lunedì 25 luglio 2011

Tracce di Derrida e residui di fantasmi

 
Sol chi non lascia eredità d'affetti | poca gioia ha dell'urna



Nessuno di noi vive in eterno. Il nostro tempo vitale è una parentesi: possiamo muoverci restando all'interno dei suoi limiti, ma non possiamo superarli. Questa limitatezza provoca angoscia: è in fondo il grande tema del ritorno al nulla, che ha attraversato come una presenza spettrale il panorama filosofico occidentale fin dalle sue origini.

Basta pensare a Platone, che nel passo più famoso del Simposio affronta proprio la questione della mortalità dell'essere umano e della sua possibile “prevenzione” ad opera dell'Amore, affidandola alle parole della sacerdotessa Diotima.

Tutti gli uomini concepiscono e secondo il corpo e secondo lo spirito; e giunti a una certa età, la nostra natura sente il desiderio di procreare. Ma procreare nel brutto non può: può soltanto nel bello. Così, l'accoppiamento dell'uomo e della donna è procreazione. Ed è veramente cosa divina, questa; e nella creatura che ha vita mortale c'è questo d'immortale, il concepimento e la generazione.” [206c]

(...) la natura immortale cerca, per quanto può, di divenire eterna e immortale. E può riuscirvi solo per questa via, la via della generazione, perché essa lascia sempre dietro sé un altro essere nuovo in luogo del vecchio.” [207d]

E ancora:

(...) ché in tal modo si conserva tutto ciò che è mortale: non col restare sempre assolutamente identico, come il divino, ma in quanto quel che invecchia vien meno lasciando al suo posto un'altra copia, giovane, di sé stesso.” [208b]

Secondo Platone dunque si può effettivamente pervenire a una forma di “immortalità mediata” o biologicamente, se si è fecondi nel corpo, o intellettualmente, se si è fecondi nell'anima, attraverso la produzione intellettuale. È questo, banalizzando, il significato del Simposio: Amore è ricerca di immortalità attraverso la produzione del bello, sia essa fisica, sia essa intellettuale.

Risposta simile, pur provenendo da un orizzonte semantico del tutto diverso, è quella di Derrida, che nel suo lavoro De la grammatologie (1967) individua nella traccia un elemento fondamentale della sua filosofia.

Prodotta dalla nostra vita, la traccia è capace di allargare, seppur fittiziamente, quelle parentesi e di elevare il nostro statuto ontologico a un livello più alto, capace di resistere al tempo più del nostro corpo. Come singoli individui, come persone irripetibili siamo destinati a scomparire, ma avremmo raggiunto un sorta di “immortalità mediata” attraverso le nostre opere, purché esse lascino una traccia. Riecheggia il discorso di Diotima: i “figli più belli e più immortali” [209d] sono le opere d'ingegno.

La traccia è dunque un documento che lasciamo della nostra vita, che attesta la nostra fuoriuscita dal nulla, nostro significante. La traccia è ciò che resiste al tempo, è un link orientato al futuro che preserva la nostra memoria.

Paradossalmente quindi, si potrebbe dire che la traccia è più viva di noi, poiché, una volta scomparsi, resterà essa a testimoniare per noi (il sepolcro è la traccia per eccellenza). In un certo senso si potrebbe concludere, con Derrida, dicendo che vivere significa lasciar tracce.

Ancora una volta le buone idee ritornano a galla, diventando attuali invece di invecchiare. Ci sembra infatti che la frenesia del nostro tempo sia quella di documentare. Tutto va scritto, filmato, salvato affinché possa esistere. A pensarci bene anche la babelica Internet potrebbe essere considerata come una sorta di traccia sovra-individuale, invisibile e impalpabile, che testimonia della vita dei suoi utenti.

Le capacità informatiche di immissione e conservazione dei dati hanno implementato enormemente le possibilità di lasciare una traccia, resuscitando il pensiero di Derrida e scaraventandolo nell'oggi. Tutto (dai libri, alle immagini in movimento) può essere scritto in caratteri informatici e conservato a tempo indeterminato sul server di qualsiasi computer.

