“Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono.”Giorgio Gaber
Non
mi ricordo con precisione chi – forse Corrado Augias – né quale
occasione ha dato origine a questo discorso, ma la sua sostanza m'è
rimasta bene in mente e riecheggia ogni volta che rifletto sul
significato di questi 150 anni dall'unità d'Italia.
“Rispetto agli altri anniversari dell'Unità della nostra nazione, quello del 1911 e quello del '61, il nostro avviene nel periodo storico di gran lunga più squallido e meno felice.”
Il
discorso continuava facendo paragoni: da una parte la belle époque
spensierata e ancora lontana dalle atrocità dei conflitti, una
classe politica solida, conquiste coloniali alle porte, avanguardie
letterarie musicali e artistiche riconosciute in tutto il mondo;
dall'altra il boom economico, un paese che rinasce e che si sente
finalmente competitivo, nel pieno delle sue possibilità, prodotti
italiani che fanno la storia del design, la dolce vita, l'autostrada del Sole, il miracolo.
E
oggi? Frammentazione politica e crisi economica, la classe dirigente
più squallida e corrotta della nostra storia, sfiducia nelle
istituzioni, studenti in fuga, un paese ignorante e arretrato, fermo,
artisticamente e tecnologicamente, da vent'anni. Altroché
magnifiche sorti e progressive.
[Sto
semplificando, ovviamente. Non c'è mai stata un'età dell'oro, né
mai ci sarà.]
C'è
chi ha voluto festeggiare ugualmente il centocinquantenario,
dimenticando quella che a un'analisi più approfondita spesso si
rivela retorica o falso patriottismo, e appendendo il tricolore alle
finestre come per convincersi che, nonostante tutto, si può almeno
sperare in una rinascita collettiva.
Pensiamo
al successo che hanno avuto quest'anno le svariate pubblicazioni,
narrative e non, riguardo a questo tema. Libri neo-epici sul
Risorgimento, sceneggiati televisivi, conferenze; purtroppo gli
sforzi per avvicinare il grande pubblico alla storia dell'Unità non
hanno potuto sollevare la cortina di vecchiezza e distanza che li
separa da noi. La storia dell'Unità d'Italia, oltre ad essere per
molti aspetti controversa e critica, rimane per di più lontana,
polverosa – argomento scolastico che non infiamma animi né
coscienze.
Credo
che occorra riflettere in modo più approfondito sulla nostra
italianità, sul suo significato e sulle sue caratteristiche.
Commemorazioni e mattoni storici non possono aiutarci molto in questa
direzione, proprio oggi che quasi un terzo degli italiani ha deciso
di “far parte per sé stessi”, almeno spiritualmente; e per
quanto disgusto possiamo provare verso certe retoriche
campanilistiche e bigotte, dobbiamo prendere atto di questa
l'anomalia italiana.
Nessun altro paese europeo ha attraversato una crisi così profonda,
una revisione e un rifiuto così esacerbati della propria genesi.
Esiste
qualcosa in grado di unire questo paese? La domanda, posta in questi
termini, è difficile da affrontare: cerchiamo un sentimento, un
oggetto, una storia, una lingua?
E, una volta determinato,
come spiegare razionalmente questo potere coesivo?
Un
tentativo interessante, ma parziale, l'ho trovato in un libro,
Italianità a cura di
Giulio Iacchetti. Si tratta di un nostalgico elenco di oggetti o
simboli italiani che hanno segnato la nostra coscienza e il nostro
modo di vivere, e che in un qualche modo uniscono questo paese. Il
gusto e l'ironia con le quali sono stati selezionati e descritti
aggiunge valore alla pubblicazione, già di per sé graficamente
ineccepibile.
La
Moka Bialetti, il cane a sei zampe dell'Agip, l'Apecar e la Vespa, la
Graziella, la Settimana Enigmistica, la Festa dell'Unità, la T dei
tabacchi, le case cantoniere, solo
per citarne alcuni; sono
elementi che effettivamente si possono ritrovare in tutta Italia e
che definiscono il nostro immaginario anche nei paesi esteri.
