giovedì 5 luglio 2012

Intervista a Gian Franco Andraghetti


[Gian Franco Andraghetti ha pubblicato da non troppo tempo due libri destinati a rimanere dei modelli imprescindibili per la produzione storico-topografica della città di Ravenna: Aquae condunt urbes (Media News, 2007) e Odo nomi far festa (Edizioni Moderna, 2010).
Grazie al suo lavoro decennale, possiamo percorrere con queste pagine la storia della città, leggendola attraverso le sue strade, i corsi abbandonati dei suoi fiumi, gli aneddoti sconosciuti sui suoi palazzi.
È da più di un anno che leggo e rileggo queste piccole enciclopedie e ancora non esauriscono il loro fascino. Mi sono deciso a parlarne con l'autore, finalmente: a casa sua, davanti ad una mappa spiegata della città.]

Tutte le volte che passo per il nuovo ponte sopraelevato rischio un incidente perché mi viene da voltarmi a guardare verso la città e i suoi campanili: quello di San Giovanni Evangelista, e poco più avanti quello di Santa Maria in Porto. Penso sempre a come doveva essere per un viaggiatore antico arrivare a Ravenna dal mare, percorrere i suoi corsi d'acqua o per il cittadino seguire la curva del Montone subito fuori le sue mura.



[Qui l'intervista stampabile]

Il lavoro è nato un po' così: immaginando. Fu nel 2000, quando rimasi parzialmente invalido: ero costretto tutto il giorno in casa. Lavoravo alla pianta di Ravenna, studiavo le forme delle strade. Le vie dritte, ortogonali, di origine romana erano solcate al centro dallo scheletro del Padenna, dalle strade sinuose che seguivano il corso dei suoi argini. È stato allora che ho cominciato ad interessarmi della topografia storica della città, ed è diventata presto una mania. Mi facevo portare i libri dall’Oriani e dalla Classense da amici bibliotecari, leggevo tutto quello che trovavo sull'argomento, stavo al computer dalle 8 di mattina alle 10 di sera.

Ho impiegato più di cinque anni per completare il primo libro, Aquae Condunt Urbes, l'atlante storico-topografico uscito nel 2007, e altri tre per Odo nomi far festa, lo stradario odonomastico, composto dalle storie e dalle informazioni che non sono riuscito ad inserire nel primo.

[Mi stupisce una tale ricchezza di informazioni. Ravenna è una città di provincia con una storia da capitale, e spesso gli aneddoti si stratificano come i nomi delle strade, rischiano di essere dimenticati. C'è una storia sotterranea che ancora fatica ad emergere. Chiedo a Gian Franco qualche esempio.]

Non saprei davvero da dove cominciare. Forse, il più tristemente famoso è quello dell'eccidio Diedi, famiglia di origine veneta, di cui rimane ancora il palazzo rinascimentale in stile veneziano in via Gardini. Siamo negli anni settanta del Cinquecento, e Bernardino Diedi si mette nei guai per una promessa di matrimonio fatta a un sorella del suo vicino di casa, l'illustre Girolamo Rasponi. Nonostante questo vincolo, Bernardino chiede la mano a un'altra donna, Susanna Succi, imparentata anch'essa con la famiglia Rasponi.

Girolamo scatena la sua ira contro Susanna, decisa a sposarsi con Bernardino, e la fa martoriare dal fratello Lodovico con quattordici stilettate. Scoperto il terribile gesto, Lodovico è costretto a fuggire. Susanna si salva, si sposa con Bernardino, rimane incinta per ben due volte.

È allora che Girolamo decide di vendicarsi: assolda cinquanta banditi e nel mezzo della notte irrompe in casa Diedi, massacrando l'intera famiglia e la gestante Susanna. Bernardino si getta dal balcone, che esiste ancora oggi, e viene finito dai sicari. Anche un testimone civile viene ucciso a colpi d'archibugio. La città insorge, i colpevoli vengono squartati pubblicamente, Girolamo Rasponi è costretto all'esilio: la sua casa è bruciata e le ceneri cosparse di sale. Terreno maledetto, si diceva allora – e ancora oggi è vuoto: si tratta del giardino di Palazzo Vitelloni, in via Guerrini. Cattivi, i Rasponi.