Ci chiediamo se, grazie ad innovazioni tecnologiche fino a pochi anni fa impensabili – basti citare il cloud computing – la tendenza non si sia a tal punto diffusa da invertirsi. In altre parole, se per Derrida vivere significa lasciare tracce, non è forse diventato più vero che oggi lasciar tracce significa vivere?

Prima di azzardare una risposta all'interrogativo, a prima vista ozioso, approfondiamo ulteriormente la questione.

Tocchiamo qui con mano un nodo a nostro parere fondamentale del nostro tempo: la perdita di senso dell'esperienza reale. La concretezza non è più un dato esistenziale forte, non è più sicurezza né qualità: è un ostacolo da aggirare. Oggi la traccia sta perdendo concretezza materiale per acquisire una nuova concretezza ontologica che passa per la sua stessa smaterializzazione.

Non è importante che l'oggetto (o il soggetto, adesso non importa) esista materialmente: importa invece la sua esistenza potenziale (o virtuale, se conserviamo di questo aggettivo l'etimologia corretta).

L'impressione è quella di una frenesia collettiva alla documentazione, ad una pulsione inesausta alla virtualizzazione dell'esperienza concreta.

D'altronde, se la traccia ha deposto l'ormai vetusta abitudine alla concretezza (l'immagine non può che essere quella di una biblioteca di borgesiana memoria, uno spazio immenso e polveroso contenente le storie di tutti) per farsi agile componente informatica, pen-drive, cloud-computing, la spiegazione fenomenologica di questa frenesia alla documentazione si può spiegare senza ulteriore spreco di fiato.

Oggi, paradossalmente, per lasciare tracce occorre smaterializzare l'esistente: nulla di più, nulla di meno. A ciò sovrapponiamo il fatto che l'istinto umano è un istinto alla conservazione. Non stupisce quindi questa frenesia; la traccia passa dalla smaterializzazione dell'esistente perché la tecnologia è andata in quella direzione. Nessun cambiamento antropologico, nessuna critica culturale.

Tutto ciò è vero, ma rimane qualche dubbio. L'interrogativo che ci eravamo posti partiva dal rovesciamento provocatorio dell'asserzione derridiana: lasciar tracce significa vivere?

Ora, posta la domanda in questi termini, la nostra risposta non può che essere negativa. La vita è una condizione necessaria all'esistenza della traccia, è vero. Senza vita non c'è traccia. Ma non si può invertire l'ordine, rendendo traccia condizione sufficiente alla vita, pena la confusione tra traccia e residuo.

Definiamo residuo una traccia che manca di significato. Residuo è una testimonianza che manca di significazione, un balbettio vuoto, una lallazione infantile resa inservibile a chiunque in futuro voglia ricreare un collegamento con la nostra vita. La traccia è diventata paradossalmente residuo per la sovrapproduzione di documenti.

Di carattere residuale è infatti la maggioranza delle tracce che vengono immesse e salvate sulla Rete. Esse non significano niente, non testimoniano nulla che possa aiutare a ricostruire una semantica della nostra esistenza. Esse attestano invece una più bassa attrattiva di spettacolarizzazione dell'evento.

Ogni più insignificante particolare della vita quotidiana aspira allo status di traccia. Non solo: questa sovrapproduzione di non-tracce residuali sembra fomentare un dubbio molto più sottile – nonché deviante: se manca di documentazione l'evento non è mai esistito.

Si possono forse ravvisare la cause di questo fenomeno nella facilità e nella gratuità che oggi permettono la creazione di non-tracce residuali. Smaterializzare la propria vita, le esperienze fatte, le amicizie, in un fenomeno di ricostruzione pressoché integrale della propria esistenza in scala 1:1, smaterializzare in ultima analisi la propria persona per salvarla dal tempo è oggi del tutto gratuito. Ma, come spesso accade per le cose gratuite, è del tutto superfluo.

Derrida aveva anticipato anche questo: “Je crois que aujourd'hui, tout le développement de la technologie et de la télécommunication, au lieu de restreindre l'espace des fantômes, comme on pourrait penser (…), décuple le pouvoir et le rétour des fantômes.”

Smaterializzandoci siamo costretti, in parte, a divenire fantasmi.

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