Certo,
il libro non ha nessun intento teorico: non si tratta di fondare la
coesione nazionale basandosi su degli oggetti, sarebbe impossibile.
Non è questo ciò che mi turba. Si può al massimo sollevare qualche
dubbio sul fatto che gli oggetti selezionati appartengono alla storia
di determinate generazioni, indicativamente quelle nate e cresciute
durante il miracolo dei Sessanta, ma sarebbero considerazioni oziose.
Ciò
che è davvero indicativo di un'anomalia italiana è mostrato
semplicemente dall'esistenza
di una pubblicazione di questo genere: quale altro paese al mondo
sentirebbe la necessità di ricercare la propria coscienza collettiva
in una serie di oggetti o marche famosi in tutto il mondo? Il
sentimento di perdita, di frammentazione si può dedurre dalla
nostalgia con la quale gli oggetti sono descritti, dei racconti bei
tempi andati, della fiabesca infanzia nazionale interrotta dal
disagio di un oggi che non riusciamo ancora ad accettare.
Disagio
che viene colto anche da Roberto Esposito, nel suo recentissimo
Pensiero vivente,
edito da Einaudi, ma che, nella profondità teorica delle sue
pagine, viene rovesciato in un possibile punto di forza.
Esposito
cerca di tracciare un itinerario comune unendo varie figure del
panorama intellettuale italiano, partendo indicativamente
dall'esperienza dell'Umanesimo fino ad arrivare alle più recenti
elaborazioni filosofico-politiche nate dalla riflessione sul
biopotere inaugurata da Foucault.
Si
tratta di mettere assieme i pezzi della storia del pensiero italiano
in un quadro teoretico sistematico e strutturato, che metta in
evidenza le particolarità legate al nostro territorio – spesso nel
libro si parla di
geofilosofia – i punti di forza e gli eventuali limiti di una
filosofia, quella italiana, che sembra oggi avere una grande fortuna,
soprattutto all'estero.
Innanzitutto:
è possibile assegnare alla filosofia limiti territoriali? Come può
un pensiero avere dei confini? Esposito scrive che:
“(...) pare innegabile una qualche connessione tra filosofia e territorio, intendo per quest'ultimo non tanto uno spazio geograficamente determinato (…) ma piuttosto un insieme di caratteristiche ambientali, linguistiche e tonali, che rimandano a una modalità specifica e inconfondibile rispetto ad altri stili di pensiero.” [pag. 14]
L'operazione
davvero interessante di Esposito sta nel rilevare proprio
nell'anomalia italiana, nella frammentazione politica, nel conflitto
sociale, nel senso di non-appartenza, il punto di forza della nostra
filosofia, ciò che la distingue dalle altre correnti europee forse
più strutturate e solide, ma incapaci di dare una chiave di lettura
ontologicamente forte in un momento di crisi globale.
“(...) il carattere più intensamente geofilosofico della cultura italiana sta in una terra che non coincide con la nazione e che anzi si costituisce, per una lunghissima fase, nella sua assenza. (…) Essa [la filosofia italiana] nasce in una situazione di decentramento e di frammentazione politica ben lontana dalla realtà (…) dell'unificazione. [pag. 20]
In
definitiva, seguendo la tesi di Esposito, è proprio la mancanza di
uno Stato forte ad avere segnato, e nel bene e nel male, il pensiero
italiano, marcando, allo stesso tempo, la distanza rispetto alla
filosofia europea della modernità.
Laddove
la riflessione filosofica europea, dopo avere troncato i legami con
la sua origine profonda, radicata nella vita, si attorcigliava su se
stessa alla ricerca di un fondamento ontologico dell'individuo, dello
Stato, della religione, in Italia i pensatori accettavano la
caoticità dell'esistente, stringevano sempre più i legami con la
vita, sporcando, per dirla con Bodei, il pensiero teoretico,
forzandone i limiti, costringendolo a utilizzare un lessico non
esclusivo ma di volta in volta frammisto di poeticità, storia,
politica.
