, Ivan, Marta, Velter e Gigi,
amici e compagni di viaggio.



“E accade talvolta che in certi momenti critici, nei quali la tendenza discendente sembra esser sul punto di predominare definitivamente nel moto generale del mondo, interviene un’azione speciale per rinforzare la tendenza contraria.”

- René Guénon


Il Santuario della Madonna di San Luca è enorme.

Emerso dalla luce e dalla terra, si staglia rosso e immobile, come i tramonti visti dall’Appennino quando il cielo si sporca di oscurità e le cose sparse intorno assumono i contorni di una visione.


Il colle della Guardia, con i suoi 300 metri d’altezza, vigila severo sulle prime alture che vanno a gonfiarsi come onde di un mare fossile, via via sempre più verticali fino alla vibrazione remota dei picchi blu sullo sfondo. È l’ultimo baluardo della cristianità prima del tuffo nel paganesimo del bosco, con i suoi incroci, le sue edicole scavate nel tronco

degli alberi, i corsi d’acqua che riecheggiano memorie mai sopite di antichi culti animisti.




L’icona della Madonna col Bambino è il fulcro devozionale del Santuario, nonché ideale collegamento tra Bologna e l’Asia minore, per la caratterizzazione iconografica tipicamente orientale delle figure. La Madonna è di tipo Odighìtria, indica cioè la via (o la Via?) ed è pertanto considerata come una sorta di patrona dai viaggiatori che decidono di raccomandarle l’anima prima di avventurarsi lungo i sentieri della foresta e dello spirito.



La dimensione svelata dal primo abbandono urbano si sdraia placida sotto il passo lento, centimetro dopo centimetro, e si accompagna alla riscoperta qualitativa della realtà del viaggio, dove la fatica assume una valenza iniziatica

ed ogni singolo grammo di percorso slaccia i legami con la sospensione idealizzata del concetto di “cammino”, tramutandosi in gravità, trasformando i camminatori in pellegrini, la strada in conquista.


Un edificio coperto dalla vegetazione. La strada bianca che s’incunea nel caldo torrido della mattina, con i passi che sollevano nuvole senza pioggia mentre a pochi passi il fiume Reno, invisibile, disegna nei pensieri un miraggio d’acqua che fa crescere la sete, estrarre le borracce e riprendere il sentiero.



Raccontare diventa molto più complicato, la scelta del punto di vista adottabile un problema che dà le vertigini. “Individuo” e “collettività”, “scelta” e “non-scelta” divengono i poli, concettuali eppure estremamente concreti, di una ragione che trova le sue radici nell’idea di un’epica legata ad un’impresa comune, in cui il destino collettivo compenetri e condizioni quello del singolo, in uno scambio reciproco e continuo che solleva da ogni tentativo de-responsabilizzante.




Il primo, frugale pranzo sul Lungoreno ha il sapore di un bivacco fuorilegge, distanti come siamo da ogni indizio di civiltà, immersi in un paesaggio western popolato da fruscii, dai tonfi metallici degli zaini carichi di scatolette, dalla fanfara di fiume che disperde le nostre tracce nella luce accecante dei riverberi.

Viene in mente l’antica leggenda del demone meridiano, lo spirito dell’accidia che coglierebbe i viandanti esposti al sole rovente del mezzogiorno per tramutarli in foschi fantocci prima di farli impazzire del tutto.

Per quanto ne sappiamo, potrebbe essere davvero là fuori, sulla strada bianca circondata dagli arbusti, solo come un randagio, alla ricerca di pellegrini rosolati da una primavera già così crudele.




La Via veramente Via non è una via costante.”


L’oscurità oracolare del Tao te ching ben si sposa all’enigma del passo, alla metafisica del viaggio, così diversa dall’immobilismo dechirichiano dei trenini sbuffanti sullo sfondo di montagne misteriose e invitanti. La sua stessa incostanza determina invece uno spostamento del baricentro non solo nel camminatore ma, e soprattutto, nel luogo attraversato, nella sua storia e nella sua gente, tanto che un attento viandante potrebbe persino giurare di udirne il respiro, ora affannoso, ora più quieto e disteso, mai uguale.


Sasso Marconi è un comune arroccato a 130 metri circa sul livello del mare, un’estrema propaggine di urbanità che ancora resiste, circondata dal cuore di tenebra dei boschi, e costituisce una porta dischiusa sul lato selvaggio del percorso, sulle salite più audaci, sulla dimensione occulta e insondabile dell’esperienza.


I prati di Mugnano si accendono di luce smeraldina man mano che il cielo imbrunisce, come fosse preda di una feroce combustione. Il campo è stato preparato per la notte e le aperture delle tre tende convergono verso un centro ideale, mentre gli zaini si afflosciano sull’erba, parzialmente svuotati del loro contenuto.

A qualche centinaio di metri dall’accampamento, in cima ad un’altura, una trattoria accende i primi lumi e ci invita alla salita.

Così, liberati dal peso degli zaini, ci avviamo in silenzio, come in processione, verso il tempio acceso sull’acropoli.


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