Tra
le varie immagini dell'ultimo film di Sorrentino, This must be the place,
ce n'è una che, a distanza di ormai qualche mese, ricordiamo di una
rara forza espressiva. Il rocker fallito, simbolo dell'immobilismo
musicale degli ultimi anni, maschera di se stesso, è alla ricerca
dell'aguzzino nazista del padre. Riesce a rintracciarlo, ormai più
che ottuagenario, dentro un caravan, solo nel bel mezzo della
Siberia.
Faccia
a faccia con l'orrore, Cheyenne porta la mano alla tasca; ci
aspettiamo che tiri fuori un'arma, per farla finita col passato e
completare una volta per tutte la vendetta. Ma ecco che invece dalla
tasca emerge una macchina fotografica, l'avvicina al viso del
gerarca, e il flash fa le veci dello sparo. Un
passato immortalato per sempre dal semplice gesto del rocker, invece
di essere distrutto come merita.
Non si sa perché: se per pietas umana, per monito alle generazioni future, se per un disprezzo ancor più profondo, come a significare una tortura non-violenta ai danni del vecchio. Quest'ultima lettura sembra la più indicata, suggerita com'è dalla scena seguente: l'immagine del proprio volto, immortalato per sempre dalla fotografia – invece di venir distrutto dallo sparo – sembra alimentare il rimorso di quell'anima e spingerla a denudarsi, in una bruttezza decadente, sia fisica che spirituale, fino a gettarla nel bianco più bianco del gelo siberiano, come in una purificazione (e annientamento) finale.
Quale
che sia il significato della scena nelle intenzioni di Sorrentino, si
può affermare che essa ha espresso, in pochi minuti, un concetto che
da tempo la nostra cultura fatica a metabolizzare, dando immagine
allo Zeitgeist dei nostri giorni. La permanenza del passato nel
presente: è questo il concetto fondamentale del film.
Basti
pensare al protagonista, come già detto, fantasma di se stesso e di
un periodo che non vuole passare; al tema dell'Olocausto che,
similmente, costituisce un avvenimento da cui non possiamo redimerci,
ma solo e sempre ricordare (abbiamo infatti una Giornata della
Memoria, non una Giornata del Perdono, noi, così cristiani); infine
alla storia laterale della madre in attesa del figlio fuggito, che
non riesce a rassegnarsi della alla perdita.
È
motivo d'orgoglio nazionale il fatto che nessun altro film degli
ultimi anni sia riuscito a illustrare così bene la condizione della
cultura (o della società?) dei nostri giorni, come questo lavoro
italiano. In gioco c'è, come sempre, la questione del
postmodernismo, se e come sia possibile superarlo.
Lo
stesso tema, benché declinato in modo del tutto diverso, lo
ritroviamo puntualmente nell'ultimo lavoro di Reynolds, Retromania
[ISBN
edizioni, 2011]. Le sue riflessioni partono dalla condizione
dell'industria e della produzione musicale degli ultimi 10-15 anni,
ma potrebbero senza dubbio essere estese, alla cultura
occidentale degli ultimi 30 anni, ovvero al fantomatico periodo
postmodernista.
Volente
o nolente, Reynolds ha il merito di avere delineato meglio di molti
altri cosa in realtà si intenda con postmodernismo in arte. Il suo
libro è una messa a fuoco di questo problema, ed è consigliato non
solo ai musicofili, ma anche a chiunque voglia capire a che punto
siamo, cosa sta succedendo in ambito artistico e perché.
Anche
qui il ruolo principale è svolto dal passato. Fin dalla prime
pagine, Reynolds parla di ri-decennio, di retromania appunto, di
nostalgia per un futuro rubato, di una necrofilia diffusa in ogni
esercizio artistico attraverso la ricombinazione, il famoso pastiche
postmoderno, la post-produzione, il tutto ai danni del modernismo dei
Sessanta e Settanta, dell'originalità, della sperimentazione
innovativa.
La
storia, insomma, avrebbe fatto marcia indietro: dall'avanguardia alla
retroguardia, dall'innovazione alla combinazione, dalla creazione
alla ri-creazione. Oberati da un passato che non vuole passare, gli
artisti non avrebbero altra scelta fuorché il gioco, tanto inutile
quanto inattuale, di citazione e divertissement, prendendo in
prestito le tecniche di riciclaggio e obsolescenza programmata
tipiche della moda, e staccandosi della realtà contemporanea.
“Invece di esprimere se stessi, i duemila preferivano offrire un concentrato di tutti i decenni precedenti: una simultaneità della cronologia pop che abolisce la storia, erodendo l'autocoscienza del presente in quanto epoca dotata di identità e sensibilità proprie.” [Introduzione, p. x]
Questo
per vari motivi. In primo luogo, per una non meglio definita “natura”
della creazione artistica: a fasi di grande sperimentazione e
sovrapproduzione seguono naturalmente fasi calanti, di riassestamento
e ricombinazione delle possibilità non sfruttate (Reynolds, seppur
semplificando un po' troppo, fa gli esempi del ristagno musicologico
dei primi Settanta; degli ultimi Ottanta, e del decennio Zero;
contrapposti alla frenesia, e alle ondate creative dei Sessanta, dei
tardi Settanta dei Novanta – psichedelia, punk e new wave, rave e
house).
