[Una
recensione sbilenca a ITIS Galileo di Marco Paolini, andato in scena il 24 marzo 2012 al Teatro Ermete Novelli di
Rimini.]
C'è
stato un momento, durante lo spettacolo di Paolini, in cui mi è
venuta la voglia di alzarmi dal posto per correre sul palco ed
abbracciarlo.
Con
una maschera sul viso, Paolini da voce a Salviati, il personaggio del
galileiano Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632),
portavoce delle teorie copernicane, nonché camuffamento dello stesso
autore. La già spuria dizione di Paolini abbandona l'italiano per
abbracciare il ben più duttile dialetto veneto; i gesti si fanno
plateali; i ragionamenti più intricati; ed ecco il miracolo.
La
prosa galileiana è reinterpretata secondo i canoni della commedia dell'arte. I famosi esperimenti
mentali
di Galileo divengono canovacci comici con cui sbeffeggiare
l'avversario aristotelico, un Simplicio-pubblico ridotto al silenzio
ammirato o alla risata. E già questo basterebbe per una tale
effusione d'affetto: riunendo assieme la migliore tradizione italiana
(scientifica e artistica) Paolini erige un monumento alla grande
Italia, quella che tutti gli altri invidiano. Ma c'è dell'altro.
Paolini
riesce nell'assurdo e splendido tentativo di fare del principio di relatività del moto uniforme
materia per un monologo comico in dialetto veneto. Non possono che
sorgere perplessità e interrogativi: il testo originale è stato
rispettato o l'economia teatrale ha dovuto tagliare e semplificare
eccessivamente? Quanto rimane di Galileo e quanto emerge di Paolini?
Cosa giustifica una lettura del genere, e che cosa può servire al
pubblico una lezione di fisica teorica secentesca a teatro?
Qui
è il centro della questione. Il motivo è che il testo di Galileo è
perfetto per questo tipo di lettura. I paradossi galileiani si
prestano all'interpretazione teatrale perché sono nati per fare
presa sul lettore. È Il potere persuasivo e propagandistico della
prosa galileiana ad emergere con potenza dalla lettura di Paolini e
ad atterrire lo spettatore.
Come
Paolini stesso confessa poco prima di lanciarsi nell'impresa, non ha
dovuto stravolgere il testo originario più del necessario: il
Dialogo
nasce già con l'intento di ridicolizzare gli avversari del
copernicanesimo. Quella di Galileo è pura e geniale propaganda.
Galileo
aveva bisogno di esempi concreti, facilmente comprensibili da tutti,
ed efficaci, in modo da giustificare anche al profano (e da qui l'uso
del volgare – e che volgare! – al posto dell'accademico latino)
una teoria, quella dell'eliocentrismo, bizzarra e ancora in pieno
sviluppo, lontana dall'essere scientificamente sostenibile.
Da
qui i suoi famosi paradossi sul moto uniforme, che mettono alla prova
il talento di un Paolini non solo attore, ma anche divulgatore (e nel
suo piccolo spazio, filosofo). Ogni esempio è ripreso e
drammatizzato in modo da far presa sul pubblico di oggi come allora
doveva farla al lettore sprovveduto.
Eccezionale
l'esempio della pietra scagliata in aria che, sostenevano gli
aristotelici, se davvero la terra si muovesse, allora cadrebbe molto
lontano dal lanciatore, poiché nel tempo del volo, la Terra ha
percorso un po' di strada. Galileo dice: bene, facciamo lo stesso
esempio su una nave, caro Simplicio: lancia una pietra in aria e vedi
un po' dove cade. La nave infatti si muove, quindi la pietra dovrebbe
cadere lontano da te, che la lanci.
La
bocca aperta del Simplicio gabbato, in attesa che la pietra lo
colpisca in testa, è un'arma retorica formidabile, che Galileo
inventò proprio per gettare in ridicolo chiunque negasse il moto
della terra. Anche oggi il pubblico ride della dabbenaggine di
Simplicio, e si schiera decisamente a favore del brillante
Salviati-Galileo-Paolini.
E
davvero non c'è miglior modo di analizzare l'efficacia degli
argomenti galileiani attraverso la lente della commedia dell'arte: è
proprio grazie agli strumenti comici teatrali (la stessa ricerca
della risata, anche attraverso la fisicità, giocando sporco e
all'italiana, ridendo dei difetti e delle ubbie altrui) che resero gli
argomenti “scientifici” di Galileo tanto convincenti da mutare in
paradigma una concezione, quella copernicana, che altrimenti avrebbe
faticato a imporsi sulla comunità scientifica.
Il
merito di Paolini è quindi in primo luogo quello di aver avvertito
lo spettatore: attenzione, perché dietro ad ogni apparente
ragionamento razionale, anche in scienza, si apre un mondo di
tecniche retoriche e persuasive che hanno spesso ben poco di
razionale.
Ma
non è tutto qui. Paolini in fondo racconta una storia: quella di un
uomo che è stato ridotto al silenzio per la potenza di un'idea.
Mostra come la resistenza dogmatica al cambiamento abbia significato
per il nostro paese un'involuzione culturale in campo scientifico
senza precedenti nella storia occidentale, condannandolo ad una
“fossilizzazione teologica” durata secoli, che ancora adesso
fatichiamo a dimenticare.
È
un altro spettro che s'aggira per il palco, uno spettro che sa di
cenere: Giordano Bruno, ormai saldamente elevato (e ancor più
spesso appiattito) a simbolo sacrificale di questa mortifera reazione al
cambiamento. È infatti un brano tratta dalla sua Cena de le Ceneri
(1584) a chiudere lo spettacolo.
Ed
ecco che da epistemologo d'ascendenza kuhniana, Paolini (ri)diviene
propriamente “oratore civile”, ricordando al pubblico dei
pericoli di un'altra particolarità tutta italiana, la fobia
del nuovo,
e di quanto sia importante invece essere pronti al cambiamento, avere
il coraggio di buttare a mare le più salde convinzioni e di
spogliarsi d'ogni pregiudizio. Poiché, infine, il dogmatismo è il
più istintivo e il meno evidente degli errori umani.
Nodo,
questo della neofobia, che aveva già propriamente individuato, più
o meno un secolo prima, un altro degli illustrissimi italiani sepolti
a Santa Croce: Machiavelli. Ma questo è materiale per un altro
intervento.
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