È interessante anche la storia delle valve di bronzo, ovvero dei battenti dell'ormai scomparsa Porta Aurea, trafugati dai Longobardi nel 751 d.C., dopo il lungo assedio. Li portarono a Pavia, la loro capitale, e da lì qualcuno riuscì a riportarli a Ravenna. È l'inizio di un battibecco durato secoli: nel 1438, Niccolò Piccinino, su ordine dei Visconti di Milano, costringe Ostasio III daPolenta, l'ultimo dell'illustre famiglia, a restituirle a Pavia.

Solo nel 1528, Cesare Grossi, capitano di ventura per i veneziani, subito dopo la presa di Pavia, riporta queste benedette valve a Ravenna, appese come trofeo lungo i muri del Palazzetto Veneziano. Ironica fine: il cardinale Alberoni decise di fondere quelle superstiti – tranne una, che abbiamo restituito ai pavesi – per farne delle monete, altre erano state utilizzate per riparare la campana della Torre del Comune e per la statua bronzea dedicata a papa Alessandro VII; talmente brutta, dicono, che la gente ci scagliava contro le sue feci (spostata in piazza San Francesco fu abbattuta da ignoti, i quali ne misero un braccio in grembo alla statua di Clemente XII in piazza del Popolo).

[Gian Franco ride. La prima, una tragedia in perfetto stile shakespeariano, che non aspetta altro che un romanzo che la racconti. Come si dice, non tutti nella capitale, sbocciano i fiori del male... La seconda invece ha un vago sapore comico boccaccesco, non c'è che dire.]

Potrei raccontarti anche di Tigrinetto, l'unico figlio sopravvissuto di una famiglia di conti palatini toscani, invitata a Ravenna nell'alto medioevo dai Traversari. Uno dei nipoti di questa nobile famiglia, violentò una ragazza di Ravenna e tutti i nobili toscani furono trucidati per vendetta. Tutti tranne Trigrinetto, il più piccolo dei figli, allevato a Ravenna, che serberà per sempre un rancore e, per la sua atroce vendetta, fu poi soprannominato “il bevitore di sangue”.

Oppure la storia di Marianna Bacinetti, che abitava in via d'Azeglio, nata all'inizio dell'Ottocento e considerata una delle più belle e intelligenti donne d'Italia. Conosceva alla perfezione il greco e il latino; si sposò col marchese Florenzi di Perugia e conobbe a Roma il futuro re Ludovico I di Baviera, che rimase talmente colpito dalla donna da volerla con sé a coorte... Alla morte del marito, eccola risposata con un esule inglese, Evelyn Wallington; la loro casa diventa il rifugio di patrioti italiani, mentre la Marianna traduce in italiano le opere di Schelling.

[Continua a raccontare: mi parla di Leopardi ospitato in via Salara da un nostro concittadino particolarmente seccante; del ferimento a morte del Cardinale Alidosio in via San Vitale da parte del nipote del papa, Francesco Maria della Rovere; di come via Zanzanigola derivi il suo nome da un chiesa sul Padenna vicino a un guado – San Giovanni ad navinculam; del ritrovamento nella Darsena del più antico reperto archeologico ravennate: una statuetta bronzea di fattura etrusca...
La Darsena! oggi non si parla d'altro. Ne approfitto per un suo parere.]

Sulla Darsena ne ho sentite ormai tante. C'è chi ha parlato di un canale sotterraneo che scavalchi la stazione e riporti l'acqua in città. Bellissimo, ma del tutto impossibile da realizzarsi per ragioni economiche. Altri addirittura hanno proposto di tombare definitivamente il canale, per farci un giardino. A parte, ancora una volta, i costi faraonici di realizzazione, mi sembra davvero un peccato cancellare del tutto l'ultimo ricordo della natura acquatica di questa città.

