martedì 25 dicembre 2012

Cattedra e dialogo


Si dice che una sola immagine, quando ben organizzata, valga più di mille parole; e se per la pittura contemporanea questo detto non vale più, in quanto si dipinge soprattutto per evitare la parola, per rifugiarsi nell'indicibile, nel nostro caso questi due affreschi, compiuti nello stesso torno di tempo da due maestri dell'Umanesimo italiano, valgono quanto un trattato filosofico sulla differenza fra dialogo e cattedra.

A chi volesse capire qualcosa della differenza fra due concezioni speculari della conoscenza e della trasmissione del sapere, una derivante dalla filosofia e l'altra dalla teologia, senza però faticare su testi e saggi tradizionali, consiglierei di osservare con attenzione queste due composizioni – perché esse contengono il segreto della sintesi e della leggibilità.


La prima è opera di Filippino Lippi, San Tommaso in cattedra, episodio isolato da un ciclo di affreschi dedicati alla vita dello scolastico domenicano, compiuto tra il 1488 e il 1493 a Roma, nella cappella Carafa della chiesa Santa Maria sopra Minerva.

Tommaso sovrasta la scena; è al centro della composizione, alla convergenza dei punti di fuga prospettici. L'occhio non può eluderlo. Tiene in mano un volume aperto, nel quale si legge un motto latino ripreso da Paolo: “Sapientiam sapientium perdam” (1 Cor 1,18-20), ovvero “Distruggerò la sapienza dei sapienti”.

Forte della tradizione biblica, armato della parola del santo, l'autorità di Tommaso non può essere messa in discussione. È scortato da quattro muse pallide e ammalianti, che sanciscono l'eccellenza del suo sapere nelle arti del trivio (dialettica, retorica, grammatica) e nella teologia, giovane donna che lo ammira dal basso, in silenzio. Col viso impassibile, quasi stoico, sembra guardare altrove; il capo aureolato si piega e il dito punta, con fatale dolcezza, contro l'Errore, letteralmente schiacciato ai suoi piedi.

Interessante iconografia: l'Errore – che è anche e soprattutto malitiam, ovvero scaltra malvagità e malafede, come è scritto dallo stesso Lippi sullo striscione che gli mette in mano – è un vecchio folle, dai capelli bianchi e scomposti, che digrigna i denti e storce gli occhi come sopraffatto dal dolore. Questa vittoria del sapere non è liberazione dall'errore, ma annientamento del male, secondo la nota equazione “errore è peccato”.

È dunque giusto che nessuno provi pietà per il folle, che rimane come una presenza fantasmatica ai margini della scena; ed è illuminante osservare come, nell'iconografia dell'Errore, Lippi sia stato – forse inconsciamente – ispirato dalla polisemia del verbo “errare”. Foucault insegna: è il folle il personaggio errante per eccellenza: vaga senza meta (e senza metodo) per le campagne medievali; e tanto più s'allontana dalla civiltà, quanto più s'allontana dalla ragione.

Non sono ammessi sviamenti, nessuna devianza è ammessa: la strada è una, il metodo è uno, quella della ragione teologica. Rassicurante padre della salvezza, segnavia della strada maestra, Tommaso vince gli eresiarchi, sconfitti in partenza e divisi. Su un elegante marmo rinascimentale sono sinistramente ammonticchiati i volumi degli eretici, pronti per la libagione – così come, quando la finzione sarà matura per divenire realtà, ovvero tra un secolo esatto, lo sarà anche Giordano Bruno.

Il modello di sapienza offerto dall'affresco di Lippi (ciclo esteticamente magistrale, senza dubbio alcuno) è il modello ufficiale non solo dei domenicani di Santa Maria sopra Minerva, ma della Chiesa tutta, e in generale del sapere teologico. È un modello ordinato, rassicurante, secondo il quale a ciascuno spetta un ruolo univoco; è sapere infallibilmente trasmesso ex cathedra sui fedeli, mai in itinere. Cattedra implica stasi, immobilità, katà, sopra, edra, sedia, star seduti.

Pochi anni dopo, nel 1508, e a pochi chilometri di distanza, Raffaello Sanzio fu chiamato da Giulio II ad affrescare le famose Stanze vaticane, lavoro che lo terrà impegnato fino alla morte, sopraggiunta nel 1520. È il secolo 16: la potenza economica italiana, dopo aver raggiunto l'apogeo, sta cominciando ad eclissarsi, e il complesso raffaellesco e michelangiolesco possono forse essere considerati gli ultimi colpi di coda della supremazia culturale italiana sul mondo.

