L'esagerazione
è uno strumento della dialettica di Adorno. Quando il francofortese
dichiarava, sicuro di sé e delle sue teorie, che “scrivere
poesie dopo Auschwitz è un atto di barbarie”, le sue parole,
lungi da essere una semplice provocazione intellettuale, vanno prese
sul serio.
Scrivere
poesie, fare cultura dopo Auschwitz, è un “atto di barbarie”
perché la cultura ha fallito. Se è stato possibile, in uno dei
paesi intellettualmente più progrediti al mondo, eliminare
sistematicamente individui come capi di bestiame, allora la cultura
non era che spazzatura, macchiata per sempre dal marchio del nazismo.
Farla significherebbe rendersi complici della stessa civiltà che ha
creato Bach e i campi di sterminio.
Il
paradosso del sopravvissuto, per Adorno, sta proprio qui, nel
conflitto irrisolvibile tra dovere del ricordo e impossibilità
della parola. Siamo nel '63, la piaga è ancora esposta, e Adorno
capisce che il sopravvissuto ha il diritto di parlare così come il
martire di urlare durante la tortura.
Se
da un verso dobbiamo rinunciare alla comprensione concettuale davanti
ai campi, dall'altro nemmeno l'arte è in grado di trattare l'orrore,
quello con la maiuscola, col dovuto tatto. Ridurre Auschwitz a
categorie estetiche è un procedimento immorale poiché ogni prodotto
artistico ha in sé la possibilità di “estorcere godimento”.
Ricordare sì, ma al di fuori di interpretazioni artistiche: vedo un
quadro sulla Shoà, e già, invece di pensare al dolore senza tempo
delle vittime, ne apprezzo la gradazione cromatica, i punti di luce,
mi perdo nella fruizione; ed ecco che l'arte finisce coll'edulcorare
l'orrore invece di illuminarlo. L'arte è forma, e l'orrore non può
assumerla senza snaturarsi.
Divergiamo
da questo punto di vista e lanciamo una provocazione. Non esiste
orrore con la maiuscola. Esiste l'orrore umano, l'orrore creato
dall'uomo. Pensare che Auschwitz rappresenti l'apice delle nostre
potenzialità, l'unicum irripetibile del male umano, significa
sottostimare colpevolmente il talento che abbiamo dimostrato
nell'arrecarlo. L'intellettuale che sostiene l'unicità dei campi di
sterminio nazisti, unicità non tanto storica, quanto morale,
prefigura già il gesto di rifiuto, incredulo e cinico, del civile
che si scherma di fronte alle Auschwitz future.
Non
c'è nulla di incredibilmente “diabolico” in Auschwitz: ed
è questa la sua triste e terribile diabolicità. Lo sterminio degli
ebrei – e non solo – da parte di nazisti e fascisti – e non
solo – ha dimostrato, negli anni Quaranta del secolo scorso, quanta
parte abbia avuto l'organizzazione e la perizia tecnica nell'economia
dello sterminio, e nulla più. La vera unicità di Auschwitz risiede
nella maggiore tecnicizzazione della morte e nel fatto che è
accaduta all'interno dei confini della razionalità europea.
Non
vedo alcuna differenza tra i carri bestiame diretti in Polonia, nel
freddo inverno del 1942, e le navi stipate di schiavi africani sotto
il sole dei tropici, dirette in Brasile e quindi nelle piantagioni
americane; traffico che ancora a metà dell'Ottocento fioriva nelle
“democratiche” terre occidentali. Non vedo alcuna differenza tra
le marce forzate nel gelo dei gulag russi e le spedizioni spagnole in
America, all'alba della nostra “modernità”. Nessuna differenza
tra i milioni di folli rinchiusi a forza nei manicomi di tutta Europa
e il genocidio degli armeni da parte dei turchi, o nello scontro tra
Tutsi e Hutu in Ruanda, su su fino al napalm in Vietman e il fosforo bianco in Palestina.
Non
si sta cercando di fare una classifica degli orrori che sono accaduti
– e che continueranno ad accadere. Si sta cercando di mostrare, al
contrario, che ogni orrore si equivale, e che non dovrebbe esistere
una giornata della memoria, quanto piuttosto una "giornata delle
memorie", tutte assieme. Una giornata delle memorie da segnare sul
calendario di tutti i paesi, un dì nefasto in cui ricordarci che
siamo tutti complici, perché tutti umani.
Se
si dimentica la lezione che ci ha dato la Arendt, ovvero che il male
non si manifesta come uno Jago o come una Lady Macbeth, ma che
preferisce prendere la forma di un imbianchino, di un funzionario
pubblico, del vicino di casa, la forma più banale possibile proprio
per non farsi vedere e passare, sotto mentite spoglie, come del tutto
normale, come legittima e sopportabile; se dimentichiamo tutto
questo, allora dimentichiamo anche la possibilità, sempre presente,
che l'orrore si ripeta.
Ricordare
ostinatamente – e spesso morbosamente – Auschwitz porta con sé il
pericolo di diventare ciechi rispetto a tutte – e quante – le
forme d'orrore (se ci è concesso questo ossimoro, con buona pace di
Adorno) che non si conformano ad essa. Pensare che rappresenti un
“assoluto” è sbagliato, e a livello storico e a livello morale,
in quanto non esiste assoluto nella storia del male umano.
Ammesso
questo, coscienti che il male fa parte delle nostre potenzialità
umane almeno quanto il genio, ecco che è possibile riammettere
l'arte, che Adorno relegava invece nella sfera dell'immoralità, in
quanto inadatta a dar forma all'indicibile.
L'arte
può e deve umanizzare l'orrore. Non è il suo compito, poiché
l'arte non ha compiti: è una delle sue essenze. L'arte, sfuggendo ai
concetti filosofici e alle ridicolaggini religiose – in quanto
l'orrore, per usare le belle parole di Adorno “ridicolizza ogni
pretesa di dare un senso all'immanenza attraverso una trascendenza
posta positivamente” – l'arte riesce a rendere umano ciò che
a prima vista pare inumano; e ci insegna proprio questo: che
l'inumano fa parte dell'umano, che è una delle sue mai sopite
possibilità.
L'arte
ci avvicina all'orrore quanto basta per vedere i segni della mano
dell'uomo e sconfessare ogni pretesa di farne un assoluto; allo
stesso modo ci allontana rendendocelo sopportabile e comprensibile.
Perché è questo, in ultima analisi, il vero nucleo della questione:
l'orrore va compreso, è vero, ma senza cercarne motivi che escano da
noi stessi.
Questa
dovrebbe essere la lezione di una giornata delle memorie: un male
assoluto implica una memoria assoluta; e una memoria assoluta, un
passato ineliminabile e indicibile, non può che renderci ciechi
quando ci volgiamo al futuro. Un futuro inquietante poiché gravido
di qualsiasi possibilità, ma anche di qualsiasi speranza.
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