domenica 27 gennaio 2013

Sul giorno della memoria


L'esagerazione è uno strumento della dialettica di Adorno. Quando il francofortese dichiarava, sicuro di sé e delle sue teorie, che “scrivere poesie dopo Auschwitz è un atto di barbarie”, le sue parole, lungi da essere una semplice provocazione intellettuale, vanno prese sul serio.

Scrivere poesie, fare cultura dopo Auschwitz, è un “atto di barbarie” perché la cultura ha fallito. Se è stato possibile, in uno dei paesi intellettualmente più progrediti al mondo, eliminare sistematicamente individui come capi di bestiame, allora la cultura non era che spazzatura, macchiata per sempre dal marchio del nazismo. Farla significherebbe rendersi complici della stessa civiltà che ha creato Bach e i campi di sterminio.


Il paradosso del sopravvissuto, per Adorno, sta proprio qui, nel conflitto irrisolvibile tra dovere del ricordo e impossibilità della parola. Siamo nel '63, la piaga è ancora esposta, e Adorno capisce che il sopravvissuto ha il diritto di parlare così come il martire di urlare durante la tortura.

Se da un verso dobbiamo rinunciare alla comprensione concettuale davanti ai campi, dall'altro nemmeno l'arte è in grado di trattare l'orrore, quello con la maiuscola, col dovuto tatto. Ridurre Auschwitz a categorie estetiche è un procedimento immorale poiché ogni prodotto artistico ha in sé la possibilità di “estorcere godimento”. Ricordare sì, ma al di fuori di interpretazioni artistiche: vedo un quadro sulla Shoà, e già, invece di pensare al dolore senza tempo delle vittime, ne apprezzo la gradazione cromatica, i punti di luce, mi perdo nella fruizione; ed ecco che l'arte finisce coll'edulcorare l'orrore invece di illuminarlo. L'arte è forma, e l'orrore non può assumerla senza snaturarsi.

Divergiamo da questo punto di vista e lanciamo una provocazione. Non esiste orrore con la maiuscola. Esiste l'orrore umano, l'orrore creato dall'uomo. Pensare che Auschwitz rappresenti l'apice delle nostre potenzialità, l'unicum irripetibile del male umano, significa sottostimare colpevolmente il talento che abbiamo dimostrato nell'arrecarlo. L'intellettuale che sostiene l'unicità dei campi di sterminio nazisti, unicità non tanto storica, quanto morale, prefigura già il gesto di rifiuto, incredulo e cinico, del civile che si scherma di fronte alle Auschwitz future.

Non c'è nulla di incredibilmente “diabolico” in Auschwitz: ed è questa la sua triste e terribile diabolicità. Lo sterminio degli ebrei – e non solo – da parte di nazisti e fascisti – e non solo – ha dimostrato, negli anni Quaranta del secolo scorso, quanta parte abbia avuto l'organizzazione e la perizia tecnica nell'economia dello sterminio, e nulla più. La vera unicità di Auschwitz risiede nella maggiore tecnicizzazione della morte e nel fatto che è accaduta all'interno dei confini della razionalità europea.

Non vedo alcuna differenza tra i carri bestiame diretti in Polonia, nel freddo inverno del 1942, e le navi stipate di schiavi africani sotto il sole dei tropici, dirette in Brasile e quindi nelle piantagioni americane; traffico che ancora a metà dell'Ottocento fioriva nelle “democratiche” terre occidentali. Non vedo alcuna differenza tra le marce forzate nel gelo dei gulag russi e le spedizioni spagnole in America, all'alba della nostra “modernità”. Nessuna differenza tra i milioni di folli rinchiusi a forza nei manicomi di tutta Europa e il genocidio degli armeni da parte dei turchi, o nello scontro tra Tutsi e Hutu in Ruanda, su su fino al napalm in Vietman e il fosforo bianco in Palestina.

Non si sta cercando di fare una classifica degli orrori che sono accaduti – e che continueranno ad accadere. Si sta cercando di mostrare, al contrario, che ogni orrore si equivale, e che non dovrebbe esistere una giornata della memoria, quanto piuttosto una "giornata delle memorie", tutte assieme. Una giornata delle memorie da segnare sul calendario di tutti i paesi, un dì nefasto in cui ricordarci che siamo tutti complici, perché tutti umani.

Se si dimentica la lezione che ci ha dato la Arendt, ovvero che il male non si manifesta come uno Jago o come una Lady Macbeth, ma che preferisce prendere la forma di un imbianchino, di un funzionario pubblico, del vicino di casa, la forma più banale possibile proprio per non farsi vedere e passare, sotto mentite spoglie, come del tutto normale, come legittima e sopportabile; se dimentichiamo tutto questo, allora dimentichiamo anche la possibilità, sempre presente, che l'orrore si ripeta.

Ricordare ostinatamente – e spesso morbosamente – Auschwitz porta con sé il pericolo di diventare ciechi rispetto a tutte – e quante – le forme d'orrore (se ci è concesso questo ossimoro, con buona pace di Adorno) che non si conformano ad essa. Pensare che rappresenti un “assoluto” è sbagliato, e a livello storico e a livello morale, in quanto non esiste assoluto nella storia del male umano.

Ammesso questo, coscienti che il male fa parte delle nostre potenzialità umane almeno quanto il genio, ecco che è possibile riammettere l'arte, che Adorno relegava invece nella sfera dell'immoralità, in quanto inadatta a dar forma all'indicibile.

L'arte può e deve umanizzare l'orrore. Non è il suo compito, poiché l'arte non ha compiti: è una delle sue essenze. L'arte, sfuggendo ai concetti filosofici e alle ridicolaggini religiose – in quanto l'orrore, per usare le belle parole di Adorno “ridicolizza ogni pretesa di dare un senso all'immanenza attraverso una trascendenza posta positivamente” – l'arte riesce a rendere umano ciò che a prima vista pare inumano; e ci insegna proprio questo: che l'inumano fa parte dell'umano, che è una delle sue mai sopite possibilità.

L'arte ci avvicina all'orrore quanto basta per vedere i segni della mano dell'uomo e sconfessare ogni pretesa di farne un assoluto; allo stesso modo ci allontana rendendocelo sopportabile e comprensibile. Perché è questo, in ultima analisi, il vero nucleo della questione: l'orrore va compreso, è vero, ma senza cercarne motivi che escano da noi stessi.

Questa dovrebbe essere la lezione di una giornata delle memorie: un male assoluto implica una memoria assoluta; e una memoria assoluta, un passato ineliminabile e indicibile, non può che renderci ciechi quando ci volgiamo al futuro. Un futuro inquietante poiché gravido di qualsiasi possibilità, ma anche di qualsiasi speranza.

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