Il
caso di d'Holbach è interessante per chiunque si occupi di ateismo e
soprattutto di storia dell'ateismo. Non si tratta di studiare il
materialismo ormai obsoleto di un grande intellettuale del
Settecento, tutt'altro: si tratta di individuare archeologicamente
una discendenza più o meno diretta che imparenti il ricco barone
franco-tedesco alle più recenti esperienze italiane della UAAR e
mostrarne, allo stesso tempo, la sostanziale identità d'impostazione
teorica. Si tratta, in ultima analisi, di ripensare daccapo le basi
dell'ateismo filosofico.
Capire
il pensiero di d'Holbach, isolarne gli errori scientifici più
grossolani, esaminare lo sviluppo delle sue posizioni nel corso degli
ultimi tre secoli è di fondamentale importanza per comprendere come
e perché l'ateismo filosofico abbia finora mancato di una matura
elaborazione intellettuale. L'ateismo filosofico ha avuto, bisogna
ammetterlo, cattivi padri fondatori.
D'Holbach,
tra i pochi candidabili, è uno di questi. Nonostante i grandi meriti
personali, storici e divulgativi – le centinaia di voci
enciclopediche compilate dal Barone; il sostegno economico ai suoi
colleghi francesi e non, primo tra tutti, Diderot; l'inesauribile
impegno intellettuale che lo rende un engagé prima del tempo
– e nonostante l'ampia popolarità di cui ha potuto godere anche in
vita, d'Holbach ha forse più nuociuto che giovato alla causa
dell'ateismo filosofico, e per un motivo molto semplice: da un suo
pròton pseudos, secondo noi, discende l'errore teorico di
buona parte dell'ateismo odierno.
D'Holbach
univa ad una preparazione classica formidabile (tra gli altri aveva
curato l'opus magnum lucreziano nonché varie opere di Seneca)
la curiosità scientifica tipicamente onnivora dell'amatore.
Traducendo dal tedesco opere di chimica, metallurgia e mineralogia,
aveva acquisito alcune nozioni scientifiche basilari e se ne era
servito con successo durante la sua collaborazione all'Encyclopédie.
Il
problema è che non riuscì mai a superare questo limite: fu un
cultore delle scienze, senza essere scienziato; fu un sostenitore
della ricerca scientifica, senza davvero afferrare il significato
profondo della parola “ricerca”; in sostanza fu un positivista
ingenuo ante litteram, privo di una distanza critica dalle
scienze naturali.
Questo
fu l'errore di d'Holbach: unire a doppio filo ateismo e scientismo.
Certamente, ci stiamo servendo di una categoria concettuale che non
esisteva ancora al tempo di d'Holbach (lo scienziato era ancora
definito “filosofo naturale”); si può tuttavia tradurre
con buona approssimazione la posizione intellettuale che d'Holbach
chiama “naturalismo” con l'odierno “scientismo”.
In
altre parole, d'Holbach impania il suo pensiero in un paradosso: non
sa se fondare il suo ateismo filosofico sul naturalismo o viceversa,
se modellare il suo naturalismo in riferimento alle sue concezioni
ateistiche. Incapace di sciogliere il nodo, ha finito per indebolire
entrambe le colonne portanti del suo Sistema della natura,
summa del pensiero filosofico
di d'Holbach.
Pubblicato
nel 1770 sotto pseudonimo per sfuggire alla solita caccia alle
streghe, il libro divenne ben presto “la bibbia del materialismo
francese del settecento”, come scrive nell'introduzione il
curatore italiano dell'opera di d'Holbach, Antimo Negri. E la chiave
per entrare nell'opera è proprio capire che tipo di materialismo
propaganda il nostro Barone.
L'opera
ha una struttura didascalica. Si parte con la definizione del
concetto di “natura”, di “materia”, di “corpo”; si passa
ad una trattazione più o meno sommaria dei principali problemi
naturalistici dell'epoca; quindi si conclude con l'attacco più
diretto e minuzioso possibile alla religione fanatica e alla
teologia.
