"Cercando di costruire un sistema filosofico coerente, d'Holbach finisce per intrecciare ateismo e naturalismo, finendo per deformare il secondo, che viene modellato sulla base di esigenze ateistiche e per indebolire il primo, dal momento che la scienza, per sua natura, si evolve e fa mancare il suo appoggio."
Così
si concludeva l'intervento precedente, dedicato a mostrare come
legando a doppio filo ateismo e naturalismo, si finisca per
indebolire il secondo e deformare il primo. Questo, in buona
sostanza, l'errore originario del Barone, destinato ad influenzare
negativamente la formulazione di un ateismo filosofico maturo.
Occorre
ora sviluppare la tesi e indicare quali altri problemi emergano da
questo errore; primo tra tutti, il pericolo di un dogmatismo ateo.
Questa
deriva dogmatica si può agilmente rintracciare nelle pagine del
Sistema della natura,
specialmente nella seconda parte dell'opera, quella più militante e
aggressiva nei confronti della religione. D'Holbach, con illuminata
furia, si scaglia contro il fanatismo e contro le chimere religiose
che dappertutto infestano i popoli e infiammano gli animi; denuncia
gli orrori commessi in nome di un dio vacuo, ora padre clemente, ora
inesorabile vendicatore:
Non è stato, il nome di Dio, il segno delle più tristi follie e degli attentati più orribili? (…) Non fu la divinità in tutti i tempi la causa o il pretesto della violazione più insolente dei diritti dell'umanità? (p. 641)
Con
acribia razionalista e col tipico lessico ridondante dell'Illuminismo
francese, il Barone definisce la religione “un sistema di
condotta inventato dall'immaginazione e dell'ignoranza per rendere
favorevoli le potenze sconosciute cui si suppose sottomessa la
natura” (p. 377);
analogamente, la teologia non è altro che “un ammasso
inintelligibile di false ipotesi, di sofismi, di circoli viziosi, di
distinzioni futili, di sottigliezze capziose, di argomentazioni di
malafede, da cui non possono risultare che puerilità o dispute senza
fine.” (p. 659)
Si
tratta in fondo della stessa celebre analogia con cui, quattordici
anni più tardi, Kant risponderà alla domanda fondamentale “checos'è l'illuminismo?”, ovvero
l'uscita dallo stato di minorità che dobbiamo imputare a noi stessi.
Da una parte gli uomini maturi, dediti allo studio del naturalismo,
dall'altra il popolo addormentato, come nella celebre acquaforte di
Goya, il popolo fanciullo che non sa ancora distinguere il sogno
dalla razionalità.
Proseguendo
nella sua analogia, l'ateo è definito come “un uomo che
distrugge chimere dannose al genere umano per riportare gli uomini
alla natura, all'esperienza, alla ragione”
(p. 605). E lo fa eroicamente, esponendosi a rischi serissimi,
attaccato da più parti, perché “al solo nome di ateo”
(leggasi “illuminista”):
il superstizioso rabbrividisce, lo stesso deista si mette in apprensione, il prete entra in furore, la tirannide prepara i suoi carnefici, il volgo plaude ai castighi che leggi insensate decretano contro il vero amico del genere umano. (p. 605)
Uno
spettro si aggira per l'Europa, insomma; lo spettro del razionalismo
ateo e materialista francese. Natura, esperienza, ragione: la
tradizione dell'empirismo inglese si incontra qui con un
cartesianesimo filtrato dalle nuove sperimentazioni enciclopediste.
Sensi e ragione collaborano per arrivare alla comprensione della
verità, nella fiducia incrollabile che l'unico male degli uomini sia
l'ignoranza, che l'errore sia sempre deprecabile e condannabile e
che, con l'aiuto del tempo e degli intellettuali, l'incubo del
fanatismo possa essere un giorno definitivamente estirpato.
Al
di fuori delle (oggi facilmente criticabili) ingenuità ideologiche e
pesantezze stilistiche, bisogna ammettere l'effettivo merito critico
e ancor più divulgativo di d'Holbach: raramente si era tentata prima
una tale aperta critica nei confronti del potere religioso. Il Barone
raggiunge l'apice stilistico e teorico proprio quando, per rispondere
alle critiche dei teologi, si fa prendere la mano e dà sfogo ad un
realismo cinico che ancora oggi può sorprendere il lettore.
Tale
è ad esempio il passaggio, magistrale da tutti i punti di vista,
dedicato a confutare la teoria di Locke (espressa nella famosa
Lettera sulla tolleranza
del 1689) secondo il quale un giuramento civile prestato da un ateo
non sarebbe da considerare valido, in quanto privo di qualsivoglia
principio morale:
(...) lo spergiuro non è affatto raro anche nelle nazioni più religiose (…) I giuramenti sono dappertutto solo vane formalità, non incutono affatto rispetto agli scellerati e non aggiungono niente agli impegni delle anime oneste (…) (p. 644-645)
Riassumendo:
“(...) fu sulle rovine della natura che gli uomini
elevarono il colosso immaginario della divinità.”
(p. 384) L'ignoranza delle cause genera paura e quindi, per passaggi
logici necessari, credulità e fanatismo; il sapere naturalistico,
spinge l'uomo privo di pregiudizi verso l'ateismo.
Il
Sistema della natura è
un tentativo fatto proprio in questa prospettiva: presentare agli
uomini un sistema basato sulle leggi naturali, alternativo alle
costruzioni immaginarie della religione e delle false filosofie;
sistematizzare una dottrina che sia capace di rispondere a qualsiasi
domanda, dall'etica alla politica, semplicemente interrogando la
natura.
