La
grande bellezza si annuncia già come film simbolo di questi
anni. Sorrentino è uno dei pochi registi italiani ancora in grado di
scattare istantanee; uno dei pochissimi ad avere il dono della
sintesi.
“Riunire
è una più grande arte, un maggior merito”, scriveva Goethe
nelle Affinità elettive, rispetto all'arte dell'analisi che
separa e scompone, e continuava: “Un unificatore sarebbe il
benvenuto in qualsiasi campo del mondo”. E a maggior ragione
nel cinema.
Il
tema centrale, come per altri suoi lavori – mi vengono in mente Le conseguenze dell'amore (2004) o
il più recente This must be the place (2011)
ma anche Il divo (2008)
per certi aspetti – è quello della solitudine. Non abbiamo più a
che fare con un eroinomane confinato in Svizzera (il paese
dell'esilio e della solitudine per antonomasia) al soldo della mafia;
né con cantanti invecchiati restando bambini, ormai fuori dal mondo.
E nemmeno c'entrano presidenti del consiglio chiusi nella loro omertà
democristiana.
Il
protagonista è un intellettuale tanto raffinato e acuto quanto snob
e narcisista, tale Gambardella, ingoiato dal vortice edonista della
mondanità romana; uno scrittore bloccato che né può né vuole
sfuggire alla sua decadenza. Mi ha ricordato tanto un Capote
napoletano, certamente meno effeminato, ma ugualmente frivolo e
talentuoso.
Gambardella-Servillo,
fin dalla primissima scena, appare isolato: al centro di un ballo di
gruppo grottescamente rallentato, fermo mentre s'accende l'ennesima
sigaretta, confessa al pubblico di aver capito fin da giovane, “di
essere condannato alla sensibilità”, e quindi fatalmente
diverso dagli altri: solo.
Strano
paradosso il suo: ricercare la mondanità, il mondo che conta, ma
continuare ad essere solo. E sembra addirittura che cerchi la
compagnia della buona società, non tanto per mascherare il suo male,
ma proprio per godersi meglio la coscienza della solitudine. Non a
caso i momenti più felici sembrano proprio essere quelli in cui,
tornato a casa tra i postumi delle feste, si stende sul divano ad
osservare il suo soffitto trasformarsi in un oceano.
È
attraverso l'errare senza meta di questo flâneur
isolato, incallito, alla ricerca del dettaglio sublime e come
magnetizzato dalla grande bellezza della capitale, che il film si
sviluppa in una sequela di episodi improbabili, accomunati solo dalla
cifra della solitudine. I lavori di Sorrentino hanno questo di
centrale: lasciar parlare l'immagine. La sceneggiatura,
calibratissima e intelligente, quasi letteraria, e l'intreccio, che
emerge solo a tratti: tutto questo viene dopo l'immagine, dopo il
dettaglio, dopo il colore.
La
prima qualità di questa Italia del 2013 è dunque la solitudine; non
tanto del paese in se stesso e non solo dei suoi cittadini; quanto
piuttosto la solitudine della bellezza. Le magnifiche riprese dal
Tevere – intuizione che solo un estraneo alla città avrebbe potuto
avere, in quanto il biondo fiume è ormai dimenticato dai romani –
inquadrano sempre una città abitata di costruzioni, di architetture,
di marmi, mai di uomini.
Una
Roma lasciata riposare dalle torme di turisti, che finalmente
riprende il respiro nelle luci dorate dell'alba; una Roma che si
rivela solo quando nessuno la guarda. Perciò la bellezza è
solitaria: compare al cessare dell'attenzione generale. Sembra quasi
che Sorrentino ci voglia rieducare alla fruizione della bellezza,
notando come essa possa esistere solo nella solitudine di uno
sguardo, nel raccoglimento estatico del singolo, prima che la folla
la faccia dileguare.
In
una delle sequenze più suggestive, centrale per capire il nucleo del
film, Gambardella, esasperato dall'ennesima festa, decide di sfuggire
alla mediocrità del presente rifugiandosi nel passato solitario
della bellezza. Con l'aiuto di un fantomatico “consigliere delle
dame”, che conserva le chiavi di tutte le ville più belle di Roma,
Gambardella s'intrufola tra le meraviglie marmoree e metafisiche.
