lunedì 9 aprile 2012

Galileo, Paolini e la commedia dell'arte


[Una recensione sbilenca a ITIS Galileo di Marco Paolini, andato in scena il 24 marzo 2012 al Teatro Ermete Novelli di Rimini.]

C'è stato un momento, durante lo spettacolo di Paolini, in cui mi è venuta la voglia di alzarmi dal posto per correre sul palco ed abbracciarlo.

Con una maschera sul viso, Paolini da voce a Salviati, il personaggio del galileiano Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), portavoce delle teorie copernicane, nonché camuffamento dello stesso autore. La già spuria dizione di Paolini abbandona l'italiano per abbracciare il ben più duttile dialetto veneto; i gesti si fanno plateali; i ragionamenti più intricati; ed ecco il miracolo.
La prosa galileiana è reinterpretata secondo i canoni della commedia dell'arte. I famosi esperimenti mentali di Galileo divengono canovacci comici con cui sbeffeggiare l'avversario aristotelico, un Simplicio-pubblico ridotto al silenzio ammirato o alla risata. E già questo basterebbe per una tale effusione d'affetto: riunendo assieme la migliore tradizione italiana (scientifica e artistica) Paolini erige un monumento alla grande Italia, quella che tutti gli altri invidiano. Ma c'è dell'altro.

Paolini riesce nell'assurdo e splendido tentativo di fare del principio di relatività del moto uniforme materia per un monologo comico in dialetto veneto. Non possono che sorgere perplessità e interrogativi: il testo originale è stato rispettato o l'economia teatrale ha dovuto tagliare e semplificare eccessivamente? Quanto rimane di Galileo e quanto emerge di Paolini? Cosa giustifica una lettura del genere, e che cosa può servire al pubblico una lezione di fisica teorica secentesca a teatro?

Qui è il centro della questione. Il motivo è che il testo di Galileo è perfetto per questo tipo di lettura. I paradossi galileiani si prestano all'interpretazione teatrale perché sono nati per fare presa sul lettore. È Il potere persuasivo e propagandistico della prosa galileiana ad emergere con potenza dalla lettura di Paolini e ad atterrire lo spettatore.

Come Paolini stesso confessa poco prima di lanciarsi nell'impresa, non ha dovuto stravolgere il testo originario più del necessario: il Dialogo nasce già con l'intento di ridicolizzare gli avversari del copernicanesimo. Quella di Galileo è pura e geniale propaganda.

Galileo aveva bisogno di esempi concreti, facilmente comprensibili da tutti, ed efficaci, in modo da giustificare anche al profano (e da qui l'uso del volgare – e che volgare! – al posto dell'accademico latino) una teoria, quella dell'eliocentrismo, bizzarra e ancora in pieno sviluppo, lontana dall'essere scientificamente sostenibile.

Da qui i suoi famosi paradossi sul moto uniforme, che mettono alla prova il talento di un Paolini non solo attore, ma anche divulgatore (e nel suo piccolo spazio, filosofo). Ogni esempio è ripreso e drammatizzato in modo da far presa sul pubblico di oggi come allora doveva farla al lettore sprovveduto.

Eccezionale l'esempio della pietra scagliata in aria che, sostenevano gli aristotelici, se davvero la terra si muovesse, allora cadrebbe molto lontano dal lanciatore, poiché nel tempo del volo, la Terra ha percorso un po' di strada. Galileo dice: bene, facciamo lo stesso esempio su una nave, caro Simplicio: lancia una pietra in aria e vedi un po' dove cade. La nave infatti si muove, quindi la pietra dovrebbe cadere lontano da te, che la lanci.

La bocca aperta del Simplicio gabbato, in attesa che la pietra lo colpisca in testa, è un'arma retorica formidabile, che Galileo inventò proprio per gettare in ridicolo chiunque negasse il moto della terra. Anche oggi il pubblico ride della dabbenaggine di Simplicio, e si schiera decisamente a favore del brillante Salviati-Galileo-Paolini.

E davvero non c'è miglior modo di analizzare l'efficacia degli argomenti galileiani attraverso la lente della commedia dell'arte: è proprio grazie agli strumenti comici teatrali (la stessa ricerca della risata, anche attraverso la fisicità, giocando sporco e all'italiana, ridendo dei difetti e delle ubbie altrui) che resero gli argomenti “scientifici” di Galileo tanto convincenti da mutare in paradigma una concezione, quella copernicana, che altrimenti avrebbe faticato a imporsi sulla comunità scientifica.

Il merito di Paolini è quindi in primo luogo quello di aver avvertito lo spettatore: attenzione, perché dietro ad ogni apparente ragionamento razionale, anche in scienza, si apre un mondo di tecniche retoriche e persuasive che hanno spesso ben poco di razionale.

Ma non è tutto qui. Paolini in fondo racconta una storia: quella di un uomo che è stato ridotto al silenzio per la potenza di un'idea. Mostra come la resistenza dogmatica al cambiamento abbia significato per il nostro paese un'involuzione culturale in campo scientifico senza precedenti nella storia occidentale, condannandolo ad una “fossilizzazione teologica” durata secoli, che ancora adesso fatichiamo a dimenticare.

È un altro spettro che s'aggira per il palco, uno spettro che sa di cenere: Giordano Bruno, ormai saldamente elevato (e ancor più spesso appiattito) a simbolo sacrificale di questa mortifera reazione al cambiamento. È infatti un brano tratta dalla sua Cena de le Ceneri (1584) a chiudere lo spettacolo.

Ed ecco che da epistemologo d'ascendenza kuhniana, Paolini (ri)diviene propriamente “oratore civile”, ricordando al pubblico dei pericoli di un'altra particolarità tutta italiana, la fobia del nuovo, e di quanto sia importante invece essere pronti al cambiamento, avere il coraggio di buttare a mare le più salde convinzioni e di spogliarsi d'ogni pregiudizio. Poiché, infine, il dogmatismo è il più istintivo e il meno evidente degli errori umani.

Nodo, questo della neofobia, che aveva già propriamente individuato, più o meno un secolo prima, un altro degli illustrissimi italiani sepolti a Santa Croce: Machiavelli. Ma questo è materiale per un altro intervento.

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