Mi sembrerebbe più sensato cercare di valorizzare la zona, pur non essendo un quartiere storico di grandissima importanza. Magari con un porto turistico, per riprendere, in un qualche modo, la funzione che ha avuto nella storia.

La città deve molto alla Darsena; anzi: alle sue darsene. Borgo San Biagio, ad esempio, si è sviluppato durante la dominazione veneziana come darsena di un naviglio proveniente dalla campagna a nord della città, che entrava nell'odierna via Maggiore attraverso via Canalazzo, fino ad arrivare in faccia al ponte sul Montone e a Porta Adriana. Oppure borgo San Rocco, che, più o meno negli stessi anni, si sviluppava lungo il Canale del Molino e il Ronco, borgo nel quale si svolse la più antica fiera della città.

Se ci pensi bene, anche l'incredibile sviluppo tentacolare della città negli anni '50 e '60, è stato causato dal porto, per la gente che si trasferiva a Ravenna per lavorarvi. Siamo cresciuti grazie al porto, e adesso qualcuno propone di tombarlo. Per questo, secondo me, bisogna cercare di dare una ripulita alla zona senza lanciarsi in progetti senza speranza, che rimarrebbero incompiuti per mancanza di fondi.

[Penso alla grande concitazione che la proposta di risanamento della Darsena sta scatenando. Che si faccia questo rumore è un segnale senza dubbio positivo, ma prima di qualsiasi proposta credo occorra trovare una soluzione al problema del collegamento. Ravenna ha tagliato il cordone ombelicale che l'univa al mare, l'ha dimenticato, lo ha trasformato in luogo di villeggiatura – basti pensare al disastro di Marinara.
Per riqualificare la Darsena, bisogna prima di tutto trovare una soluzione per aggirare la barriera che la stazione rappresenta, che taglia fuori canale Corsini dal centro.]

D'altronde c'è ancora molto in città che ha bisogno d'una sistemata: penso a Piazza Kennedy, ad esempio. Il progetto di riqualifica, nonostante forse un po' troppo “cementoso”, mi piace. Hanno rispettato la memoria storica del luogo: al centro di quello che oggi è un grande parcheggio, un tempo sorgeva la chiesa di Sant'Agnese. E non si trattava mica di una chiesa da poco: tre navate, fondata su di un tempio romano, con un grande convento annesso. Il progetto riprende la forma della chiesa e cerca di darne una testimonianza, nel limite del possibile; ne riporta la pianta per terra, spostando le colonne originarie dimenticate nel giardino di Palazzo Rasponi dalle Teste.

Vedi, io sarei sempre per bucare, bucare dappertutto. Anche in questo caso, consiglierei agli addetti ai lavori di andare a fondo con lo scavo, scoprire cosa c'è a livello delle fondamenta romane, far emergere tutto. Sono occasioni sprecate tutte quelle nelle quali potresti trovare delle cose, e invece non fai niente.

Ravenna è stata distrutta diverse volte; eppure, è una delle poche città al mondo ad essere state costruite sempre negli stessi posti. È stata invasa, bruciata, tre volte capitale, di nuovo devastata, saccheggiata. Ma sempre ricostruita sulle stesse fondamenta. In qualsiasi punto si trova qualcosa. Ravenna dovrebbe essere il paradiso degli archeologi: poche città possono vantare una tale stratificazione: romana, bizantina, medievale, veneziana... Praticamente dovunque potrebbero esserci reperti validi da recuperare.

E invece qua si “scoprono” cose spesso per l'iniziativa di privati, che hanno bisogno di un garage sotterraneo e rivelano una domus romana o bizantina; senza contare i danni che, tali tipi di rinvenimenti casuali possono arrecare ai reperti stessi. Discorso simile si può fare anche per l'isola ecologica in piazza Anita Garibaldi. Era certo che sotto ci fosse qualcosa, e infatti hanno trovato i resti di una domus romana. Ma non hanno continuato gli scavi: forse mancavano i soldi per esplorare meglio la struttura riemersa o non c’era la volontà.

