A Marco Martinelli e a Ermanna Montanari:
è poco, farò quel che posso
Come
si comporta la verità? Svela o ri-vela? Come ci comportiamo di
fronte alla verità? Ci scandalizziamo perché finalmente vediamo
chiaro, o piuttosto, contemplandola, rischiamo di rimanere
abbacinati?
Di
solito non si giudica un'opera d'arte secondo le categorie della
verità. Arte e verità non abitano lo stesso luogo, e non devono
abitarlo: ci insegnano gli antichi che l'arte è rappresentazione,
nulla più. Eppure, quando ci troviamo di fronte alle migliori
rappresentazioni, spesso capita di venire investiti da una forza che,
in un qualche modo, ci cambia, che muta la nostra visione delle cose.
A tale categoria di rappresentazioni appartengono i lavori del Teatro delle Albe.
Si
è appena conclusa, all'Elfo Puccini di Milano, la trilogia che
celebra i trent'anni di attività del gruppo ravennate (1983-2013).
La compagnia ha portato in scena alcuni dei suoi lavori più maturi:
inaugurati dal loro nuovo lavoro, PANTANI, i festeggiamenti
sono proseguiti con Rumore di acque, per chiudersi con il
monologo in dialetto romagnolo, Overture Alcina.
Pur
nella loro evidente eterogeneità stilistica, e sebbene i temi
affrontati siano estremamente distanti tra loro, credo si possa
individuare il “luogo comune” dei tre spettacoli proprio nella
forza metamorfica che investe gli spettatori, risvegliandoli e allo
stesso tempo seducendoli. Cercheremo di chiarire questo punto
analizzando i tre momenti in questione.
PANTANI
(2012)
Come
definire PANTANI? Si tratta di “teatro civile”, impegnato
a denunciare l'ennesimo dei tanti, infiniti misteri italiani? Anche,
ma non soltanto.
La
scrittura del dramma è costata uno sforzo di ricostruzione durato
più di due anni e ripercorre con acribia la storia dell'ultimo
grande fenomeno mediatico del ciclismo internazionale.
In
un primo tempo il testo svela gli interessi politici ed
economici che causarono la distruzione di un'esistenza scomoda. Marco Pantani prende le difese dei suoi colleghi sportivi, si schiera,
rischia di far saltare l'ingranaggio della corruzione sportiva. Si
espone troppo e paga caro le conseguenze. È in questi passaggi di
inchiesta e ricostruzione che la prosa di Martinelli ricorda i lavori
più impegnati e traumatici di Marco Paolini.
Ma
è evidente che non si tratta solo di questo. Il testo di Martinelli
parte da Marco Pantani, ma non si può comprendere appieno se
non lo si interpreta anche e soprattutto come riflessione sul nostro
paese. Pantani diventa un medium che si racconta – pur non
comparendo mai sulla scena – e ci racconta.
Dietro
Pantani, infatti, sta la “madre sempre incinta dei furbi e dei
furbetti”; dietro Pantani sta una nazione istupidita dalla
comunicazione mediatica, il cui squallore è ricordato dalla sigla di
uno dei programmi simbolo della televisione commerciale italiana,
Colpo grosso: “da
oggi i sogni non si sognano più | li trovi già pronti, te li dà la
tivù”; sta una nazione ipocrita e compiacente con i più
forti, sempre pronta a dimenticare ogni complotto, ricoprendolo “con
una bella colata di silenzio”. Una nazione, la nostra, ancora
barbara a tal punto da riuscire a pulirsi la coscienza con il
sacrificio del solito capro espiatorio.
Questa
nazione è gli spettatori che assistono al dissolversi della
vita di Pantani in coca e prostituzione. Questa nazione è
quella che si commuove ascoltando le urla della madre Tonina (Ermanna
Montanari) o i ricordi commossi del padre (Luigi Dadina). Questa
nazione, purtroppo, sono io che scrivo queste righe.
Ma
ecco che il dramma lacera i suoi confini. Non si limita alla denuncia
politica (non è un caso che i lavori delle Albe siano stati definiti
ironicamente “polittttici”, in quanto superamento del
teatro politico) e comincia la ri-velazione.
Attraverso
squarci poetici corali accompagnati da cantate in dialetto, Pantani
si trasforma sotto i nostri occhi, cresce smisuratamente. Si lascia
alle spalle ogni lordura per diventare un poeta maledetto della
bicicletta, spirito selvaggio e poetico.