Non
esistono altre possibilità, per il nostro Barone, all'infuori di
queste due. È qui che prende forma un singolare dogmatismo ateo. Le
leggi della natura non si possono infatti ricusare. Il
pensatore illuminato è costretto a riconoscere la loro cogenza.
Nell'universo deterministico di d'Holbach, o si è con la natura o si
è contro di essa. Non c'è possibilità di errore, è vero: l'etica
naturalistica è incrollabile proprio per questo motivo. Ma così si
è negata di principio ogni possibilità di deviazione, si è
estirpato ogni dubbio. Al cospetto della natura non è concessa
alcuna critica.
Se con ateo si indica un uomo che nega l'esistenza di una forza inerente alla materia e senza la quale non si può concepire la natura e se è a questa forza motrice che si dà il nome di Dio, non esistono atei e la parola con la quale li si indica designerebbe solo dei folli. (p. 612)
La
forza di cui parla è quella forza “animalizzante” su cui ci
siamo soffermati nell'intervento precedente; forza insita alla
materia che d'Holbach formula per eliminare ogni tentativo di
introdurre in scienza l'ipotesi del “motore immobile”. Forza che,
intesa come la intendeva il Barone, verrà confutata dalla chimica
moderna – che, stando al suo sistema, bisognerebbe liquidare come
“scienza folle”.
Il
dogmatismo religioso è in d'Holbach tanto alacremente criticato
quanto velocemente sostituito da un altro dogmatismo, di ben altra
matrice: il dogmatismo naturalista o, per usare una dizione più
moderna, da un dogmatismo positivista. O si accetta la verità
incrollabile della ricerca scientifica, oppure si è fuori dal gioco,
senza possibilità alcuna di dissenso.
Il
capitolo più istruttivo a questo riguardo, è l'ultimo, quasi
certamente firmato anche da Diderot, stando alla insolita
brillantezza stilistica. Si intitola Abregé du code de la
nature, ovvero si tratta del
codice filosofico ed etico che si può dedurre dalle stessi leggi
naturali. Accanto a passaggi eleganti, a tratti addirittura
commuoventi, prende forma la nuova religione della natura.
È
lei stessa che parla, la grande protagonista dell'opera. Siamo al
cospetto della Verità, e come Parmenide non possiamo far altro che
accettare la logica stringente della Dea: “Ascoltate
dunque la natura: non si contraddice mai!”
(p. 665)
Essa
ci dice come comportarci; come una madre clemente ci esorta al nostro
interesse privato: “Lavorate alla vostra felicità,
godete senza paura, siate felici!”;
per poi, subito dopo ricordarci che “le leggi dell'uomo
sono giuste unicamente in quanto sono conformi alle mie”.
Pensiamo
per un attimo alle conseguenze di questo pensiero dal punto di vista
evoluzionista, pensiamo ai pericoli di un darwinismo applicato alla
morale. Altri passaggi, di indubbia efficacia retorica, sembrano invece quasi evangelici:
Sii giusto, perché l'equità è il sostegno del genere umano. Sii buono, perché la bontà incatena tutti i cuori. Sii indulgente, perché, debole tu stesso, vivi con esseri deboli come te. Sii dolce, perché la dolcezza attira l'affezione. Sii riconoscente, perché la riconoscenza alimenta e nutre la bontà. Sii modesto, perché l'orgoglio ripugna ad essere innamorati di se stessi. Perdona le offese, perché la vendetta rende eterni gli odi. Fa del bene a colui che ti oltraggia, per mostrarti più grande di lui e fartene un amico. Sii moderato, temperato e casto, perché la voluttà, l'intemperanza e gli eccessi distruggeranno il tuo essere e ti renderanno spregevole. (p. 665)
Insomma,
questi è la “somma della verità che contiene il codice della
natura”, questi sono i “dogmi” che “l'apostolo
della natura” può annunciare come il “suo discepolo”
(p. 669-670).
Il
rovesciamento è completo. Dall'eretico motto “Deus, sive natura” di Spinoza, partito da
posizioni religiose, siamo giunti al ben più religioso “Natura,
sive deus” di d'Holbach,
partito da posizioni atee. Si doveva fondare una dottrina atea, ma si
è finito per riproporre una nuova religione.
Le
ragioni di questa amara, benché affascinante, conclusione non sono
difficili da comprendere. L'ateismo di d'Holbach ha senso solo
all'interno di un sistema scientifico assolutamente incrollabile.
Senza l'appoggio della natura, l'“ateo naturalistico” non
saprebbe più come comportarsi: non ci sarebbe per lui davvero più
nessuna morale, nessun principio etico, nessuna certezza. Tutto sarebbe permesso. E questo nichilismo l'illuminista non lo può
permettere, come il teologo non può lasciar campo alla logica
dell'eretico.
Ogni
volta che, per fondare un ateismo filosofico si ripete l'errore di
d'Holbach, questo è il rischio a cui ci si espone: diventare più
realisti del re. Si rischia, a furia di controbattere agli
insopportabili dogmatismi religiosi, ai fanatismi più retrivi e
retrogradi, di proporre altri dogmatismi, in apparenza più libertari
e tolleranti, ma in sostanza tanto nocivi quanto i primi.
È
ora di capire che la scienza, per sua stessa essenza, non dà
risposte certe o necessariamente vere. È ora di capire che non
abbiamo bisogno di risposte certe, perché la certezza dogmatica è
inutile e nociva. È ora di capire che se ad ognuno è possibile la
critica, senza creare scandalo o rifiuto unilaterale, a nessuno è
lecito imporre a nessuno la propria posizione. Non si tratta di
relativismo: si tratta piuttosto di pluralismo.
Di
tutto questo, un ateismo filosofico maturo dovrebbe far tesoro, senza
perdere in mordente, capacità critica e militanza.
Nessun commento:
Posta un commento