mercoledì 12 maggio 2010

Tragedia: follia e azione


Il nucleo teorico di questo intervento deve la sua esistenza a un documentario: “L’Italia del nostro scontento” (Fuskas, Muci, Le Moli, 2009).

Questo film mi ha fatto riflettere meglio sul significato della tragedia, grazie anche a Fabrizio Varesco che mi ha dato l’opportunità e lo spazio di presentarlo in occasione della sua rassegna documentariaIl cinema della realtà - Per non morire di televisione”.

Ora voglio qui compendiare e approfondire gli aspetti più teorici della questione, cercando di capire meglio il significato “sociale” della tragedia.

Nella mia presentazione, partendo dal titolo del documentario (citazione - o meglio détournement - del verso d’apertura del Riccardo III), riconoscevo l’ineludibile tragicità della situazione italiana di oggi e cercavo di capirne le ragioni.

I punti sollevati erano tre.

Primo: come nelle migliori tragedie antiche, il futuro è già stato previsto da qualche Cassandra, o indovino, che rimane inascoltato o ignorato (e che nell’intervento avevo identificato in Pasolini).

La tragicità aumenta vertiginosamente dalla previsione esatta e ineluttabile degli avvenimenti.

Nulla è più tragico di una tragedia annunciata.

Lo spettatore, infatti, sa che la voce della profezia risuona della voce divina, e che gli avvenimenti non potranno che adeguarsi al responso; tuttavia sulla scena i personaggi si muovono come se non ne fossero coscienti, quasi non sentissero il peso del destino sulle loro spalle, e con un certo fastidio per le parole del profeta.

La narrativa antica e moderna, in tutti gli ambiti, offre numerosi esempi di questi profeti, inascoltati e condannati dai personaggi, isolati dalla società, spesso esiliati o uccisi.

Mi vengono in mente le tre streghe del Macbeth; “las viejas” del teatro tragico lorquiano; il Fool del King Lear; Tiresia nell’Edipo Re; la stessa Cassandra nell’Iliade; il profeta Geremia nella tradizione biblica.

Se avete altri suggerimenti, siete pregati di interferire (ad esempio, mi verrebbe da inserire nella lista un altro ospite illustre: Gesù Cristo; ma ho ancora qualche riserva su questo punto).

I profeti, in quanto simboli della potenza divina, sono figure scomode, fastidiose, da allontanare ad ogni costo; le loro parole, rese vaghe dalla troppa verità, risultano inaccettabili. Le profezie dell’indovino Tiresia sono per Edipo “tranelli”, “indovinelli”, “fumisterie”.

È l’atavica paura della verità quella che muove i personaggi a condannare i profeti, a stigmatizzare la loro parola come folle o vanesia.

Folle”, “ciarlatano”: sono queste le accuse che vengono più spesso rivolte ai profeti, antichi e moderni. La presunta follia è dunque il tramite con una realtà più profonda, mascherata agli occhi della gente comune: per questo fastidiosa, sconcertante, inaccettabile.

Nell’Edipo Re, il personaggio razionale per antonomasia, lancia dura accuse a Tiresia; arriva a minacciarlo di morte.

Credi che potrai continuare impunemente a parlare così?”, gli chiede.
Sì, se la verità conserva i suoi diritti” risponde l’indovino.

Cassandra stessa, la profetessa per antonomasia, viene “annichilita” proprio da un “eccesso di verità”. (Uso le belle parole di Marzia Todero, che ha scritto da poco un adattamento alla tragedia omonima di Christa Wolf.)

Ancora, nel King Lear il Fool lamenta la sua sorte: 

They’ll have me whipped for speaking true; thou’lt have me whipped for lying; and sometimes I am whipped for holding my peace”. (I, IV.)

Ne La Casa de Bernarda Alba, forse il più bello dei tre “dramas rurales” di Lorca, il folle profeta è rappresentato dalla figura di Maria Josefa, la più vecchia delle sette donne protagoniste, che vive imprigionata nella sua stanza perché, diremmo noi oggi “non ci sta più con la testa” e sarebbe una vergogna farla vedere ai vicini.