La lavorazione della Scuola di Atene impegna Raffaello e suoi aiutanti un anno, dal 1509 al 1510, e il risultato è uno delle più famose rappresentazioni di sempre dell'universo greco antico. L'Umanesimo raggiungeva davvero il suo scopo ultimo attraverso il pennello dell'urbinate: la grecità diviene calco sul quale rappresentare, in geniali re-interpretazioni, il sapere italiano coevo e i suoi rappresentanti.

In questo affresco, rispettando l'antico, si crea il moderno; i volti dei filosofi greci divengono i volti dei filosofi nuovi, come a significare che non esiste distanza storica nella sfera del sapere, ma un'unica grande umanità, con le sue eredità e con le sue forze. L'affresco è, insomma, la più riuscita rappresentazione pittorica di un certo modo di intendere il sapere, perfettamente speculare – anche nella impostazione strutturale – all'affresco quasi contemporaneo di Lippi.

Laddove in Lippi si cercava di interpretare il sapere teologico e cattedratico, in Raffaello si esalta il sapere filosofico e dialogico. Poco importa saper riconoscere tutti i filosofi – e sono più di quanto si possa immaginare – della composizione; molto più interessante è cogliere lo spirito e gli atteggiamenti che la muovono. A destra qualcuno traccia su una lavagna una dimostrazione geometrica, attorniato da curiosi; a sinistra c'è chi scrive, chi copia, e chi legge; sullo sfondo, Socrate è intento a confutare le sicurezze di qualcuno; Diogene Cinico sta mollemente seduto sui gradini della scuola, isolato come Eraclito Buonarroti, melanconico düreriano in attesa dell'ispirazione.

Al centro stanno Platone da Vinci e Aristotele da Sangallo; ma le loro figure non sono più grandi delle altre. Stanno al centro per importanza, non per diritto divino; e se non fosse per gli archi trionfali che costruiscono la prospettiva dell'intera composizione, quasi si confonderebbero nella turba che li accompagna. Tutto trasmette movimento, confusione; se potessimo entrare nell'affresco, saremmo certamente sopraffatti dal rumore delle dimostrazioni e dalle dispute filosofiche sull'origine del bello.

Un sapere che si costruisce nel confronto, anche caotico; nel dia-logos, appunto, nel parlare attraverso, nella ragione che si costruisce attraverso (intendiamolo fisicamente) le persone. In questa confusione è difficile scorgere l'Errore; i suoi bianchi capelli disordinati potrebbero essere quelli di Diogene; oppure potrebbe restare isolato così come resta isolato il Plotino di Raffaello. L'errore non si distingue perché conoscere è errare, vagare, tentare più strade.

L'errore non è male, non si appiattisce sul peccato; sono due categorie diverse, una logica e l'altra morale. L'errore si mostra, si tenta di correggerlo; ma non si annienta, perché, si sa, l'errore di oggi potrebbe essere la verità di domani.

Questa è la “sapienza dei sapienti” che voleva annientare Paolo: il Verbo di Cristo era venuto per arrecare lo “scandalo tra i Giudei”; era considerata “stoltezza per i pagani”, ovvero per i “Greci che cercano la sapienza” (1 Cor 1,22-23). Questo non ci deve stupire. Tertulliano scriveva: “Credo quia absurdum”. Al credente non importa il dialogo, non importano le dimostrazioni né le confutazioni filosofiche. Alla fede sta stretta la Scuola di Atene, e ciò va senza dubbio rispettato.

Ma non bisogna mai dimenticare che la sicurezza dogmatica, quando è affiancata dalla spada, quando ha l'appoggio del potere, diventa pericolosa. Ed è giusto ricordare che le parole di Paolo sono tratte da Isaia, 29,13-14:

Dice il Signore: Poiché questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra mentre il suo cuore è lontano da me […] continuerò a operare meraviglie e prodigi con questo popolo; perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l'intelligenza dei suoi intelligenti.”

La vittoriosa esclamazione di Paolo di Tarso, intesa come vittoria della fede sulla sapienza greca, è in origine minaccia divina contro il fariseismo in Isaia. Lezione: il cristiano non disprezza la sapienza né l'intelligenza, e neppure i loro frutti, in quanto doni elargiti da dio.

Se si dimentica questo, la fede diventa flagello. Ed è con un brivido che chiudo questo intervento, ricordando che fu proprio Santa Maria sopra Minerva la chiesa che, il 22 giugno 1633, ospitò un abiurante Galileo Galilei, inginocchiato davanti ai “generali Inquisitori” e alla sapienza degli aristotelici (si fa per dire) domenicani. Tommaso aveva ancora una volta sconfitto l'Errore.

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