Non hai idea di quante occasioni abbia sprecato questa città. Il solo pensiero del Palazzo di Teodorico mi atterrisce. Gli scavi risalgono ai primi del '900. Era un cantiere enorme, che andava da via Alberoni fino quasi a San Giovanni Evangelista: tale era l'area del Palazzo. Per farti un'idea, pensa che la grande parete che vediamo oggi, che per secoli è stata chiamata erroneamente “Palazzo” è in realtà solo un’entrata dell’area palaziale, poi sfruttata come nartece di una chiesa, San Salvatore in Calchi.

Gli scavi del Palazzo di Teodorico, inizio Nocevento


Era un'occasione imperdibile per creare uno dei più importanti parchi archeologici a cielo aperto d'Italia: quasi una decina di mosaici pavimentali bellissimi che sono stati rimossi per far spazio all'edilizia. Da piccolo giocavo a calcio ai Salesiani, in mezzo a quello che un tempo era il grandioso Palazzo di Teodorico: oggi non ci sono che palazzoni orrendi.

Disegno che ipotizza la pianta del Palazzo


O ancora: la Torre cittadina, un simbolo storico che scandiva le ore della vita quotidiana, dall'entrata a scuola agli incendi, oggi imbragata in ferri che la sostengono per non farla cadere. Ora, se sono riusciti a salvare la Torre di Pisa, non potevamo cercare di fare un lavoro un po' migliore con la nostra torre? Ne hanno tagliato la cima, dieci metri buoni; hanno spostato la famosa campana chissà dove; hanno nascosto dietro quelle brutte imbragature le effigi famose della Mariola (in realtà la stele funeraria di un togato romano); e l'hanno lasciata così, sventrata e deturpata.

[E adesso è davvero difficile “cercare la Mariola per Ravenna”, nascosta com'è alla vista di tutti. Penso a Cervantes, che cita l'effige e il detto popolare addirittura nel Don Quijote... C'è qualcosa che dovremmo fare per evitare altre perdite del genere? Qualche occasione da non mancare?]

Le mura! Le mura mi stanno particolarmente a cuore, e rischiamo davvero di perderle, anche quelle poche che ci sono rimaste. Un po' per il menefreghismo della cittadinanza, devo ammetterlo; ma anche per l'incuria nella quale sono state lasciate. Ultimamente ho visto un po' di miglioramenti, soprattutto lungo via Canale Molinetto, ma di lavoro ne resta ancora molto da fare.

Penso spesso, ad esempio, a quanto sarebbe bello renderle di nuovo praticabili, ricostruendone il camminamento dal Torrione fino a porta Gaza. Infatti è in piazza della Resistenza che arrivano le corriere dei turisti, e quale modo migliore per entrare in città, se non proprio percorrendole fino al centro?

La nostra città deve molto alla sua cinta muraria. Basti pensare ai terribili assedi che l'hanno tormentata in passato; anzi, la città è proprio cresciuta nelle mura, letteralmente: sono state ultimate durante il periodo di massimo splendore, quando era una capitale imperiale in espansione, ricca di palazzi e sovrappopolata. Ma dopo le invasioni, la popolazione ha cominciato a decrescere e le mura si facevano “più lontane”, troppo estese per una città in rovina. Tra le case e le mura c'erano orti, animali al pascolo. E poi, ancora una volta, la città le ha raggiunte – e, solo da pochissimo, superate.

[E vediamo davvero di superarle queste mura, ma in modo figurato: aprendoci fuori dalla provincia, fuori dal nostro ombelico per una volta, coscienti del patrimonio che portiamo con noi. E soprattutto vediamo anche di imparare a conoscerlo meglio, questo patrimonio, servendoci anche del notevole lavoro di Gian Franco Andraghetti.]

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