Abbiamo analizzato il pensiero di Simon Reynolds riguardo alla retromania,
idea che interessa il campo della musica popolare quanto quello della
moda e dell'arte contemporanea.
La
paralisi creativa che investe questi campi sarebbe misurabile
dall'emergere di nuovi fenomeni quali revival e stili musicali
sincretisti o “archivistici”; paralisi in parte originata dalla
rivoluzionaria pervasività della documentazione digitale.
Reynolds,
secondo noi, non fa che interpretare meglio, e dal suo personale
punto di vista, il problema centrale della teoria artistica degli
ultimi 20 anni: il postmodernismo. Partendo da una lettura
“temporale” del fenomeno (il passato che non passa mai, oltre al
più convenzionale tema del “gioco stilistico” che da necessario
si fa velleitario e citazionista), finisce per condannare le
produzioni degli ultimi dieci anni di musica pop. L'unica vera
rivoluzione sarebbe quindi tecnologica (modo di fruizione della
musica; archivi di memoria collettiva illimitati; bulimia da
download) piuttosto che sostanziale.
Il
punto debole dell'argomentazione di Reynolds si palesa in un altro
passaggio. È quando il suo stile da descrittivo vuole farsi
normativo, è quando cerca di proporre in positivo una sua teoria
dell'arte, che emergono rilevanti difficoltà concettuali.
Reynolds,
con una punta d'ironia, confessa di essere un futuromane, di avere
abbracciato “la fede nel
cambiamento costante e nell'innovazione infinita”;
enuncia senza problemi il “credo
del modernismo”:
“(...) l'arte dev'essere sempre proiettata verso nuovi territori, reagendo ai predecessori immediati con violenti gesti di rottura e sganciando gli stadi superati come un razzo che sfreccia nello spazio.” [Retromania, ISBN edizioni, 2011, pp. 408-409]
Da
queste “inclinazioni
personali” discende
ordinatamente l'intera argomentazione del volume. L'arte degli Anni
Zero è “piattume”,
proprio perché ha abbandonato questa spinta viscerale verso il
nuovo, questa indefessa ricerca dell'originalità, la voglia di
rottura e provocazione.
Ecco,
noi sosteniamo invece che, storicamente, è stato proprio questo
modernismo oltranzista a provocare nell'arte la grande crisi (se
davvero esistesse crisi nell'arte e non, con più sobrietà,
cambiamento) del postmodernismo. Non un riflusso, quindi, né una paralisi; ma la diretta conseguenza dell'accettazione acritica di un paradigma, quello dell'innovazione infinita, ingannevole e contraddittorio in sé.
L'arte
non nasce nella storia per stupire, né per meravigliare, né per
provocare. O meglio, non nasce unicamente con questi intenti, né
sono queste le direttive del suo sviluppo. L'arte nasce come
imitazione (mìmesis,
termine-universo difficile per noi da maneggiare) di qualcosa, in
prima istanza. Parimenti, l'artista non è il grande provocatore,
l'innovatore creatore assoluto: l'artista è semplicemente (e più
modestamente) il detentore di un sapere pratico, regolato da regole
precise, più vicino alla tecnica (techne)
che all'arte come oggi la intendiamo.
Nell'arte intesa classicamente non c'è spazio per l'individualità; non esiste neppure il concetto di creazione artistica. L'artista segue un canone, più o meno liberamente. Ed è proprio la capacità di riprodurre questo canone che lo rende artista.
Questo
è stato il paradigma artistico dominante (anche se non il solo)
della storia estetica Occidentale. Una prima manifesta incrinatura di
questa convinzione (già da tempo, tuttavia, latente nella teoria
estetica europea) si ha con la Critica
del Giudizio di Kant. Siamo
alle soglie dell'Ottocento, più precisamente nel 1790. Da allora la
Grande Teoria della mimesis
(usiamo in questa ricostruzione sommaria e manchevole, il lessico e l'argomentazione di
Tatarkiewicz) cominciò a perdere gradatamente d'attualità a favore
dell'estetica dei romantici.