Queste
ultime sono le pagine più famose di d'Holbach, quelle che
sollevarono l'immancabile polverone tra i credenti e tra i teologi
dell'epoca; le prime, invece, vennero presto superate dalla scienza
stessa e finirono dimenticate, quando non apertamente ignorate dai
lettori. Ancora oggi, e a ragione, si tende a preferire il d'Holbach
più militante, quello più zelante nella critica illuminista al
fanatismo e alla pericolosità delle chimere religiose, quello
insomma più accessibile ed “amabile”, per così dire.
È
tuttavia nelle prime pagine che va cercato il tarlo. È nella sua
filosofia materialista ed empirista che l'architettura del sistema
vacilla e rischia di far crollare il “grande tutto”, per
utilizzare un'espressione alla d'Holbach.
Difatti,
proprio come un grand tout il Barone intende la natura: un
assemblage di più materie diverse tra loro, trasportate in un
continuo movimento. Ma quello che a prima vista sembrerebbe un tipico
materialismo meccanicista di sapore cartesiano, per il quale la
natura si scompone in materia e movimento, si rivela ad uno sguardo
più attento essere una riedizione di un ilozoismo ben più antico.
Questa
almeno è la tesi di Antimo Negri, che nell'introduzione all'opera
argomenta a favore di un materialismo d'holbacchiano, se non proprio
di sapore Ottocentesco, quantomeno più avanzato di quello che finora
era stato rilevato dai suoi critici (tra gli altri, Goethe, Hegel ed
Engels).
Il
Barone, infatti, “animalizza” la natura ed è “già
abbastanza avanzato verso una concezione organicista e
immanentisticamente teleologica del reale”. In altre parole,
d'Holbach, influenzato da un retroterra di studi di chimica e
mineralogia, prenderebbe in prestito il lessico di quelle discipline
(e difatti tornano spesso nell'opera parole come “affinità”,
“simpatia”, “attrazione” e “repulsione”,
tutte riferite ad una materia tutt'altro che passiva) e modernizza il
meccanicismo classico francese. Da una materia totalmente passiva,
soggetta ad urti e movimenti estrinseci, d'Holbach passerebbe ad una
materia animalisée, fornendole un principio del movimento
intrinseco, ad essa connaturato.
Se
si ammette tutto questo, sarebbe meglio parlare di un ilozoismo (dal
greco “hylé”, materia e “zoè”, vita) di
d'Holbach piuttosto che di teleologismo – o, tuttalpiù, di un
ilopsichismo. Niente, nel Sistema della natura, ci fa pensare
ad una causa finale, né tanto meno ad una sorta di entelechia o
volontà interna alla materia che la farebbe agire in un modo
piuttosto che in un altro.
Allo
stesso modo, non si possono accettare le conclusioni di Negri, per il
quale d'Holbach rappresenterebbe una sorta di antecedente sotto
mentite spoglie dell'ultimo Kant, quello della Critica del
Giudizio, proprio riguardo al
tema della teleologia. Non solo in d'Holbach siamo lungi dal
naturalismo vitalista tipico della scienza romantica tedesca, ma
anche Kant è ben lungi da ammettere l'esistenza di una causa finale
in seno alla natura: proprio Kant, il primo ad ipotizzare la nascita
del tutto “meccanica” della nostra galassia! Il giudizio
teleologico rimante per Kant sempre e solo un principio euristico:
tanto indimostrabile empiricamente quanto utile alla spiegazione
scientifica.