Inoltre,
per lo sviluppo delle capacità d'archiviazione tipiche della
tecnologia digitale. La questione si fa sicuramente più
interessante: non solo la pervasività della memoria collettiva della
Rete assicurerebbe ai nostri “contenuti” una longevità prima
d'ora neppure sperata, ma li svuoterebbe di significato storico,
ponendoli tutti allo stesso livello, in una “atemporalità
radicale” (William Gibson) o in una “iper-stasi”.
In
altre parole, è come se il sovraffollamento di dati ci rendesse
incapaci di ricostruirne il contesto, la loro collocazione storica, e
li cristallizzasse in un presente tanto eclettico quanto ignorante.
Tuttavia,
l'aumento di memoria non è bilanciato da un'originalità della
produzione. Le tecniche per fare musica non sono cambiate, ma sono
cambiati i modi di fruirne: da qui il paradosso di un decennio che
non ha saputo inventare nulla, ma solo riscoprire e rilanciare.
“Non è mai esistita una società non solo tanto ossessionata dai prodotti culturali del suo passato più recente, ma anche tanto capace di accedere al passato immediato.” [Introduzione, p. xxi]
Secondo
Reynolds non ci sarebbero stati nuovi veri fenomeni nel mondo della
musica rock e pop, ma solo revival e rétro: ora nostalgicamente (si
legga dolorosamente)
rivolti a un'età dell'oro non solo perduta, ma spessp nemmeno vissuta
(nuovo stile musicale che viene chiamato qui hauntology - mi vengono in mente, per fare un'esempio, i nostrani Calibro 35),
ora retrospettivamente impegnato nel saccheggio e rimescolamento
disinvolto del passato, quasi fosse un cassetto degli attrezzi già
pronto all'uso (mash-up, sampling, rétro).
Fin
qui tutto bene: si tratta di una critica musicale ben
strutturata e in larga parte fondata. Ma l'argomentazione estetica di
Reynolds, così solida e convincente nelle prime e nelle ultime
parti (dedicate all'oggi e al domani), comincia a mostrare qualche
debolezza a metà volume quando, rivolgendosi al passato per
rintracciare fenomeni simili alla retromania odierna, si risolve in
un'incomprensibile o forse involontaria auto-confutazione.
Poiché,
infatti, le domande che sorgono dalla lettura dei capitoli dedicati
alla retromania del
passato,
sono domande importanti. Se la retromania è un fenomeno che è
sempre esistito, ora più sviluppato e forte ora meno, che differenza
c'è in fondo tra i nostri giorni e gli anni '60? E ancora,
dove collocare quel passato da cui siamo ossessionati, se, nel farlo,
continuiamo a risalire indietro nella storia (noi siamo ossessionati
dagli anni '80, che a loro volta sono ossessionati dai '60 e dai '70,
che a loro volta sono ossessionati dai '50, e così via)? Quale
periodo storico può fare a meno di un confronto col passato? Infine,
quale sarebbe la particolarità esemplare dei nostri giorni?
Vediamo
come tutto si faccia più confuso e ingarbugliato quando analizzato
da vicino. Esempio lampante: il caso del punk, nato come movimento
reazionario (torniamo all'autenticità del rock and roll, al diavolo
la psichedelia, il progressive etc.) finito per innescare un
mutamento rivoluzionario che ha dato nuova forza e nuova vita alla
scena musicale. Un movimento di retroguardia e di rimpianto passatista, avrebbe quindi creato qualcosa di nuovo [cfr. pp.
255-272].
Gli
stessi Beatles, simbolo della sperimentazione più pura, all'apice
della carriera (1968) hanno inciso un album che non esiteremmo a
definire oggi postmodernista: il White Album,
intriso di citazioni, autocitazioni e divertissement, nonché
nostalgia di un passato ormai lontano. E con loro, più o meno nello
stesso periodo, abbiamo le esperienze diverse ma analoghe di Frank
Zappa, Creedence Clearwater Revival, The Band, artisti ossessionati
dal ritorno all'Origine, ovvero dagli anni '50 [cfr. pp. 289-301].
Reynolds
si spinge oltre fino ad affermare che:
“Il rétro diventa così un tratto strutturale della cultura pop: è l'inevitabile fase calante che segue la frenesia creativa, ma anche una reazione all'accumulo di idee e stili il cui potenziale non è ancora stato sfruttato appieno.” [p. 216]
Detto
fatto: stiamo vivendo una fase calante come ce ne sono già state
nella storia; la particolarità è soltanto tecnologica: una maggiore
disponibilità di passato archiviato immediatamente disponibile
all'uso. Superati questi anni, ci sarà una nuova fase crescente, e
così via, in una storia della creatività che somiglia più a un
calendario lunare, o a un motore malato soggetto a accelerazioni e
brusche frenate. "Il futuro deve ancora arrivare", si autoconvince Reynolds, chiudendo il suo lavoro.
Il
punto è proprio questo: le analisi sono influenzate dalla
futuromania di Reynolds, dalla sua idea che possa esistere
un'innovazione costante in arte, fatta di continui superamenti di se
stessa; e se non accetti le sue idee, divieni necessariamente
postmodernista anche tu. O con lui o contro di lui: segui me, e
diventerai il paladino del nuovo ad ogni costo, il critico musicale
eternamente scontento della condizione della musica contemporanea;
segui gli altri e sarai il citazionista furbetto ed ironico che vive
alle spalle degli artisti veramente originali.
Vediamo
perché le cose non stanno esattamente così.
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