Aumentò
al contrario e in modo inaudito l'importanza dell'individualità
dell'artista, della sua creatività; il pubblico cominciò a cercare
ciò che più colpiva i suoi sensi, ciò che deviava dalla regola: in
una parola, l'originalità creativa. Questo è ciò che si usa
intendere con il nome modernismo.
Il
più importante storico dell'estetica del Novecento, W. Tatarkiewicz,
mostra con grande chiarezza concettuale lo svolgersi del paradigma
che ha finito per imporsi (notare bene, l'estetologo polacco scrive
negli anni Sessanta, ovvero all'apice della presunta ondata di
creatività artistica dovuta al modernismo) come regola estetica,
modificando il gusto del fruitore e, soprattutto, le idee
dell'artista.
Tatarkiewicz
parla di una prima fase di questo cambiamento epocale, descrivendo
un'avanguardia maledetta
che rompe con i canoni accettati, con l'accademismo, un'avanguardia
che emerge dapprima nel campo delle lettere, in particolar modo nella lirica francese, per poi contagiare anche le arti figurative. In
questa fase, l'avanguardia non è accettata dal pubblico, e i suoi
protagonisti, isolati innovatori, non godono di particolare stima né
fortuna. Maledetti, appunto, reietti e incompresi.
Questa
avanguardia finisce per persuadere i primi critici d'arte, incontra i
gusti del pubblico grazie alle grandi personalità e all'effettivo
valore degli artisti, prende coscienza di sé e comincia a
organizzarsi in movimenti, ben caratterizzati da manifesti e
riconoscibili: è la fase dell'avanguardia
militante. Futuristi,
cubisti, surrealisti, dadaisti, astrattisti, suprematisti,
formalisti: impossibile ricordare tutti i movimenti. È la grande
fase della sperimentazione artistica, in tutti i suoi campi. Il
successo s'accorda alla spregiudicatezza dei suoi protagonisti.
Ed
eccoci arrivati al paradosso: il paradigma modernista ha a tal punto
affascinato il pubblico e gode di tale successo economico, che
l'eccezione diventa la regola. È l'avanguardia
vittoriosa, per la quale
non c'è arte che non provochi, non c'è artista che non sperimenti.
In un certo senso, l'arte si appiattisce a "originalità per
l'originalità". Con Dubuffet, uno dei migliori esponenti di questa
nuova età dell'arte, possiamo dire che
“(...) l'essenza dell'arte è la novità. L'unico sistema favorevole all'arte è la rivoluzione permanente.” [Cit. in Tatarkiewicz, Storia di sei idee]
Rivoluzione permanente, rivoluzione istituzionalizzata – infine
non-rivoluzione.
Il
riassunto che ho dato qui sopra delle riflessioni di Tatarkiewicz
potrà sembrare eccessivamente riduttivo: lo è. Ma adesso, forse,
facendo un passo in avanti, possiamo tentare di capire meglio il
contesto storico-artistico dal quale è nato il concetto di
postmodernismo.
Il
postmodernismo è l'implosione necessaria generata dall'inganno
retorico delle avanguardie. La corsa al nuovo era destinata a finire
nella ripetizione; la ricerca della provocazione, alla vuota parodia
di se stessa. L'avanguardia diventa impossibile, si trasforma in
pensiero-limite. Esaurite le possibilità di stravolgimenti formali
pianificati, si è passati a combinare elementi del passato (miniera
inesauribile di materiale artistico), in modi nuovi – ovvero
creando rivoluzioni "ipotetiche": è il pastiche,
la ricombinazione, il vacuo esercizio di stile.
Ciò
che Lyotard sostiene ne La condizione postmoderna (1979)
– registrando la
perdita di una legittimazione classica del sapere scientifico
(filosofia) a vantaggio del criterio di performatività (incremento
della produttività e dell'efficienza), e riducendo il discorso
scientifico a gioco linguistico – può essere feracemente
“deturnato” al mondo artistico come segue: “postmoderna
è l'incredulità nei confronti dell'avanguardia”.
Il cerchio è chiuso: dall'avanguardia alla retroguardia, sempre per
amore dell'innovazione infinita.
