lunedì 27 ottobre 2014

Boyhoood, un'educazione sentimentale

Non si tratta di una recherche du temps perdu: il tempo è lì, sullo schermo, tangibile, visibile. Nessuna nostalgia nell'ultimo lavoro di Richard Linklater, Boyhood (2014), ma piuttosto sguardi clinici e impietosi. Un'educazione sentimentale.





Nel romanzo di Flaubert, del 1869, assistiamo infatti a qualcosa di analogo. È la storia di un borghese di provincia risucchiato dal tempo, privo di scopi e di interessi. Abulico, perennemente indeciso, malinconico, del tutto privo di qualsiasi appiglio narrativo, se non fosse per l'amore senza speranza che lo attira fatalmente alla sua Madame Arnoux. Una storia tra mille altre, immerse nel tempo.

Leggendo il libro, il lettore prova un sentimento sotterraneo ma costante: quell'inquietudine appena percepibile che ci coglie non appena avvertiamo il passaggio del tempo. Lo stesso tipo di inquietudine che ci prende quando ci accorgiamo che, nel nostro telefono, il calendario va ben oltre le nostre più rosee aspettative di vita; quando osserviamo le generazioni succedersi nelle aule che noi stessi abbiamo frequentato; quando insomma capiamo che al tempo, di noi, non interessa granché.

Flaubert osserva dall'alto, con ironia; come se il narratore potesse, nello spazio di qualche centinaio di pagine, sfuggire alla stessa corrente che travolge, mastica e assimila i personaggi del libro. Si fa beffe delle loro debolezze, delle mode che seguono, dei grandi avvenimenti a cui pensano di assistere; allo stesso tempo, schiaccia i rari esempi di virtù sotto il peso del necessario e inevitabile oblio.

Linklater riesce, e con grande maestria, in un esercizio analogo a quello di Flaubert. Per due ore tenta, disperatamente, di sfuggire al passare dei dodici anni che invecchiano, sformano e consumano gli attori del suo film. Per due ore osserva con lo stesso spietato distacco la società americana, l'avvicendarsi effimero delle cose: il progresso tecnologico, gli attacchi militari tanto numerosi che se ne perde il conto, il turbinare insensato di persone che entrano ed escono dalla vita dei personaggi.

Il film descrive con documentaristica attenzione dodici anni reali della vita quotidiana, immaginaria, di un ragazzetto texano qualunque. Per due ore, nessun grande evento, nessun incontro memorabile. Gente comune, ma non per questo meno interessante. Poiché, come per Flaubert, è nei gesti, nei tic, nelle comuni debolezze delle persone, nella loro inevitabile insignificanza, che si gioca il film e la sua comprensione.

E il sentimento che cresce nello spettatore, lentamente ma inesorabilmente, come le spire di un brutto animale, è lo stesso che perturba il lettore di Flaubert: lo schiarirsi della verità fondamentale che la vita è illusione. O come raccontava lo stesso Linklater in un suo film precedente, il bellissimo Waking Life (2001), la vita è un sogno che non smettiamo mai di sognare.

Speriamo che questo film abbia il successo che merita, superando tutte le difficoltà di accoglienza che interessarono invece il romanzo di Flaubert alla sua prima apparizione. Perché, come scrive Thibaudet, "il pubblico chiede sempre un lavoro che gli dia l'illusione della realtà, e non di fargli capire che la realtà è un'illusione".

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