Da
qui le caratteristiche peculiari del pensiero italiano, sintetizzate
da Esposito in quattro
paradigmi
che si rincorrono per tutto il libro, fornendo le chiavi di lettura
privilegiate per i pensatori analizzati: l'attualità
dell'originario, ovvero la
vicinanza della filosofia italiana alla sua origine, alla vita, ai
corpi; l'immanentizzazione dell'antagonismo,
ovvero l'apertura al conflitto, alla caoticità, esemplificata dal
realismo politico di Machiavelli, il primo a intuire l'ordine e la
necessità del conflitto politico; la
storicizzazione del non storico,
ovvero la dialettica tra origine della storia e la storia stessa,
storico e a-storico, colta
dall'opera di Vico, secondo il quale l'origine animale dell'uomo non
può venire cancellata dalla storia, ma è destinata a riemergere in
modo catastrofico, secondo la sua teoria dei “ricorsi”;
infine,
la mondanizzazione del soggetto,
ovvero una filosofia dell'impersonale, slegata dal concetto di
individuo, che viene concepito come prodotto di una communitas
civile, paradigma inaugurato dal pensiero di Bruno.
Questo
volendo semplificare. In realtà il discorso è molto più
articolato, attraversa svariati autori, alcuni poco conosciuti
(Spaventa, Cuoco, De Sanctis), altri invece protagonisti della
nostra storia civile, oltre che filosofica (Gentile, Croce, Gramsci,
Pasolini), arrivando fino ai giorni nostri (Vattimo, Cacciari
e Agamben su tutti).
Benché
ci siano da rilevare alcune criticità (ad esempio, gli ultimi
capitoli paiono meno curati e chiari, come attraversati da una fretta
che rende il periodare più oscuro e impreciso per i non-iniziati),
il nucleo della tesi resta valido e non può che rincuorare e
inquietare allo stesso tempo.
Se
è vero che la particolarità dalla filosofia italiana e i suoi punti
di forza discendono dall'atavica frammentazione politica del nostro
territorio, dal senso di non-appartenenza, cosa possiamo rispondere a
chi vuole acuire, politicamente o meno, questo conflitto? Non si
rischia di porgere il fianco alle pretese di autonomia a di
federalismo?
E
ancora: è possibile fondare
l'unità, filosofica e non,
di un paese proprio sul senso di non appartenenza allo stesso? [Spero
di avere giustificato adesso la facile citazione iniziale di Gaber.]
Per
quanto riguarda la prima osservazione, va detto che Esposito parla
sempre di territorio,
mai di nazione. Il pensiero è del
e nel
territorio, ma
si costituisce attraverso un incessante processo di rottura dei
confini e rientro, di “oscillazione tra interno ed
esterno” [pag. 16]. Nessun
pericolo di campanilismo; anzi, piuttosto un ripensamento integrale
del concetto di territorio e geografia. Il pensiero deve sempre
uscire dai confini entro i quali è nato per crescere e per testare
la sua validità: quanto di più lontano si possa immaginare dal
becero isolazionismo di oggigiorno.
Alla
seconda questione non so rispondere. É indubbio che il punto di
forza della nostra filosofia consista in questa mancanza di unità,
all'apertura al caos, al conflitto, a quanto, in sostanza, di più
lontano si possa immaginare dalla stabilità hobbesiana degli
Stati-nazione. Non lo so.
Forse,
sembra suggerirci la lettura,
non saremo mai un paese come gli altri. Forse
questo sarà l'ultimo squallido capitolo di una storia sbagliata
prima di una nuova rinascita. Ma è comunque bello pensare che, al di
là di retoriche patriottiche improbabili e grandiosità epiche
inesistenti, si sia finalmente inaugurata una riflessione filosofica
sull'italianità profonda e, spero, feconda.
Scrive
Cuoco che:
“(...) le epoche della grandezza politica di tutte le nazioni sono quelle stesse della loro grandezza filosofica. La prima forza è la mente; debole è sempre il braccio di colui che non ne ha, o crede di non averne.”
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