Tutto,
per d'Holbach, avviene necessariamente, l'universo è una
“infinita catena di cause ed effetti”; il libero arbitrio
dell'uomo è una nostra invenzione; niente nella natura avviene per
uno scopo così come niente avviene a nostro vantaggio. Questo Negri
sembra dimenticarlo. Anche il principio del movimento interno alla
materia è soggetto alle ferree leggi della natura. Ed è proprio
qui, nel determinismo del Barone, che echeggia le lezione di uno dei
suoi maestri, Spinoza – del quale, in certi passaggi dell'opera,
sembra di leggere una ripetizione pedissequa.
Ma
basta l'ipotesi di un'influenza della chimica settecentesca
pre-lavoiseriana sul nostro Barone per spiegare la sua introduzione
(sarebbe meglio dire, reintroduzione) del “movimento intrinseco”?
Noi crediamo piuttosto che sia stata una necessità di ordine
ateistico a costringere il Barone verso l'ipotesi di una “materia
animata”, contenente in se stessa il principio del suo movimento.
La
necessità è chiara: evitare l'ipotesi teologica, già aristotelica,
del “motore immobile”. I meccanicisti più rigidi, che
consideravano la materia come pura estensione, dovevano ancora
spiegare le cause del movimento, l'origine degli urti e dell'evidente
turbolenza della materia così come la possiamo percepire. Da qui ad
ipotizzare un motore immobile come principio divino del movimento, il
passo era brevissimo.
Per
questo D'Holbach, al fine di evitare ogni teologismo, ripiega su un
principio di movimento non meglio definito. È interessante notare
come, per rafforzare la sua ipotesi, il Barone riporti in nota un
esperimento allora piuttosto famoso di un biologo inglese, nonché
prete cattolico (!), tale John Needham, il quale sosteneva l'ipotesi
della “generazione spontanea” della vita – poi confutata dal
nostro Spallanzani nel 1765.
Ecco
come, al fine di costruire un sistema filosofico coerente, d'Holbach
finisce per intrecciare ateismo e naturalismo, finendo per deformare
il secondo, che viene modellato sulla base di esigenze ateistiche e
per indebolire il primo, dal momento che la scienza, per sua natura,
si evolve e fa mancare il suo appoggio.
Anche
le brillanti pagine della seconda parte dell'opera, di cui abbiamo
già parlato più sopra, perdono la loro base teorica una volta
private del sostegno della scienza. Ogni denuncia del fanatismo
religioso, ogni accusa contro le sottigliezze teologiche, ogni
critica dell'infelicità e della pericolosità del credente è
accompagnata sempre da un rispettivo elogio alla chiarezza della
natura, alle sue leggi ferree e necessarie, che assicurano all'ateo
naturalista il possesso della ragione e dell'equilibrio morale.
Contro
ogni dubbio, il lettore è rimandato allo studio della natura. Per
contrastare ogni puerile entusiasmo religioso, per scacciare ogni
chimera teologica, la risposta è sempre quella: torna alla natura!
Ad ogni dilemma morale, ci viene consigliato l'ascolto delle leggi
naturali, che non possono sbagliare. Per lenire le nostre sofferenze,
d'Holbach ci consiglia di rassegnarci e farci consolare dalle braccia
di madre (ancora deve diventar matrigna) Natura.
Venuto
a mancare l'appoggio della concezione naturalistica classica,
dell'uniformità e del determinismo naturale; confutata la
generazione spontanea e con essa la possibilità di un movimento
intrinseco della materia, la critica di d'Holbach, pur non perdendo
il suo mordente – alcuni passaggi sono ancora di una modernità
disarmante – ha perso sostanzialmente di senso. Così oggi, ogni
volta che si cerca di fondare l'ateismo filosofico sulla ricerca
scientifica, sul positivismo ingenuo o, ancor peggio, sullo
scientismo, si rischia di minare la propria posizione, e di nuocere
alla causa atea.
Da
questo errore derivano non poche conseguenze teoriche. Prima tra
tutte, il rischio di un dogmatismo scientista che ancora oggi infetta
l'elaborazione di un ateismo filosofico maturo (conseguenza questa,
che esamineremo in un successivo intervento).
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