Si
dice che una sola immagine, quando ben organizzata, valga più di
mille parole; e se per la pittura contemporanea questo detto non vale
più, in quanto si dipinge soprattutto per evitare la parola, per
rifugiarsi nell'indicibile, nel nostro caso questi due affreschi,
compiuti nello stesso torno di tempo da due maestri dell'Umanesimo
italiano, valgono quanto un trattato filosofico sulla differenza fra
dialogo e cattedra.
A
chi volesse capire qualcosa della differenza fra due concezioni
speculari della conoscenza e della trasmissione del sapere, una
derivante dalla filosofia e l'altra dalla teologia, senza però
faticare su testi e saggi tradizionali, consiglierei di osservare con
attenzione queste due composizioni – perché esse contengono il
segreto della sintesi e della leggibilità.
La
prima è opera di Filippino Lippi, San Tommaso in cattedra,
episodio isolato da un ciclo di affreschi dedicati alla vita dello
scolastico domenicano, compiuto tra il 1488 e il 1493 a Roma,
nella cappella Carafa della chiesa Santa Maria sopra Minerva.
Tommaso
sovrasta la scena; è al centro della composizione, alla convergenza
dei punti di fuga prospettici. L'occhio non può eluderlo. Tiene in
mano un volume aperto, nel quale si legge un motto latino ripreso da
Paolo: “Sapientiam sapientium perdam” (1 Cor 1,18-20),
ovvero “Distruggerò la sapienza dei sapienti”.
Forte
della tradizione biblica, armato della parola del santo, l'autorità
di Tommaso non può essere messa in discussione. È scortato da
quattro muse pallide e ammalianti, che sanciscono l'eccellenza del
suo sapere nelle arti del trivio (dialettica, retorica, grammatica) e
nella teologia, giovane donna che lo ammira dal basso, in silenzio.
Col viso impassibile, quasi stoico, sembra guardare altrove; il capo
aureolato si piega e il dito punta, con fatale dolcezza, contro
l'Errore, letteralmente schiacciato ai suoi piedi.
Interessante
iconografia: l'Errore – che è anche e soprattutto malitiam,
ovvero scaltra malvagità e malafede, come è scritto dallo stesso
Lippi sullo striscione che gli mette in mano – è un vecchio folle,
dai capelli bianchi e scomposti, che digrigna i denti e storce gli
occhi come sopraffatto dal dolore. Questa vittoria del sapere non è
liberazione dall'errore, ma annientamento del male, secondo la nota
equazione “errore è peccato”.
È
dunque giusto che nessuno provi pietà per il folle, che rimane come
una presenza fantasmatica ai margini della scena; ed è illuminante
osservare come, nell'iconografia dell'Errore, Lippi sia stato –
forse inconsciamente – ispirato dalla polisemia del verbo “errare”.
Foucault insegna: è il folle il personaggio errante
per eccellenza: vaga senza meta (e senza metodo) per le campagne
medievali; e tanto più s'allontana dalla civiltà, quanto più
s'allontana dalla ragione.
Non
sono ammessi sviamenti, nessuna devianza è ammessa: la strada è
una, il metodo è uno,
quella della ragione teologica. Rassicurante padre della salvezza,
segnavia della strada maestra, Tommaso vince gli eresiarchi,
sconfitti in partenza e divisi. Su un elegante marmo rinascimentale
sono sinistramente ammonticchiati i volumi degli eretici, pronti per
la libagione – così come, quando la finzione sarà matura per
divenire realtà, ovvero tra un secolo esatto, lo sarà anche
Giordano Bruno.
Il
modello di sapienza offerto dall'affresco di Lippi (ciclo
esteticamente magistrale, senza dubbio alcuno) è il modello
ufficiale non solo dei domenicani di Santa Maria sopra Minerva, ma
della Chiesa tutta, e in generale del sapere teologico. È un modello
ordinato, rassicurante, secondo il quale a ciascuno spetta un ruolo
univoco; è sapere infallibilmente trasmesso ex cathedra
sui fedeli, mai in itinere.
Cattedra implica stasi, immobilità, katà,
sopra, edra, sedia,
star seduti.
Pochi
anni dopo, nel 1508, e a pochi chilometri di distanza, Raffaello Sanzio fu chiamato da Giulio II ad affrescare le famose Stanze
vaticane, lavoro che lo terrà impegnato fino alla morte,
sopraggiunta nel 1520. È il secolo 16: la potenza economica
italiana, dopo aver raggiunto l'apogeo, sta cominciando ad
eclissarsi, e il complesso raffaellesco e michelangiolesco possono
forse essere considerati gli ultimi colpi di coda della supremazia
culturale italiana sul mondo.