Come
prima beveva cocktails e si faceva di coca, adesso si droga della
bellezza dei tanti Raffaelli, dei Reni, delle meravigliose statue
ellenistiche. Per sfuggire a un presente asfissiante si trova rifugio
in un passato che lascia respirare.
Questo
è il secondo tema: la presenza del passato. Tema che è stato, come
il primo, già affrontato da Sorrentino, ma mai meglio definito come
in questo film.
Basti
pensare a This must be the place:
la rock star decaduta interpretata da Sean Penn era l'icona di questo
concetto: un individuo incapace di crescere e di lasciare il passato
al suo corso. In una delle scene chiave, che abbiamo richiamato
altrove, il protagonista, al cospetto di un gerarca nazista, decide
di non ucciderlo, ché sarebbe come liberarlo da se stesso, ma
piuttosto di condannarlo a memoria eterna con il flash di una
macchina fotografica.
Similmente,
ne La grande bellezza,
assistiamo ad una città (e per sineddoche ad un'Italia) che non
riesce a evolvere; una società stordita da un benessere che fa male,
ipnotizzata da fantasmi di edonismo, sì, ma privato di qualsivoglia
piacere.
C'è
una battuta rivelatrice che esprime perfettamente questo concetto.
Gambardella sta bevendo, è già piuttosto ubriaco; sulla terrazza
vista Colosseo – il sogno di chiunque se lo possa permettere, come
abbiamo imparato dalla vicenda di una casa in Via del Fagutale –,
tra urli e schiamazzi, passa un trenino danzante. “Vuoi
sapere perché i nostri sono i trenini più belli?”,
chiede Gambardella a qualcuno, “Perché non vanno da
nessuna parte.”
È
con il movimento inebetito (e forse inquietante) dei trenini delle
feste che Sorrentino ha voluto descrivere lo stato di questa
Italia. E, a nostro parere, non avrebbe potuto sceglierne uno
migliore. Se Fellini con La dolce vita
aveva descritto un'Italia da basso impero, che stava “cadendo” in
un benessere imposto, trascinando impetuosamente con sé le proprie
radici e il proprio passato (un'Italia che la fontana di Trevi la
usava per farci il bagno), Sorrentino con La Grande
bellezza descrive un Italia in
“caduta ferma”, incapace di infrangersi al suolo, bloccata e
asfissiante.
Letta
in questo senso, la continuità quasi forzata tra i due film, che
Sorrentino ha scelto deliberatamente di alimentare fin dal titolo, ha
una valenza meta-cinematografica: il fatto che, dopo ormai mezzo
secolo, siamo costretti a ritornare in Via Veneto per capirci,
costretti a tuffarci nei festini orgiastici e privi d'allegria, è in
sé un indizio per comprendere come siamo stati “truffati” dal
nostro passato.
In
altre parole: il punto, nel 2013, non è tanto essere caduti nel
Basso Impero, o prenderne coscienza; è la volontà di continuare a
caderci, ancora e ancora. Un paese-trenino che non va da nessuna
parte, che non “cade” da nessuna parte – senza progetto.
È
in questo quadro che acquista significato anche la storia della
Santa, da alcuni letta come unico vero “sprazzo di
bellezza” del film; una figura
che farebbe intravedere un raggio di luce in mezzo al niente. Io
leggerei la storia in maniera diversa. La Santa è il simbolo di
questo passato che non vuole andarsene, che spaventa e inorridisce;
maschera rugosa e sdentata che sostiene, guarda caso, di mangiare
solo radici, “perché le radici sono importanti”.
È
un'altra, a mio avviso, l'immagine “bella” che ci consegna questo
film. Ad una festa di matrimonio, tra cardinali che raccontano
ricette e invitati che s'avventano contro il buffet incutendo un vero
e proprio timor panico nei poveri camerieri, Gambardella balla con
una sua amica. La camera li osserva in disparte, come se li stesse
spiando. È allora che Gambardella le fa una domanda e si dà una
risposta, coinvolgendo nella sua riflessione gli spettatori.
“Io
e te siamo mai stati a letto insieme? No? Meno male. Ci resta ancora
qualcosa di bello da fare. Il futuro è una cosa meravigliosa.”
Ecco
la risposta di Sorrentino alla presenza del passato: la scoperta (o
meglio, la riscoperta) di avere ancora, nonostante tutto, un futuro.
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