[Tra
la moltitudine di casi antropologici che si ha la ventura
d'incrociare durante la propria carriera accademica, un posto di
tutto rispetto lo ricoprono i tecnofobi. Ritengo che possa essere
quantomeno interessante offrirne una descrizione puntuale al fine di
conoscerne con esattezza i tratti caratteristici e scongiurare
preventivamente qualsiasi contatto con essi, come in una sorta di
bestiario medievale.]
Il
tecnofobo tipo viaggia sulla sessantina, anche se non è escluso che
possano esisterne nuove leve potenziali nella nostra generazione. È
usualmente beneducato e colto, di preferenza professore in scienze
umane. Sa citare autori a memoria, anche in lingua originale;
arricchisce le sue tesi con distici e versi, ammantandole di
un'autorità libresca e indiscutibile.
Canuta
biblioteca ambulante, col passare degli anni ha raccolto il segreto
degli autori più oscuri; ruga dopo ruga, s'è affaticato gli occhi
su migliaia di pagine e testi: oggi può dire senza timore di tenere
il Sapere in mano.
Collega
tesi, ricollega pensieri, affresca interi secoli in poche frasi agili
e sintetiche; scompone le parole, certo che dalla loro etimologia si
possa risalire all'indiscutibile significato nascosto dal tempo;
inizia le sue candide argomentazioni con formule del tipo: “Quello
che veramente vuol dirci l'autore...”
oppure “È
questo il vero senso di queste parole....”
o ancora “È
indubbio che il significato dell'opera vada ricercato qui...”.
Ha
quasi sicuramente vissuto il Sessantotto; ha frequentato volentieri
gli autori di punta e le idee filosofiche del movimento, almeno fino
a quando l'ambiente accademico lo ha permesso. Poi le ha rigettate,
bollandole come errori di gioventù, per abbracciare un riflusso in
una ben più seria e matura sfiducia nella modernità, nelle persone
e, sopratutto, nel progresso scientifico. Non sa usare bene il
computer, e per questo lo odia.
Dagli
occhi del tecnofobo trapela una certa punta di nostalgia. Racconta
volentieri aneddoti sui bei tempi andati, con l'intento malcelato di
evidenziare indirettamente i vizi dei nostri giorni. Di tutte le
antiche certezze psico-socialiste, ormai infrante in vaghi pregiudizi
freudiani e polverose tesi marxiste, ha mantenuto saldo un unico
dogma: la condanna della techne.
La
tecnica rappresenta per lui l'unico vero problema della modernità,
il nodo gordiano che la filosofia è chiamata a sciogliere, il nemico
più formidabile e importante che il pensiero Occidentale abbia mai
creato e, di conseguenza, tentato di risolvere. Non si può dire
d'altronde che questa convinzione sia del tutto sbagliata.
Vero
e proprio vaso di Pandora, causa di ogni male contemporaneo, una
volta sollevato il topos
della tecnica e della sua tirannia, il tecnofobo può tranquillamente
perdere ore intere ricostruendo la genesi del pensiero scientifico,
confutare le sue metodologie, metterne in risalto le numerose aporie
interne e le conseguenze catastrofiche del suo esercizio.
Rivoluzione
industriale, consumo di massa, disastri ecologici, Auschwitz,
violenze, sperequazioni economiche, terzomondismo, Hiroshima,
bruttezza e irrazionalità si mescolano invariabilmente nei suoi
discorsi, in ordine sparso: sono gli ingredienti base della sua
tecnofobia. La decadenza occidentale passa da questi necessari snodi
del pensiero, prende forma quale indiscutibile evidenza filosofica,
si radica alla base di ogni successiva riflessione sulla storia
umana.
“La
tecnica, da semplice ancella della scienza, si è insediata come
sovrana delle nostre vite, mina le nostre sicurezza etiche; la techne
è il nuovo faro del mondo moderno, dà forma ai nostri desideri,
cambia i nostri corpi e consuma gli ecosistemi mondiali. La tecnica
ha preso il posto che un tempo era della Verità, e questo non potrà
che trascinarci sull'orlo della catastrofe finale”, ti spiega il
tecnofobo dall'alto della sua cattedra, mentre spegne di nascosto il
telefono che ha dimenticato acceso.