La
lavorazione della Scuola di Atene impegna
Raffaello e suoi aiutanti un anno, dal 1509 al 1510, e il risultato è
uno delle più famose rappresentazioni di sempre dell'universo greco
antico. L'Umanesimo raggiungeva davvero il suo scopo ultimo
attraverso il pennello dell'urbinate: la grecità diviene calco sul
quale rappresentare, in geniali re-interpretazioni, il sapere
italiano coevo e i suoi rappresentanti.
In questo affresco, rispettando
l'antico, si crea il moderno; i volti dei filosofi greci divengono i
volti dei filosofi nuovi, come a significare che non esiste distanza
storica nella sfera del sapere, ma un'unica grande umanità, con le
sue eredità e con le sue forze. L'affresco è, insomma, la più
riuscita rappresentazione pittorica di un certo modo di intendere il
sapere, perfettamente speculare – anche nella impostazione
strutturale – all'affresco quasi contemporaneo di Lippi.
Laddove in Lippi si cercava di
interpretare il sapere teologico e cattedratico, in Raffaello si
esalta il sapere filosofico e dialogico. Poco importa saper
riconoscere tutti i filosofi – e sono più di quanto si possa
immaginare – della composizione; molto più interessante è
cogliere lo spirito e gli atteggiamenti che la muovono. A destra
qualcuno traccia su una lavagna una dimostrazione geometrica,
attorniato da curiosi; a sinistra c'è chi scrive, chi copia, e chi
legge; sullo sfondo, Socrate è intento a confutare le sicurezze di
qualcuno; Diogene Cinico sta mollemente seduto sui gradini della
scuola, isolato come Eraclito Buonarroti, melanconico düreriano
in attesa dell'ispirazione.
Al centro stanno Platone da Vinci e
Aristotele da Sangallo; ma le loro figure non sono più grandi delle
altre. Stanno al centro per importanza, non per diritto divino; e se
non fosse per gli archi trionfali che costruiscono la prospettiva
dell'intera composizione, quasi si confonderebbero nella turba che li
accompagna. Tutto trasmette movimento, confusione; se potessimo
entrare nell'affresco, saremmo certamente sopraffatti dal rumore
delle dimostrazioni e dalle dispute filosofiche sull'origine del
bello.
Un
sapere che si costruisce nel confronto, anche caotico; nel dia-logos,
appunto, nel parlare attraverso, nella ragione che si costruisce
attraverso (intendiamolo fisicamente) le persone. In questa
confusione è difficile scorgere l'Errore; i suoi bianchi capelli
disordinati potrebbero essere quelli di Diogene; oppure potrebbe
restare isolato così come resta isolato il Plotino di Raffaello.
L'errore non si distingue perché conoscere è errare,
vagare, tentare più strade.
L'errore non è male, non si
appiattisce sul peccato; sono due categorie diverse, una logica e
l'altra morale. L'errore si mostra, si tenta di correggerlo; ma non
si annienta, perché, si sa, l'errore di oggi potrebbe essere la
verità di domani.
Questa
è la “sapienza dei sapienti” che voleva annientare Paolo: il
Verbo di Cristo era venuto per arrecare lo “scandalo tra
i Giudei”; era considerata
“stoltezza per i pagani”,
ovvero per i “Greci che cercano la sapienza”
(1 Cor 1,22-23). Questo non ci deve stupire. Tertulliano scriveva:
“Credo quia absurdum”.
Al credente non importa il dialogo, non importano le dimostrazioni né
le confutazioni filosofiche. Alla fede sta stretta la Scuola
di Atene, e ciò va senza dubbio
rispettato.
Ma non bisogna mai dimenticare che la
sicurezza dogmatica, quando è affiancata dalla spada, quando ha
l'appoggio del potere, diventa pericolosa. Ed è giusto ricordare che
le parole di Paolo sono tratte da Isaia, 29,13-14:
“Dice il Signore: Poiché questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra mentre il suo cuore è lontano da me […] continuerò a operare meraviglie e prodigi con questo popolo; perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l'intelligenza dei suoi intelligenti.”
La vittoriosa esclamazione di Paolo di
Tarso, intesa come vittoria della fede sulla sapienza greca, è in
origine minaccia divina contro il fariseismo in Isaia. Lezione: il
cristiano non disprezza la sapienza né l'intelligenza, e neppure i
loro frutti, in quanto doni elargiti da dio.
Se
si dimentica questo, la fede diventa flagello. Ed è con un brivido
che chiudo questo intervento, ricordando che fu proprio Santa Maria
sopra Minerva la chiesa che, il 22 giugno 1633, ospitò un abiurante Galileo Galilei, inginocchiato davanti ai “generali
Inquisitori” e alla sapienza
degli aristotelici (si fa per dire) domenicani. Tommaso aveva ancora
una volta sconfitto l'Errore.
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