Le sue previsioni, che spesso prendono la forma di filastrocche tradizionali andaluse, rimangono inascoltate, recepite come puri vaneggiamenti senili: 

“(...) Pepe el Romano es un gigante. Toda lo queréis. Pero él os va a devorar, porque vosotras sois granos de trigo.(Acto 3)

Perfino Geremia, che incarna il Verbum divino e lo diffonde con le sue profezie, è arrestato e imprigionato dalla società, calato in una cisterna fangosa per la sua follia; la sua superba pretesa è quella di parlare per dio.

Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno; ognuno si fa beffe di me. (...) Mi dicevo: non parlerò più a lui, non parlerò più a suo nome.” (Ge, 20, 7-9)

L’elemento disturbante per eccellenza: la follia. È questo il vero marchio della verità.

La follia permette di vedere le cose in altro modo, opposto alla visione razionale del mondo.
E per questo viene rifiutato dai protagonisti della tragedia, poiché, in quanto umani e razionali, non lo possono accettare, né d’altronde capire.

È una diversa lingua, anzi, un diverso alfabeto quello usato dall’indovino-folle.

La dicotomia tra follia divina (verità) e razionalità umana (incomprensione) sta alla base di ogni tragedia; e il ruolo dell’indovino-folle è il ruolo tragico per eccellenza.


Secondo punto, classico nell’ermeneutica della tragedia, era l’ineluttabilità del corso degli eventi.

Le parole della profezia non potranno mai cambiare il corso degli eventi, proprio perché radicalmente diverse dalle parole dell’eroe tragico.

Ignorate e inascoltate, suonano sorde per tutta la tragedia, i fatti si conformano a esse, e il finale non è che l’ultima conferma della “verità della follia”.

Ogni cosa accadrà da sé, anche se la copro col silenzio”, parole dello stesso Tiresia.

(Chissà, forse il folle è tale proprio perché sa di essere l’unico a sapere e allo stesso tempo è cosciente della vanità dei suoi sforzi. Questo intreccio di potenza e debolezza potrebbe essere la causa della schizofrenia tipica dell’indovino tragico. Ma questa è soltanto una suggestione.)

Come una spirale che collassa su stessa, i fatti si susseguono senza che l’uomo tragico possa cambiarli. La conclusione è il monito celeste contro l’hybris umana: è quando l’uomo si sostituisce a dio che nasce la tragedia.

Follia, ovvero consapevolezza e verità, da una parte; ineluttabilità dall’altra.

È stato questo punto che mi ha fatto sorgere un dubbio, alquanto costruttivo.

Ma se il corso degli eventi è davvero ineluttabile, e il fato non può essere cambiato, perché scrivere tragedie?

Certo, si potrebbe rispondere a questa domanda tirando in ballo una questione estetica: l’uomo accetta la tragedia solo estetizzandola. Il dolore è accettabile, acquista un senso purché sublimato ed estetizzato.

Questa risposta non mi convince del tutto.

Basterebbero, infatti, epitaffi, o lamenti funebri. Ci limiteremmo a piangere il nostro triste e invincibile destino, rinunciando ad alzare un solo dito per cambiare la realtà (o la storia, dipende dal punto di vista), ed estetizzandolo nel dolore del lamento funebre.

Mi sono risposto, in modo diverso e più o meno parzialmente, che la tragedia, per essere tale non deve lamentare i morti; al contrario, deve stimolare i vivi.

È la spinta all’azione il grande compito del drammaturgo.

Si può accettare l’ineluttabilità del fato in due modi, del tutto contrapposti. Il primo è il fatalismo: la rinuncia all’azione; la corrosiva mancanza d’immaginazione del futuro; la fede virale nella passività e nella forza d’inerzia.

Si può invece rifiutare il destino, indignarsi per il precipitare degli eventi, e impegnarsi all’azione.

Dopo esserci immedesimati nell’eroe tragico e avere vissuto una morte fittizia, dobbiamo imbrigliare la forza catartica in positivo, ed evitare una morte reale.

La tragedia offre il modello, sta a noi decidere come interpretarlo.
Invece di cadere nel fatalismo, occorre scegliere l’attivismo.

Solo allora la tragedia acquista un senso etico (quindi sociale) oltre a quello estetico.

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