Ma
l'idea, anzi, il postulato, di un'innovazione infinità è errato.
Non semplicemente utopico, normativo o bello: errato. Innovazione, in
arte, è un termine che non ha alcun significato. Ex
nihilo, nihil: questo
principio occorre tenerlo saldo anche in estetica.
Niente
nasce dal niente: ogni sforzo di apparire innovatori rivoluzionari è
destinato al fallimento (teorico, non pratico – di cialtroni è
zeppo il mondo dell'arte), in quanto ogni artista porta in sé una
Tradizione, spesso inconsapevolmente, della quale non solo non è
desiderabile disfarsi, ma la cui mancanza, se per assurdo fosse
possibile eliminarla, pregiudicherebbe alla base ogni possibilità
futura di creazione, condannandoci al mutismo.
[Avevamo
già parlato di questo aspetto tempo fa, descrivendo un'epoché di questa Tradizione: una messa tra parentesi che non significava
rifiuto o rottura, ma serviva ad evitare un altro mutismo, speculare
a quello già menzionato, derivante dal soffocamento della Tradizione, dall'immobilismo forzato dalla reverenza piuttosto che
dall'ignoranza. Ma ciò non è importante.]
Il
modernismo, così come il postmodernismo, sono paradigmi (utilizzo il
lessico kuhniano perché più conosciuto, ma potrei benissimo
impiegare anche il termine di Fleck, Denkstil,
stile di pensiero - in questo caso è la filosofia della scienza a fornirci gli strumenti concettuali adeguati a una critica estetica), paradigmi che traggono ragion d'essere da un'altra
convinzione collettiva: che l'arte sia essenzialmente “innovazione”,
“creazione individuale”.
Il
primo ambisce ad ottenerla, il secondo dispera poiché non vi riesce;
il primo è utopia lanciata al futuro, il secondo distopia riavvolta
nel passato: da qui l'”impegno stilistico” del modernismo, la
fiducia nel cambiamento propria di questo stile di pensiero; e
l'ironia rinunciataria, il distacco, il giochi disinteressati e
cinici del postmodernismo.
Tolta
questa convinzione, sfatata la favola dell'innovazione e della
creatività, entrambi i paradigmi si risolvono definitivamente in
non-senso. Si rivela infine la loro vera natura: pure etichette,
espressioni vuote poiché troppo indefinite, che non significano nulla
e che non riescono a contenere la complessità del reale.
Discorso molto interessante. Mi domando (e domando all'autore) in che modo si possa applicare al fenomeno steampunk...
RispondiEliminaAngry Saint
Domanda molto interessante. Per iniziare citerei dall'urban dictionary: "Steampunk is a subgenre of speculative fiction, usually set in an anachronistic Victorian or quasi-Victorian alternate history setting. It could be described by the slogan 'What the past would look like if the future had happened sooner.' It includes fiction with science fiction, fantasy or horror themes."
EliminaOra invece mi metto nei panni di Reynolds e improvviso una critica al fenomeno steampunk. Mi sembra infatti che si possa considerare come la quintessenza del pastiche e del postmodernismo.
In primo luogo si tratta di ibridazione dei generi, fenomeno tipico del postmoderno (romanzo storico, distopia, ucronia, cyberpunk); ma credo che sia ancora più interessante interpretare lo steampunk come la riprova del fatto che non riusciamo più a immaginarci un futuro, se non relegandolo nel passato.
Costruisco una tipica frase Reynolds-Adorniana: "Lo steampunk è la retromania arrivata al suo culmine, ovvero è il pensiero postmodernista che rinuncia alla riflessione sul futuro in sé e per sé, preferendo trasportarlo nel più tranquillizzante e domestico passato. È la paura del futuro arrivata al suo compimento: lo si neutralizza portandolo indietro".
Ora, al di là di queste formulazioni, poco riuscite, devo confessare di non essere uno specialista del campo, e di non avere mai letto libri steampunk. Mi sembra però interessante usare gli strumenti di Reynolds in questo modo critico.
Spero di essere stato chiaro, e grazie ancora per l'interferenza.