La
sua fragilità rabbiosa, che si esprime attraverso le frasi
sgrammaticate annotate sul suo passaporto (la cui lettura in scena da
parte di Ermanna è senza dubbio l'apice della pièce), è la
fragilità di chi, in un certo senso, è diventato prigioniero di sé
stesso. L'umiliazione subita, che lo sospinge ogni ora verso la fine
inevitabile, proprio come accade agli eroi delle tragedie antiche,
porterà alla fatale morte che fin dall'inizio abita la scena.
“Andate
via! Me l'avete ucciso voi, con le vostre chiacchiere!”, tuona
il terribile incipit materno: le chiacchiere sono quelle della gogna
mediatica, delle condanne senza appello di un pubblico drogato dalla
televisione e dai titoloni della stampa. Le chiacchiere divengono
come Erinni antiche per la madre, che non riesce più a scacciarle,
che s'addensano “come una nùvla scura in tla testa”.
É
questa condanna che illumina le parole e la vita di Marco Pantani di
una luce profetica, come se non fosse nemmeno più lui a scriverle,
ma qualcos'altro. Entusiasmo, si potrebbe dire alla greca. È
insomma un Pantani che, nell'ultimo momento, mi ha ricordato un altro
romagnolo maledetto, Dino Campana.
I
tratti in comune tra le due figure si sprecherebbero: entrambi
condannati ad una solitudine rabbiosa, accomunati dalle origini
provinciali e dall'amore per la montagna; entrambi invidiati dalla
buona società; compagni di una morte tragica. Ma quello che più
conta è la forza di rivelazione che entrambi emanano, causa o
effetto di una vita in erosione: vuoi per pazzia, o vuoi per
solitudine e overdose. Le poesie di Dino Campana sono sorelle delle
scalate di Pantani.
Rumore
di acque (2010)
Svelamento
e denuncia da una parte; dall'altra rivelazione e seduzione. Lo
stesso movimento si può rintracciare anche in Rumore di acque.
Cambiano radicalmente toni, scena e tematiche: abbandoniamo le
salite, le montagne consumate a forza di agonizzanti pedalate, per
approdare su un'isola mediterranea.
È
un luogo immaginario, un'isola vulcanica infernale, annebbiata da
fumi solforici e rocce piriche: un luogo che potrebbe essere uscito
da un mito greco. Tutt'attorno un mare profondissimo e oscuro, pieno
di bocche voraci.
Chi
ci parla è una figura non identificata, un generale che svolge una
funzione tanto orribile quanto essenziale: tenere il conto dei civili
africani annegati nel tentativo di raggiungere una ricca Itaca.
Ai
fini della sua attività, le migliaia di civili scomparse per sempre
nelle acque divengono numeri. Il suo non è un esercizio di pietas,
non è un ricordo della dignità degli scomparsi. La sua è spiccia
contabilità da burocrate, che non riesce neppure a svolgere il
compito assegnatogli da un fantomatico Ministro dell'Inferno.
I numeri si confondono davanti ai suoi occhi, non vogliono formare un
ordine, non riescono ad appiccicarsi addosso alle migliaia di vite
che contrassegnano; e lui sbraita, beve, maledice il suo lavoro e
l'isola che lo ospita, insulta i suoi mandanti, che gli lasciano fare
“il lavoro sporco”.
È
come un Eichmann mediterraneo: meno teutonico e preciso, bestiale,
meno costante nel suo lavoro; ma non per questo meno disumano. Egli è
capace, in uno scoppio di follia, di ordinare agli squali di “essere
più umani”: ovvero di non cancellare per sempre il ricordo
delle vittime non ancora schedate. “Siete i porci del mare,
maledetti! Non guardate in faccia nessuno”, esplode poco prima
del finale.
La
maggior parte dei numeri infatti risulterà “non identificata”:
migliaia di vite per sempre sommerse in un grande cimitero marino,
vorace di carne e di identità. Ma alcune di esse resistono,
continuano a significare qualcosa e il generale ne ripercorre le
storie assurde. È in questo momento che lo spettatore viene
schiacciato dal racconto appassionato eppure distante del generale.
Com'è possibile che queste storie, vicine pochi chilometri, queste
tragedie quotidiane che si consumano sotto i nostri occhi, rimangano
lontanissime, quasi come appartenessero ad un'altra epoca storica?