“La
techne,
su cui si basa il pensiero scientifico, non ha gli strumenti etici
per giudicare le sue scoperte – gran parte delle stragi
contemporanee hanno le radici in questa contraddizione. La modernità,
che ha preso avvio dall'indagine razionale del soggetto e del mondo
esterno, ha portato gradatamente all'oblio dei valori morali,
giudicati quali semplici ostacoli da aggirare”, continua
teatralmente mentre distribuisce le fotocopie del volume che intende
analizzare.
“Da
serva si è trasformata in padrona, come per una sorta di dialettica
hegeliana; doveva migliorare le nostre vite ma per assurdo ha finito
col corroderle e privarle di ogni significato umano. Condiziona i
nostri desideri, ha trasformato l'homo
sapiens
in homo
oeconomicus,
privo di valori etici, religiosi o filosofici, cieco consumatore di
oggetti inutili che disperatamente imbellettano il vuoto affettivo
che ci rode, tutti noi, nessuno escluso”, condanna, mentre cerca su
Internet notizie biografiche su un idealista tedesco.
“Per
non parlare dell'estetica: mai la bruttezza ha raggiunto questo grado
di pervasività che ci troviamo oggi tristemente a contemplare. La
produzione di massa ha fatto piazza pulita del sapere artigianale, ha
debellato la cura dell'oggetto esaltando la velocità nella
produzione, attraverso l'idolo della funzionalità. Ha innalzato
l'economia a principio sommo, dimenticando l'estetica; ha mascherato
la sua ingordigia con la retorica del miglioramento delle condizioni
di vita”, continua a sostenere, anche dopo la lezione, spegnendo il
microfono e dirigendosi verso l'ascensore che lo porterà allo
studio, un bellissimo attico al settimo piano.
“Senza
contare i disastri e le stragi che ha reso possibile l'utilizzo
indiscriminato della techne:
le camere a gas, la bomba atomica, il nucleare. E non dico nulla sul
fatto che questo progresso economico lo abbiamo ottenuto sulla pelle
di una stragrande maggioranza di sfruttati. Il compito del filosofo
non è tanto quello di capire la tecnologia, quanto quello di
domarla, imbrigliarla, prima che sia troppo tardi. Siamo sull'orlo di
una crisi globale che, malgrado l'obiettività della ricerca
scientifica e la neutralità dei ricercatori, i tecnocrati non hanno
voluto vedere, forse per mancanza di pianificazioni a lungo termine,
forse per una più bassa ingordigia economica”, ti urla dal
finestrino del suo monovolume, pronto a dirigersi a casa.
“Io
credo che sia giunto il momento di accantonare il pensiero razionale,
seme di tanti disastri e miserie, radice di una scienza che non dà
risposte, ma solo altre domande – nonché forti costi sociali e
finanziari – dogma di una società malata, egoista e
individualista, dimentica dei valori morali e religiosi, persa e
solitaria, e abbracciare al suo posto un nuovo modo di vedere il
mondo, alternativo e lontano dal pericolo di un'implosione della
civiltà”, conclude, assaporando il suo sigaro in aeroporto, prima
di partire per la conferenza.
Come
può il tecnofobo rendersi conto dell'amara comicità della sua
esistenza?
Non
vede la tecnologia perché ne è immerso: e quanto più condanna,
tanto più ne dipende.
Piatto non indicato per una cena informale, potrebbe risultare pesante.
RispondiEliminaGrado di difficoltà in decimi: 2
Portare a ebollizione una pentola d'acqua salata.
Aggiungere 70kg ca di Emanuele Severino e lasciare cuocere per 40 anni a fuoco lento.
Scolare e lasciare raffreddare. A parte sminuzzare qualche etto di Umberto Galimberti, e aggiungere spicchi d'aglio a cubetti. Aggiungere rondelle tagliate grosse di Silvano Zucal, e amalgamare il tutto con un filo di Franco Rella e versare in una ciotola (meglio se ceramica). Mescolate bene col raffreddato Emanuele Severino e insaporite con una spruzzata di Renato Troncon.
Buon appetito! (Forse)
Ulcera assicurata.
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