Così
suona la condanna implicita del testo. L'attenzione incostante del
generale, il suo sguardo che si perde tra i numeri semi cancellati
dalla salsedine sono, ancora una volta, la nostra stessa attenzione,
sono i nostri stessi sguardi ondivaghi.
Ed
è in questi momenti che il pubblico assiste alla rivelazione,
accompagnato dalla musica dei fratelli Mancuso: è come sentire il
mediterraneo urlare e piangere con la voce dei due musicisti
siciliani, al suono dei loro strumenti tradizionali, delle nenie in
dialetto, che tanto mi hanno ricordato le atmosfere di Creuza de mä.
Ed
ecco che il barcone disperato, carico di “merce preziosa”,
ovvero di giovanissime prostitute nigeriane destinate ad ingrossare
le file del mercato europeo, nella finzione teatrale riesce a
diventare una barca di splendide ninfe. Si inabissa per sempre, quel
barcone di legno marcio: ma le consegna ad un riposo più degno del
letto cui erano destinate da vive. “Quelle sono perle, che un
tempo erano occhi, e le loro ossa divengono corallo”, suona la
magnifica citazione da Shakespeare.
Overture
Alcina (2009)
In
Overture Alcina il
processo di svelamento e rivelazione interessa invece il linguaggio.
Siamo qui all'episodio più sperimentale ed estremo della trilogia,
che inchioda lo spettatore con la sua forza tellurica.
Ermanna
Montanari si scatena in un monologo “smisurato” nell'accezione
letterale del termine: non soggetto a misure tradizionali. La
protagonista è Alcina, lontana parente romagnola dell'omonima maga
dell'Orlando Furioso, che come una Circe ammalia gli sventurati
amanti per poi, una volta stanca, trasformarli per sempre in animali.
Nell'opera
di Ariosto, Alcina riesce ad ammaliare Ruggiero che però, avvertito
del pericolo da Bradamante, riesce a risvegliarsi e a fuggire
dall'isola della strega. Alcina cerca con tutti i suoi poteri di
trascinarlo indietro a sé, ma non vi riesce proprio perché
l'ammaliata questa volta è lei: l'amore per Ruggiero l'ha privata di
ogni potere.
Così
la nostra Alcina, innamorata di un giovane “furistìr”
capitato per caso nel suo sperduto villaggio romagnolo, e fuggito
veloce come è arrivato, si ritrova inebetita e “insmida”,
instupidita, sola a girovagare nella nebbia, forse fuori di senno.
In
mano, al posto del bastone da strega, una calla immacolata; Alcina
lancia i suoi strali disperati contro gli uomini, che alla fine
fuggono sempre, contro il padre che l'ha abbandonata. Una figura
ieratica, che parla una lingua più vicina ai suoni naturali che non
a quelli umani.
Il
romagnolo di Ermanna si allontana dal testo di Nevio Spadoni, lo
piega alle sue esigenze fino a renderlo una lingua dura e
incomprensibile, che sembra fatta degli stessi suoni della terra. In
questo processo di “naturalizzazione del dialetto” Ermanna è
aiutata (o forse, meglio dire sfidata) dalle musiche di Luigi
Ceccarelli, campionature di suoni naturali che si scatenano con forza
ctonia sul pubblico.
Difficile
descrivere a parole ciò che succede sulla scena. Inutile anche solo
provarci, poiché sarebbe come sconfessare apertamente l'obiettivo di
Ermanna: riuscire a comunicare senza l'uso del linguaggio. Diciamo
meglio: riuscire a dimostrare come lo “strumento voce” non abbia
bisogno di parole per funzionare, ma di un solo corpo che vibra,
comunica e si muove attraverso
la voce.
L'Alcina
ariostea è disperata, perché, pur desiderando la morte, essendo una
fata, ella non può morire. Questi i versi dell'Orlando
furioso (canto 10, stanza 56), recitati anche sulla scena:
Morir non puote alcuna fata mai, | fin che 'l sol gira o il ciel non muta stilo. | Se ciò non fosse era il dolore assai | per muover Cloto ad inasparle il filo; | o, qual Didon, finìa col ferro i guai; | o la regina splendida del Nilo | avria imitata con mortifer sonno: | ma le fate morir giamai non ponno.
Quello
che ci vuole consegnare la compagnia del Teatro delle Albe con la sua
ultima rivelazione, è forse proprio questo: che la fata che non può
morire è proprio la voce umana. Anche se privata delle sue parole,
abbandonata dal linguaggio, la voce continua, per miracolo o per
condanna, a comunicare.
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